Presto di mattina /
L’aurora della parola e la sua traiettoria
Tempo di lettura: 8 minuti
Presto di mattina. L’aurora della parola e la sua traiettoria
La Parola
Sogno, grido, miracolo spezzante,
Seme d’amore nell’umana notte,
Speranza, fiore, canto,
Ora accadrà che cenere prevalga?
(G. Ungaretti, Vita d’uomo, 232)
L’esodo della parola
Stamattina, abbandonato sul primo banco in chiesa, un mazzolino di bacche rosse e spine di una rosa selvatica. L’ho raccolto e messo tra le mani oranti e immobili di Nasael, il silenzioso angelo del presbiterio di santa Francesca Romana. È l’angelo dell’esodo, il cui nome in ebraico significa ‘il Dio che rialza e fa partire’. Fa partire il desiderio, le parole anche: quelle solo concepite e ogni preghiera muta in chiuse labbra.
Ho pensato alle spine, grida di silenzio. Le bacche rosse, invece, promesse che porteranno frutto a suo tempo.
Ecco, mi sono detto: parole, perdute e ritrovate, custodite nel silenzio, di una madre che aspetta un figlio che ancora non ritorna.
L’esilio della Parola
Un doppio esilio, quello del divino nell’umano e quello, destino di ogni prece, dell’umano nel divino. Un solo roveto ardente che brucia senza consumare, dolente pianta e promessa di futuro. Il dolore del distacco non passa e ferita non rimargina, come fu dal primo giorno; ma bacche rosse tra le spine come fiamme vive, ridestano l’attesa di Qualcuno, negli animi a lui aspiranti e da lui ispirati, da lui attratti e a lui viandanti, come parole non nate in attesa del soffio, dell’ispirazione.
Al discepolo che chiedeva perché Dio fosse apparso in un roveto, il Rabbi Joshua rispose che ciò era per insegnare che non vi è alcun luogo sulla terra in cui Dio non sia presente: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: “Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele”. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): “In tutte le loro angustie Egli fu afflitto”» (da Esodo Rabhah, 2,5).
Come è possibile questo?
Ci soccorre un aforisma; una forma breve e incisiva che sintetizza l’esperienza spirituale di Ignazio di Loyola e dei suoi compagni circa la presenza del divino nell’umano, dell’infinito nel finito, della tenerezza nella forza: “Non esser limitato da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino” (Non coerceri a maximo contineri tamen a minimo divinum est).
Responsabilità delle parole per investigare il mondo e il suo mistero
È stato questo il dono e il compito testimoniato proprio da Giuseppe Pontiggia che, per amore del linguaggio chiaro, aveva il gusto degli aforismi attraverso cui condensare con precisione un intero universo in forme concise:
«La radice della parola aforisma è la stessa di orizzonte. Il verbo greco horίzo significa delimitare. Orizzonte è all’origine il cerchio che si apre allo sguardo» (Opere, a cura di Daniela Marcheschi, I Meridiani, Mondadori Editore, Milano 2004, CVI).
E continua anche ora ad essere guida affabile e affidabile in quella mappa variegata e cangiante, ritmica e prospettica della sua opera testuale, nel nostro viaggio in compagnia delle parole e della letteratura.
«Uno scrittore che si avventura nella narrazione non tende a portare alla luce sé stesso (attività che risulta singolarmente gratificante per troppe persone), ma cerca in una terra incognita il punto di incontro con sé stesso e con gli altri. Questo viaggio comporta la traversata del linguaggio e il suo ritrovamento» (Opere, 1495).
Dalle radici all’apice dei rami fruttiferi
La letteratura è un itinerario vitale di ricerca e verifica, architettura di un cosmo che si costruisce come i cerchi di un albero e dei suoi rami attraverso la linfa, in tensione tra fuori e dentro sotto e sopra, verità e bellezza e soglia permanente tra ogni albero e l’intera foresta delle parole.
Egli non ha fatto della letteratura un’archeologia. Essa «ha un senso solo se si confronta con le cose essenziali che ci riguardano». Non è la ripetizione del già detto, ma la scoperta del non ancora, di ciò che verrà.
Così scriveva sul senso della letteratura ne L’isola Volante: «Nella sua accezione debole il senso della letteratura è modesto. Si può capire l’Arcadia e riconoscerne la funzione, anche civile e morale, nella società del Seicento: ma far parte di un gregge di pastori poetanti non merita probabilmente tutte le energie e le pene che la letteratura esige.
I suoi imbarazzanti rituali si ripetono anche oggi in forme diverse e giustificano sia le adesioni sia le assenze. Nella sua accezione forte si sviluppa in una duplice direzione, individuale e collettiva. Nel cielo di una vita può diventare una costellazione: interrogazione sull’ esistere, gioco rivelatore, scoperta inesauribile di quello che non si sapeva di sapere.
Il luogo comune che in letteratura tutto è stato detto – così rassicurante, così deludente – ci aiuta con la sua falsità ad avvicinare un punto essenziale: che la letteratura è sempre sorpresa e conferma. Non ricalca il noto (altrimenti non avremmo la sorpresa), ma al tempo stesso svela quell’ignoto che non ci è estraneo» (ivi, 1494-1495).
Confini che creano sconfinatezza
«Più in là, sì più in là, più in là, più in là…» (Gerard Manley Hopkins). C’è una ulteriorità che custodisce il linguaggio con cura amorosa. Questo sguardo penetrante fu reso possibile a Pontiggia per una scelta: quella di porre come centrale la correlazione tra etica e linguaggio, ovvero la costante ricerca della dimensione etica del linguaggio unita alla responsabilità verso le parole.
Si diventa responsabili se ne conosci la storia, come ascolto delle ragioni e degli affetti delle parole. Responsabile «solo se possiedi la “storia” di una parola, le sue risonanze remote, i suoi molteplici significati, poi sei in grado di capirla, di usarla da scrittore o da studioso, di farne vibrare tutte le armoniche» (Giuseppe Pontiggia, Investigare il mondo. Atti del Convegno Internazionale Di Studi nel decimo anniversario della scomparsa, Interlinea, Novara 2005, 41).
«Indagare la storia etimologica delle parole, riportarne alla luce il significato e il potere originario, significa in primo luogo risvegliare lo stupore del lettore di fronte ad esse. Lo stupore è elemento primo dell’intuizione creativa, il nucleo originario da cui trae origine l’opera.
Pontiggia si pone in linea col pensiero espresso da gran parte della tradizione classica – “lo stupore viene sempre posto, da Aristotele, a Cartesio a Einstein, alla radice del conoscere” – e che trova una teorizzazione efficace, nel Novecento, all’interno dell’opera di Jacques Maritain. L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia.
Lo stupore di fronte alla storia etimologica dei termini viene accresciuto dal senso di ignoto che ogni singola parola porta in sé. Una percezione costante che, attraverso l’analisi linguistica, permea e dà forma, a livello estetico e morale, all’intera architettura narrativa» (G. Vaccari, Etica e fiducia nel linguaggio, in Investigare il mondo, 159).
Etica e stile persuasivo
Sono queste le polarità a cui si ispira e si sviluppa la sua scrittura e il suo insegnamento nei corsi di scrittura creativa. Questi infatti «non erano tenuti per proporre, suggerire o imporre un modello unico, bensì per sensibilizzare e modificare i tanti pregiudizi e la disposizione mentale e operativa dei suoi interlocutori di fronte al problema dello scrivere e all’oralità stessa, sovente fraintesa quale forma di “spontaneità espressiva”.
I suoi erano quindi corsi per “contribuire alla formazione di una coscienza del linguaggio, che sia insieme etica e retorico-espressiva”. Etica, perché si considerava essenziale “l’acquisizione di un linguaggio responsabile”; e retorico-espressiva perché si mirava “alla persuasione in una duplice valenza: psicologica ed estetica”.
L’insegnamento di Pontiggia mirava così non a informare, non a dare regole precostituite, bensì a praticare e comunicare la forza dell’esperienza della parola in sé e della parola letteraria, vissuta con intensità» (D. Marcheschi, La fabbrica del testo, in Giuseppe Pontiggia, Le parole necessarie: tecniche della scrittura e utopie della lettura, Marietti 1820, Bologna 2018, 10-11).
Il coraggio di attingere in sé stessi
Per Pontiggia occorre ritrovare il significato più autentico della parola “retorica” come era in origine, oggi invece sinonimo di tecnica artificiosa e falsa. Dice quello stile di relazione, un modo di porsi nei confronti dell’altro, nell’oralità come nella scrittura, che non facilita solo l’espressione del pensiero ma addirittura serve a trovarlo, a coglierlo nell’atto stesso comunicativo, capace di suscitare nell’immediatezza del discorso nuove forme di ispirazioni nel dire e nello scrivere.
Non basta un retroterra di conoscenze, di studi, di letture: «è certo che, per scrivere anche in campo critico, bisogna avere ad un certo punto il coraggio di attingere in sé stessi con una risolutezza radicale per trovare veramente le ragioni del nostro rapporto con il testo. L’atteggiamento che suggerirei è quello di una concentrazione fiduciosa su sé stessi, nel senso di attingere a sé stessi per arrivare a dire quello che solamente chi scrive può dire» (Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere).
Secondo Giuseppe Pontiggia scrivere (come parlare) «è progetto e sorpresa; e questi due elementi sono, insieme con l’ispirazione, l’essenza stessa della creatività anche in campo letterario. È progetto, come insegna l’etimologia del termine, in quanto ciò che è gettato in avanti: un procedere, un avanzamento in una costruzione architettonica di cose, che si vogliono esprimere, e una attenzione premurosa per esse e le parole che le dicono, nell’ideazione e nel farsi delle frasi, nella definizione del nostro pensiero» (D. Marcheschi, La fabbrica del testo, 5).
Occorrerà poi essere consapevoli della differenza tra un discorso autoritario ed uno persuasivo, tra un linguaggio autorevole e l’arte della retorica, avendo presente l’etimologia latina a cui attingono sia il termine ‘autore’, sia ‘autorità’.
Augere = portare all’esistenza, far nascere qualcosa; da cui “accrescere”, “aumentare”, “ingrandire” qualcosa che esiste già, ma allo stesso verbo è possibile correlare un significato più forte: “generare dal proprio seno” perché l’autorità deriva da chi l’agisce, dal suo autore (Emile Benveniste).
«La poesia condensa in una metafora l’aurora della parola e la sua traiettoria»
(Pontiggia, Opere, 1369)
Scrive Pontiggia ne Il Giardino delle esperidi (Opere, 638): «“L’amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare”. Ma perché il silenzio e perché la poesia? C’è una frase di Thomas Mann che suggerisce una risposta: “Eterno è il mondo delle cose che non si possono esprimere, a meno che si esprimano bene”».
Vedere un Mondo in un granello di sabbia,
E un Cielo in un fiore selvatico,
Tenere l’Infinito nel cavo della mano
E l’Eternità in un’ora
(William Blake)
Leggera scorre e agita.
La Sabbia.
Infine, nella batea rimane una pepita
(Guilherme de Almeida).
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Sostieni periscopio!
Andrea Zerbini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
Lascia un commento