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“Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna.” Ho sempre trovata fastidiosa questa azzardata affermazione attribuita a Virginia Woolf, nelle cui intenzioni si nascondeva sicuramente il nobile proposito di togliere la figura femminile dall’ombra per farne fonte di ispirazione, una specie di spirito guida per l’uomo, consigliera assennata, affidabile e insostituibile. E’ quella preposizione impropria ’dietro’ che fa sorridere, perché segnala sempre e comunque una collocazione ben precisa di secondarietà. I saggi latini proponevano “Dotata animi mulier virum regit.” (Una donna dotata di spirito sorregge l’uomo), che appare una dichiarazione un po’ diversa, molto più dignitosa ed equa. Il pensiero e le considerazioni vanno istintivamente nella direzione di tutte le first lady che l’America ha visto sfilare nella sua Storia, a partire da Martha Washington (1731), la prima first lady degli Stati Uniti d’America.

Scorrendo le biografie eccellenti di queste figure, ci accorgiamo come sia un falso mito quello della donna che determinava, soprattutto nel passato, i destini della Nazione, gli esiti dei conflitti interni ed esterni, la vita e le condizioni dei popoli, esercitando pesantemente la sua influenza sulle scelte strategiche per mezzo della visibilità del marito. E’ la normalità che semmai contraddistingue queste figure che si sono rincorse e succedute alla Casa Bianca, una normalità che segna gran parte la vita pubblica e privata, con tutti gli stigma di qualsiasi altra donna: la preoccupazione e il senso di responsabilità nella conduzione domestica, il trasporto affettivo per la prole da educare, le relazioni più immediate e vicine, la malattia, l’accudimento, la morte. Solo pochi nomi di first lady, nel lungo elenco del passato, possono essere ricordati per un ricco e riconosciuto contributo di affiancamento al Presidente, attraverso un’intensa e duratura azione politica e rappresentatività pubblicamente valorizzata.

Una di queste è sicuramente Abigail Adams (1744) che scambiò un eccezionale epistolario col marito, durante la sua permanenza a Filadelfia, contenente consigli, esortazioni, incoraggiamenti, pareri e valutazioni sul governo e sulla politica del tempo. Le lettere rimangono un’importante testimonianza storica della Guerra di Indipendenza, tracciandone i contorni, i retroscena e i motivi ispiratori. Louisa Catherina Adams (1775) passò agli annali per la sua grande cultura europea che le permise di intessere validi rapporti diplomatici utili al governo americano, intrattenendo relazioni strette con la Prussia e molte casate di rilievo, in completa solitudine, ignorata e disconosciuta dal marito. Harriet Lane (1830) passa alla storia per la grande energia che prodigò nell’impegno sociale, votato al miglioramento delle condizioni di vita dei nativi americani nelle riserve indiane, aprendo la Casa Bianca al mondo della cultura, dando spazio a musicisti ed artisti di ogni genere, prima moderna first lady. Edith Wilson (1872) fu denominata ‘primo Presidente donna degli USA’ per essersi sostituita in molte occasioni al marito, colpito da ictus e Florence Hardyng (1860) partecipò attivamente alla campagna elettorale, distinguendosi per la celebre frase “Ho soltanto un hobby vero: mio marito”.

E ancora, Lou Hoover (1874) fu la prima a parlare frequentemente alla radio per raggiungere il più vasto elettorato possibile. Anna Eleanor Roosvelt (1884) affiancò con grande competenza il marito nelle scelte e linee politiche del New Deal, partecipando alla creazione delle Nazioni Unite e dando il suo contributo alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Molte immagini di first lady conducono sicuramente ad uno stereotipo ben lontano da quello di prima donna d’America; un esempio, Lucy Hayes (1831), che impose restrizioni alla Casa Bianca guadagnandosi il soprannome di ‘Lemonade Lucy’ dopo aver proibito la somministrazione di alcolici in qualsiasi ricevimento, refrattaria alle danze, contraria alle corse di cavalli e agli spettacoli teatrali, impegnata entusiasticamente solo nella conduzione degli inni sacri nelle celebrazioni. Caroline Harrison (1832) non utilizzò mai gli interruttori, spaventata dall’introduzione dell’elettricità nella dimora presidenziale e Mamie Eisenhower (1896), grande estimatrice dell’eleganza e del glamour, viene ricordata anche perché artefice di uno speciale budino, il “Mamie’s Million Dollar fudge”, confezionato poi dalle massaie di tutti gli States e menzionato in numerosi ricettari. Rachel Jackson (1767) fu accusata di bigamia per essersi legata al Presidente prima ancora che il precedente matrimonio fosse sciolto, travolgendo Andrew Jackson in uno scandalo durante la campagna elettorale.

Molte first lady morirono precocemente e alcune, alla loro morte lasciarono a fianco del marito Presidente una figlia, una nipote, una nuora come figura femminile di rappresentanza. Un sorprendente numero di mogli di Presidenti americani era molto cagionevole di salute e molte di esse non poterono assolvere al loro ruolo ufficiale; alcune sofferenti fin da giovani di tubercolosi e affezioni polmonari, qualcuna di depressione, ictus, malaria, epilessia, paralisi. E poi, arriviamo a quelle first lady che hanno accompagnato gli Stati Uniti nella Storia dei nostri giorni, quella di cui conosciamo tutto. La coraggiosa, intelligente Jacqueline Kennedy e la sua turbolenta storia; la grande viaggiatrice Pat Nixon, la prima a visitare anche territori di guerra; Nancy Reagan, attrice finita nella famigerata Holliwood Blacklist, per poi approdare alla casa Bianca; Hillary Clinton, first lady prima ancora che candidata alle presidenziali 2016; la determinata Michelle Obama, le cui parole profetiche in un discorso a Medison di qualche tempo fa echeggiano ancora: “For the first time in my adult lifetime, I’m really proud of my country, and not just because Barack has done well, but because I think people are hungry for change” (Per la prima volta nella mia vita sono orgogliosa del mio Paese, e non perché Barack ha fatto cose buone, ma perché penso che la gente sia affamata di cambiamento.)

Melania Trump (1970), il futuro ancora da scrivere.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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