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6 Febbraio 2018

La lezione di Macerata

Tempo di lettura: 3 minuti


Dai cieli fiscali promessi dai partiti alla dura realtà di uno scontro sociale tra accoglienza e rifiuto

Mi ero proprio dimenticato di una città di nome Macerata, tanto piccola quanto decentrata. Proprio questo lembo periferico della penisola ha conquistato in questi giorni gli onori della cronaca e deviato, di un poco e non so per quanto tempo, una battaglia elettorale tutta basata sulle promesse fiscali dei vari schieramenti e in particolare dei populisti di vecchio stampo o di nuovo conio.

Alle astronomiche promesse, lo dice anche un recente sondaggio, non crede davvero più nessuno; anzi, quelle decine o centinaia di miliardi che tutti, se vincitori, ci vogliono assolutamente versare nelle tasche hanno qualcosa di surreale. Segno forse che il populismo, a forza di alzare la posta, ha perso il senso della misura e molta credibilità. Era molto più concreto ed efficace Achille Lauro: consegnava una scarpa destra e, solo dopo il voto, la scarpa gemella per il piede sinistro.
Se le promesse elettorali sono surreali, le pallottole non lo sono per nulla: sono di piombo e se ti colpiscono possono mandarti all’altro mondo. Così, il raid di Macerata del (pazzo?) ex candidato di Salvini e cultore appassionato di Hitler, Mussolini e altre frattaglie fasciste, ha spostato il fuoco della battaglia tra i partiti. Dai cieli fiscali alla dura realtà delle nostre strade e delle nostre piazze.

Nei commenti e nelle reciproche polemiche tra i vari leader è rispuntato fuori il tema del fascismo. Se cioè occorra o meno una nuova legge che – oltre al netto divieto stabilito dal nostro testo costituzionale – ponga un argine efficace al fenomeno di un risorgente nazismo e fascismo. E ancora: i nuovi gruppi e gruppuscoli della destra estrema, Casa Pound in testa, sono gli eredi diretti del fascio littorio oppure costituiscono una realtà affatto nuova, figlia delle periferie degradate e impoverite e degli intrecci tra mafie ed estremismi?
Il tema è interessante, se ne potrebbe discutere per ore, ma dietro al ‘tiro all’emigrato’ di Macerata e a una miriade di altri episodi di intolleranza, il fascismo – vecchio o nuovo che sia – c’entra forse solo di striscio, sembra essere solo una maschera, un modo estremo e criminale per combattere una battaglia molto più vasta. Una battaglia in atto nel nostro Paese ormai da qualche anno, che non coinvolge solo minoranze militanti (e militari), ma che riguarda il cuore stesso del nostro vivere sociale.

Accoglienza o rifiuto, solidarietà o chiusura, dialogo o difesa dell’egoismo identitario. E’ su queste parole, su questi comportamenti che in ogni città, in ogni quartiere, in ogni piazza si sta combattendo la battaglia. Il suo esito appare ancora incerto – neppure queste elezioni potranno dare una soluzione definitiva in un senso o nell’altro – e almeno per il prossimo decennio saremo costretti bene o male a prendere posizione. E non basterà scandalizzarsi per il candidato governatore Fontana che si proclama difensore della razza bianca, o irridere al “Prima gli Italiani” ossessivamente ripetuto da Giorgia Meloni. Non basterà cioè prendere le distanze dalle parole estreme e stigmatizzare questo o quell’episodio di razzismo o squadrismo.
Forse qualcuno pensa che possiamo cavarcela come semplici spettatori. Come se fossimo appena usciti da un film e ci venisse chiesto che ne pensiamo di questa o quella scena. Potere della televisione e della rete! Invece nel film – cioè dentro la battaglia che segnerà il volto della nostra società di domani mattina– ci siamo anche noi. Tra i protagonisti. O tra gli sconfitti.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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