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La concorrenza italiana alla dominazione britannica nel Mediterraneo si concretizza in modo vistoso negli anni Trenta: con il possesso nord orientale delle isole del Dodecanneso e con il controllo dell’Albania, l’Italia poteva controllare l’accesso nel Mare Adriatico trasformandolo in un proprio lago interno e in Africa, dalla Tripolitania, l’Italia poteva minacciare tutto il bacino del Mar Rosso.
In Palestina ed in Egitto, così come in Iraq, la propaganda fascista sobillava e affiancava i nazionalisti anti-inglesi.
Alleanza in Europa e competizione nel Mediterraneo e nel Mar Rosso: dalla concordia-discordia dei primi anni Trenta, all’atto finale della seconda guerra mondiale in Africa: l’anacronismo della politica estera fascista e la violenza dell’impresa coloniale.

E’ in questo contesto che nasce l’impresa abissina, le cui motivazioni vanno ricercate  in molteplici fattori: in primo luogo, è stata un’impresa che, secondo il Duce, doveva portare, con la creazione di un Impero, a un accrescimento del prestigio italiano nel contesto internazionale; in secondo luogo aveva una ragion d’essere nella volontà mai celata di vendicare la vergognosa cicatrice, come l’aveva chiamata D’Annunzio, della  sconfitta ad Adua nel 1896 (“the shameful scar as D’Annunzio had called it, of their defeat ad Adowa in 1896” (E.M. Robertson, “Mussolini as Empire Builder”, New York,  St. Martin Press, 1977); in terzo luogo, essa nasce dalla convinzione che in modo pacifico l’Inghilterra non avrebbe mai acconsentito ad un accrescimento del ruolo mediterraneo e mediorientale italiano e che quindi era necessario forzarle la mano, per ottenere che acconsentisse ad un’amichevole ridefinizione dei rispettivi interessi nel Mediterraneo, per giungere insomma a quell’agreement mediterraneo che avrebbe dovuto sancire l’inizio di una nuova era della politica estera italiana; in quarto luogo Mussolini decise l’impresa sulla base di motivazioni interne, più di carattere propagandistico -per rinvigorire la spinta ideale del fascismo, ormai esaurita sotto il profilo del rinnovamento sociale- che non economico.

Pare, a questo riguardo, di poter asserire che il progetto fascista comportasse per sua stessa natura il progetto della costruzione di un Impero: era e si dimostrò imperialista già dalla sua base ideologica. Le dichiarazioni di Mussolini, Dino Grandi; Guariglia, Italo Balbo e Federzoni, nel corso degli anni successivi alla marcia su Roma, sono numerose, e tutte portano a concordare sulla volontà fascista di costruire un Impero. Anche se la categoria classica dell’imperialismo in questo caso non è del tutto appropriata, dato che non lo si intende come una diretta derivazione di istanze contenute nello stato borghese precedente al fascismo, pare che Valette colga nel segno quando afferma: “Realizzare lo stato fascista nel senso pieno del termine significava creare un impero … l’espansione era necessaria per il fascismo” (“réaliser l’état fasciste au plein sense du mot signifiait créer un Empire… l’expansion était necessaire au Fascisme” (J. VALETTE, “Problèmes des relations internationales 1918-1949”, Paris, SEDES).

L’aspetto del prestigio internazionale, al di là delle motivazioni economiche, demografiche e psicologiche interne al regime, riveste un ruolo fondamentale. Probabilmente fuori tempo, anacronisticamente e senza considerare la mutata situazione internazionale del ‘900, nel 1935 l’Italia cerca quel “posto al sole”, che nel pensiero fascista le spetta di diritto, in una comunità internazionale che è ampiamente imperialista e razzista fin dal secolo precedente. Una conquista coloniale rappresenta indubbiamente agli occhi di Mussolini un traguardo di prestigio a cui l’Italia non può rinunciare. L’espansione è una necessità per il fascismo: affermarsi come grande potenza, esportare il modello fascista in Africa, creare un Impero che assicuri prosperità e rispetto alla madrepatria, è questo l’obiettivo della politica mussoliniana.

D’altronde, Pino Rauti, facendosi interprete del progetto fascista quale poteva essere nel 1935 scrive: “Etiopia quindi … , come liberazione da antichi complessi di inferiorità, come “spazio” anche psicologico e mentale da offrire alle nuove generazioni, come strada ai bordi della quale c’era il problema, difficile ma affascinante, della nostra presenza in tutto il Mediterraneo e al cui termine si profilava lo sbocco grandioso di una impresa da usare come test rivoluzionario per l’intero continente nero.

Là volevamo radicarci da grande potenza, radicandovi milioni e milioni di connazionali… E vendicare anche gli smacchi subiti prima, in quell’Africa verso la quale avevamo guardato tante volte ma senza mai riuscire a mettervi più di un timido piede, sempre pronto al dietro-front, e nella rivalsa delle sconfitte patite in malo modo, affrancarsi per sempre da tanti stati d’animo di inferiorità, da frustrazioni e complessi che dipingevano l’antica immagine dell’”Italietta” e dell’italiano eternamente con le pezze dietro, in giro a buscarsi per il mondo il pane, come una razza inferiore o incapace, o capace solo di prestazioni subordinate. Poesia? Retorica? Sogni? La storia vive anche di questo….” (P. RAUTI – R. SERMONTI, “Storia del fascismo” Vol. V, ROMA, CEN, 1977).

Sembra plausibile che in un’ideologia spiccatamente nazionalista e darwinista, quale quella fascista, rientrasse il progetto della costruzione di un Impero come affermazione decisiva della potenza nazionale. È chiaro che tale progetto rientra in una concezione geopolitica che vede l’espansione della potenza di una Nazione in senso prettamente spaziale. E questo era stato intuito dallo storico che più di ogni altro ha significato un punto di riferimento per i suoi successori: Gaetano Salvemini. Egli infatti, nella sua interpretazione della politica estera fascista come pura improvvisazione a fini propagandistici interni, aveva individuato prontamente ed in modo corretto che la “filosofia della violenza, il culto della guerra e la deificazione dello stato con il suo “fanatismo nazionalista”, la militarizzazione del sistema educativo ed il rifiuto di ogni forma di collaborazione internazionale, interpretata in chiave piuttosto social-darwinista quale lotta di tutti contro tutti… fascismo alla lunga, avrebbe significato guerra” (cit. da J. PETERSEN, La politica estera del fascismo come problema storiografico, Storia Contemporanea, III, 1972).

Non stupisce se durante il conflitto vi furono quindi vari episodi in cui i soldati italiani agli ordini di capi militari fascisti vennero più volte accusati dalla comunità internazionale di uso di armi proibite, quali le pallottole dum dum o gas ed agenti chimici quali l’iprite, e se dopo tanti anni siano ancora in fase di indagine storica e militare le efferate atrocità contro le popolazioni civili, verso le quali non si nutriva alcun rispetto umano, in quanto razza inferiore.

È triste, ma anche questo è stato il fascismo, e questo il risultato della sua politica e della sua cultura.

Nota:
“Alla conquista economica dell’Impero”, da cui sono tratte le immagini nel testo e la cover di questo articolo, è un gioco di tracciato con 95 caselle, variante del classico gioco dell’oca. Edito nel settembre 1937 dalle Officine dell’Istituto Italiano di Arti Grafiche Bergamo per celebrare la conquista dell’Etiopia e la Fondazione dell’Impero.

Leggi la Prima Parte [Qui], la II [Qui],la III [Qui], la IV [Qui]

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Marco Bianchi


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di Piermaria Romani

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