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Una figura “proteiforme”, multitasking, dai ritmi strani e frenetici, che oltre a saper scrivere deve offrire sempre più ai propri lettori un’esperienza immersiva sull’argomento di cui scrive, con competenze, o skills come va tanto di moda dire oggi, su grafica e design dell’informazione, e poi su fundraising, su redazione di budget e rendicontazione delle spese e dei risultati.

Signore e signori: ecco a voi il giornalista del ventunesimo secolo. O almeno questa è l’opinione di Stefano Liberti, free-lance cresciuto nella redazione del Manifesto, Jacopo Ottaviani, laurea triennale in informatica, esperto di data-journalism, ed Elisabetta Demartis, proveniente dal mondo della cooperazione allo sviluppo, protagonisti ieri pomeriggio al festival di Internazionale dell’incontro “I giornalisti del ventunesimo secolo” nella sala San Francesco.
Stefano, il più grande dei tre, è ancora a metà della metamorfosi e utilizza le potenzialità degli strumenti multimediali per inchieste ‘vecchio stampo’. Secondo lui, “la vera crisi della carta stampata sta nel fatto che il giornale non è più l’espressione collettiva di un’idea”. Perciò da una parte ci sono “i giornalisti della redazione, sempre più assimilabili a impiegati con direttive da seguire” e dall’altra i free lance che, soprattutto in Italia e nel sud dell’Europa, “vengono trattati un po’ come carne da macello”, anche se “con sempre meno persone nelle redazioni, sono in realtà loro a fare il lavoro sul campo”. Poi, come al solito, c’è anche il problema economico: “ho lasciato la redazione del Manifesto perché non riuscivo più a fare giornalismo come quando ho iniziato”. “I giornali non producono più nulla, pubblicano: diventano i media partner di lavori di giornalisti finanziati da altri”. Perché, anche se “i giornali non hanno più mezzi economici”, “il giornalismo è vivo come lo è il desiderio di informazione”.
Jacopo ed Elisabetta, invece, incarnano già la figura ibrida di un futuro che è già qui: entrambi non riescono a mantenersi solo con il loro lavoro giornalistico, anzi la loro maggiore fonte di sostentamento proviene dall’attività di formazione nel caso di Jacopo e dalle collaborazioni accademiche o con il mondo delle Ong nel caso di Elisabetta.

I lavori che hanno presentato venerdì pomeriggio – un’inchiesta sulle distorsioni del commercio globale seguendo la filiera del pomodoro italiano, una sul destino dei rifiuti elettrici ed elettronici in Ghana e una sulle start-up e sull’utilizzo dell’ict nel settore agricolo in Africa – sono stati finanziati da bandi dello European journalist center, che fra i suoi finanziatori ha anche la fondazione di Bill e Melinda Gates.
Reportage come i loro possono arrivare a costare anche 20-25.000 euro e portare via fino a sei mesi di lavoro fra ricerche preliminari, sul campo e produzione vera e propria: queste sono cifre che “forse solo un paio di grandi giornali americani possono permettersi”, dice Jacopo. Secondo loro, il giornalista deve essere in grado di cercarsi e crearsi un proprio spazio, confrontandosi con nuovi attori, come le fondazioni o le Ong, soprattutto le più strutturate, che cercano persone in grado di raccontare e dare visibilità ai temi e ai progetti sui cui lavorano. Il reportage multimediale, attraverso l’integrazione fra video, testi, info-grafiche, sta sempre più diventando uno strumento di advocacy.

A questo punto le questioni da porsi sono due, una a monte e una a valle del “prodotto”, come lo hanno più volte chiamato i nostri tre. A monte: chi finanzia quanta voce in capitolo ha o vuole avere? A valle: qual è l’entità e il ruolo del pubblico?
A quanto pare nessuno dei tre ha avuto problemi di ingerenza nei contenuti anzi, ha specificato Stefano, “molte volte chi finanzia vede il lavoro già pubblicato”. Elisabetta con il suo lavoro sulle start up africane ha costruito “una rete di contatti” che ha dato vita a una piattaforma web con una sezione di storytelling in cui chi ha storie simili da raccontare lo può fare: un progetto con queste caratteristiche è per sua natura difficilmente pilotabile.
La questione diventa più complessa quando si parla dell’impatto di questi reportage sul pubblico e del suo ruolo: “è una questione controversa”, ha detto Jacopo. Non è un caso però che sia proprio uno dei temi che interessano di più alle fondazioni e alle Ong finanziatrici.

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Federica Pezzoli


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di Piermaria Romani

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5 titoli evergreen dall’archivio di 50.000 titoli  di Periscopio

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

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Francesco Monini
direttore responsabile


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