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Vite di carta. In viaggio con Tolomeo in un giorno di pioggia.

Non sono mai andata così lontano in una giornata di pioggia. Lontano sui libri, che ho aperti sul tavolo di lavoro: alcuni paralleli tra loro mentre altri disegnano linee oblique, uno è perpendicolare e guarda verso lo scaffale da cui è stato tolto poco fa. Manca solo il mappamondo, su cui dice di voler viaggiare anche il poeta ferrarese più straordinario, Ludovico Ariosto. Piuttosto che porsi al seguito del cardinale Ippolito d’Este, patendo i disagi dei lunghi viaggi, nella Satira III composta nel 1518 egli sostiene di voler conoscere “il resto de la terra…con Ptolomeo”, cioè su mappe e planisferi, e percorrere “ tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte”.

Sono nel chiuso della mia casa e fuori il cielo è scuro e gravido di pioggia, è una settimana di tempo incostante, pieno di vento e di temporali che si accavallano. Le parole di Ovidio, che scrive da Tomi sul Mar Nero e lamenta di sentirsi lontano da Roma e dal conforto della sua casa e degli amici, escono dal volume che ho davanti. Leggo qua e là, senza darmi un ordine, alcuni passi dalla elegia10 del terzo libro dei Tristia, le poesie del lamento composte dall’8 d.C., l’anno della partenza per l’esilio a Tomi, da cui emerge lo sconforto di vivere “nel cuore stesso della barbarie”, circondato da fiere genti come i Bessi, i Geti e i Sarmati, che vivono praticando la guerra. Proprio il poeta elegiaco per eccellenza dell’epoca augustea, colui che aveva da sempre aborrito l’uso delle armi e si era dedicato semmai alla militanza nell’arte di amare, ha trovato in una terra dominata da un clima gelido e da uomini violenti la sua punizione. Probabilmente la relegatio sul Mar Nero è dovuta al carattere licenzioso dell’Ars amatoria scritta pochi anni prima; Ovidio non lo dice con chiarezza, tuttavia lascia intendere, che l’aver composto un’opera che educa uomini e donne alla seduzione può aver spinto Augusto ad allontanarlo da Roma, pur senza togliergli la cittadinanza e i beni.

Accanto a questo ho aperto sul tavolo un altro volumetto, il Viaggio in Italia di Goethe, esattamente alla pagina in cui l’illustre viaggatore sta per lasciare Roma nell’aprile del 1788. Dopo una passeggiata notturna dal Campidoglio alla Via Sacra fino alla grande mole del Colosseo, Goethe ha l’animo turbato dalla bellezza sublime dei luoghi e sente che la summa del suo soggiorno nell’Urbe è tutta nel suo stato d’animo tra eroico ed elegiaco, una “propensione” che lo avvicina a un altro grande poeta. Dice: “E come non poteva, in simili istanti, rivivere nella mia mente l’elegia d’Ovidio, che, esiliato lui pure, aveva dovuto lasciare Roma in una notte di plenilunio? Cum repeto noctem! Quel suo rimpianto pieno di tristezza e d’angoscia, là dal remoto Mar Nero, mi perseguitava”. Cerca nella propria memoria alcuni altri versi dai Tristia, dalla terza elegia del libro I, e li ripete assaporandone il pathos: “Quando risorge in me la tristissima immagine di quella notte/ che fu l’ultima ora a me concessa in Roma/ quando rivivo la notte (cum repeto noctem) in cui lasciai tante cose care,/ qualche lacrima ancora mi scorre dagli occhi”. La nostalgia di Ovidio penetra in quella di Goethe e la amplifica: da eco letteraria del passato investe la concretezza del suo presente. Goethe forse pensa che a Roma non tornerà più, così come non poté più tornarvi Ovidio, nonostante le suppliche sue e della moglie Fabia e degli amici.

Affinità che scavalcano il tempo.

Oggi le letture sono queste. Mi sono chiusa nello studio a leggere, dopo le incombenze domestiche e i piccoli svaghi della giornata trascorsa in casa; facendolo mi sono presa un po’ in giro e mi sono detta le parole che usa Machiavelli nella celebre lettera all’amico Vettori, del dicembre 1513, quando racconta come trascorre ogni sua giornata nell’esilio nella campagna fiorentina e dice che la sera dopo le incombenze quotidiane e qualche partita a carte all’osteria veste abiti curiali e dialoga con gli antichi scrittori.

Tutto è nato dal dover riguardare un’altra opera ovidiana, Heroides, su cui deve prepararsi una giovane amica che prepara una esposizione di letteratura latina da fare alla sua classe di quarta Liceo. Tra le 15 lettere inviate da donne celebri del mito ai loro amanti che le hanno abbandonate ha scelto due testi di importanza particolare: l’epistola scritta da Arianna a Teseo e quella di Saffo, l’unica figura ad avere una identità storica, per il suo Faone. Ricorro a Internet per recuperare almeno il testo di Arianna in latino con la traduzione a lato, quindi faccio spazio al tablet nel bel mezzo di volumi e volumetti. Ne è rimasto poco sul tavolo, tanto che il Liber di Catullo viene appoggiato sulla antologia latina a perpendicolo. Voglio riguardare il carme LXIV e ritrovare una Arianna diversa da quella ovidiana, nel mio ricordo è più passionale e risentita. Eccola infatti implorare le dee della vendetta, le Eumenidi, perché ascoltino i suoi singhiozzi mentre sale sugli scogli scoscesi dell’isola di Dia, dove Teseo l’ha abbandonata dopo avere compiuto l’impresa del Minotauro e dopo averla amata. La fides tradita genera in lei un furor che non ritrovo nel testo di Ovidio e mi fa pensare semmai alla Didone abbandonata da Enea che troneggia nel quarto libro dell’Eneide virgiliana. Strana coincidenza nella vita di Ovidio: ha scritto un’opera al femminile per dare voce al senso di lontananza che provano le sue eroine e pochi anni dopo lo stesso spaesamento gli tocca in sorte, quando viene relegato a Tomi.

Mi fermo. La mano non scatta per estrarre dallo scaffale il capolavoro di Virgilio. Invece mi viene in mente un libro a cui non ho pensato fin qui, un libro comprato di recente che occupa un posto lontanissimo sulla linea del tempo rispetto a questi. Salgo in camera e percorro fisicamente una distanza. elena ferrante i giorni dell'abbandonoE’ un libro che ho in animo di leggere e si trova in lista d’attesa sulla libreria che avvolge il mio letto; è di Elena Ferrante, che l’ha pubblicato nel 2002, nove anni prima de L’amica geniale. Il titolo, I giorni dell’abbandono [Qui], mi ha attratta perché rivela subito quale dolore viene raccontato. Rileggo il risvolto di copertina: “Una donna ancora giovane, serena e appagata, tutt’altro che inattiva nel cerchio sicuro della famiglia, viene abbandonata all’improvviso dal marito e precipita in un gorgo oscuro e antico”. Appunto, antico. Lascio il libro dove si trova e mi riprometto di leggerlo molto presto. Un altro libro al femminile, scritto nel nostro tempo. La città in cui nasce la storia leggo che è Torino.

Scendo a spegnere la luce nello studio e smetto di spostarmi da un libro all’altro, da una città all’altra sul cursore del tempo. Anche per Tolomeo è ora di riposare.

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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