Attorno a Nino Barbantini e alla palazzina di Marfisa d’Este:
un patrimonio da non dilapidare
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Attorno a Nino Barbantini e alla palazzina di Marfisa d’Este:
un patrimonio da non dilapidare
Nel 1838 il conte Francesco Avventi, a proposito delle riscoperte immagini di Schifanoia, scriveva: “Sono queste preziosissime per noi specialmente, giacchè in esse rileviamo i costumi di quella età, essendovi effigiati personaggi, vestiarii e cose, eseguite e tratte dal vero, con la massima precisione, e tale da ricordarci le fisionomie e le pratiche degli avi nostri”.
Da questo momento credo si possa far partire l’associazione, non solo visiva, degli affreschi con l’invenzione di una ‘età dell’oro’ per la città di Ferrara, identificabile nei due secoli del vicariato estense.
Molto schematizzo per ricordare che il processo di unificazione nazionale annullò la presenza e volle cancellare la memoria degli Stati preunitari, compreso quello pontificio, ai quali fu addebitato di essere di ostacolo alla creazione dell’Italia unita. A processo in atto è comprensibile la contrapposizione fra il periodo estense e quello legatizio: Ferrara dal 1598 sino al 1860 fu Legazione pontificia. Raggiunta l’unificazione politica, tale opinione non è più accettabile, anche se è rimasta e rimane nel sentire comune e nelle scelte delle istituzioni.
A conferma ed esemplificazione cito il giudizio di Giuseppe Agnelli (1856-1940): la sua opinione è importante perchè fu tra i primi a fattivamente impegnarsi per il recupero della palazzina di Marfisa d’Este. Bibliotecario della Ariostea, presidente della Ferrariae Decus, fu personaggio eminente nella Ferrara fra fine Ottocento e prima metà del Novecento.
“Un senso di povertà morale serpeggia dovunque; non più concordia di nobili spiriti verso un’idea, bensì comunanza di piccole anime nelle Accademie senza idee, che sorgono con titoli grotteschi e s’accapigliano in gare vergognose e muoion d’inedia e rinascono moriture sempre pronte a concedere il passaporto poetico per l’ingresso nella società aristocratica. … Si determina a grado a grado un movimento di umiliazione civile, che il governo della Santa Sede asseconda; giova cancellare nei nuovi sudditi la memoria del passato, rendere debole e sonnolento l’animo loro; … No, la magnanimità non fu intesa dalla pigra anima cittadina! A cui, meglio dei mercanti avveduti, taluni cardinali o scaltri o violenti rubarono i segni della stagione di gloria”.
Agnelli, allievo a Bologna di Giosuè Carducci, non sa dimenticare i versi che il poeta dedica Alla Città di Ferrara in particolare:
“La lupa con un guizzo del rabido artiglio la bianca aquila ghermì al petto, la straziò nell’ale. Maledetta sie tu, maledetta sempre, dovunque gentilezza fiorisce, nobiltade apre il volo, sii maledetta, o vecchia vaticana lupa cruenta”.
Ancora nel 1996 si parla di “infausto 1598”; Andrea Emiliani scriverà: Ferrara, “città devoluta nel 1598 ed allontanata con violenza dalla storia”.
Ferrara, “città del silenzio”, “città morta”, diviene uno stereotipo il quale viene fatto proprio dagli stessi ferraresi che lo assumono a testimonianza del degrado legatizio in opposizione all’antica gloria estense.
Ancora Giuseppe Agnelli scriverà: “perisce in turpe abbandono la palazzina di colei, che volle morire in Ferrara perché sapesse la storia come donna degli Este non aveva ceduto agli usurpatori la terra di sua famiglia.”
La Palazzina non è l’unico edificio che concorre a dare corpo e sostanza ad una formula che pare accettazione di uno stato: utilizzato a testimoniare una nuova letteraria ed affascinante qualità di Ferrara. Parallela è l’indicazione del palazzo detto di Ludovico il Moro.
Agnelli così lo descriverà nel 1902:
“Il palazzo abitato da molte povere famiglie, che lo popolano di prole numerosissima, è in condizioni di trascuranza pietosa, labenti e scrostate le muraglie, le finestre cascano a pezzi, le arcate della loggia furono chiuse con pietre e tavole malamente connesse.”
Dopo l’ancora utile testo di Gualtiero Medri (1938), le vicende della Palazzina sono ripercorse, analiticamente e con ampia edizione di documenti, nel necessario volume apparso nel 1996 a cura di Anna Maria Travagli Visser.
Mi limito, schematicamente, ad indicare alcuni degli usi ai quali il complesso di edifici fu adibito prima che l’affidamento, nel 1909, alla società Ferrariae Decus aprisse al tema e al problema del recupero.
Alla morte di Marfisa il complesso di San Silvestro sarà abitato dall’agente dei Cybo, il padre dello storico Cesare Cittadella, e parzialmente affittato.
La rinuncia dei Cybo a mantenere un proprio fiduciario in città apre a vendite, a demolizioni e ad usi impropri. Nel corso del XIX secolo sarà sede di una fonderia, di una fabbrica di candele, di un filatoio di seta, di una fabbrica di saponi, di una fabbrica di chiodi, di un magazzino di canapa, di un teatro per dilettanti, di una società ginnastica, abitazione di famiglie indigenti. Questo anche dopo l’acquisto da parte del Comune, nel 1861.
Agli inizi del Novecento il complesso è stato in gran parte demolito, restano l’edificio centrale, la loggia e l’ampia sala collegata. Il tutto in stato di abbandono. La Ferrariae Decus, nata per la salvaguardia delle memorie cittadine, compatibilmente con le disponibilità finanziarie, inizia il recupero sia delle strutture che delle decorazioni pittoriche.
In questo tempo si è consolidata, fatta propria anche dagli abitanti e dalle istituzioni, la formula di “Ferrara città del silenzio”.
Nino Barbantini si riconosce compiutamente in questa identificazione e scriverà:
“I ricordi e la bellezza, il silenzio e l’abbandono avranno fatto di questo palazzo disabitato una sede intatta e inviolabile della poesia e del sogno …. La poesia della nostra città; una poesia fatta di grandi ricordi e di silenzio pare che abbia in essa un simbolo materiale”.
Lo stesso Barbantini e Gaetano Previati daranno immagine e forma letteraria al mito di Marfisa letto all’interno di tale condizione. Ricordo la ben nota descrizione del corteggio di Marfisa e il dipinto del pittore ferrarese.
Il sodalizio e la comune espressione di intenti fra Barbantini e Agnelli nasce in questo contesto; un sodalizio che non si interrompe con il passaggio a Venezia di Barbantini nel 1909 e che potrà essere ripreso nelle celebrazioni degli anni Trenta.
Le prove di questo legame sono innumerevoli. Il libretto Per la Palazzina di Marfisa è edito nel 1908 dalla Ferrariae Decus, presidente Agnelli. Raccoglie testi scritti e pubblicati dal 1905 in poi. Nel 1905 Barbantini dedica un proprio libretto “Al Prof. Agnelli. Maestro venerato e carissimo”. Come nota Andrea Emiliani, Barbantini “è immerso nel milieu culturale e sociale di Ferrara.”
“Nell’estate del 1906 Giuseppe Agnelli ed io passeggiammo molte sere sotto i plenilunii e sotto le stelle per ragionare della bellezza di Ferrara e vedere i palazzi nella luna o nell’ombra … così ci ricordammo di te, Marfisa d’Este bel fiore stanco e della tua leggenda … e sognammo di restituirti la tua casa, perché potessi affacciarti ogni notte alle sue finestre a vedere se giungono i tuoi amanti, sederti entro una luce di luna, per narrare alla luna – o amante desolata – i tuoi amori…. Ragioni di poesia: perché la loro stessa collezione istituirà intorno a queste pietre un’atmosfera speciale ove l’individualità di ognuna di esse potrà spiccare con vivo risalto, ove le loro espressioni singolari potranno confondersi in un’espressione unitaria.”
In questo ambito l’amministrazione comunale accoglie le suggestioni di Nino Barbantini e le richieste avanzate da Giuseppe Agnelli e affida la palazzina alla Ferrariae Decus affinchè proceda alla istituzione di un museo lapidario ove raccogliere le sparse testimonianze scultoree presenti in città, dall’età romana sino al XVI secolo.
Nella Relazione del 1909 il Presidente comunica ai soci le date di inizio dei lavori e le ragioni di qualche ritardo; osserva:
“Abbiamo soltanto pensato, abbiamo studiato l’antica dimora, ci siamo meglio convinti che a quelle sale, gravate dal silenzio dei secoli, converrà la voce fioca, ma profonda, ma suscitatrice di alti pensieri, delle nostre pietre vetuste; abbiamo riconosciuto possibile di ridonare all’edificio la originaria fisionomia storica, di ottenere che i soffitti risplendano nelle vaghissime decorazioni, illuminino le morte cose con un raggio di bellezza.”
Scriverà Barbantini:
“Io vorrei che il giorno dell’inaugurazione del Museo i sarcofagi fossero riempiti di rose, i cippi e le lapidi inghirlandate di mirto e che i fiori fossero sparsi per terra ovunque. … E come potremmo comprendere l’infinita poesia della morte se non sentissimo in un perpetuo contatto con essa quella della vita? Perché noi sappiamo di portare nella Palazzina delle cose defunte. Anzi ce le porteremo appunto per questo; non solo perché sono belle, ma anche perché sono morte come la statua che non è più nella sua piazza o la lampada che non arde più sul suo altare. Che cos’è la poesia della Palazzina di Marfisa? L’eco di una musica nel silenzio.”
I lavori avviati comprendono sia il consolidamento delle strutture che il restauro delle decorazioni pittoriche, affidato in primo tempo a Giuseppe Mazzolani (1842-1916). L’intervento procede lentamente per l’esiguità dei fondi. Già nel 1913 si fa strada l’ipotesi di una diversa destinazione.
Giuseppe Agnelli la comunica ai soci della Ferrariae Decus:
“Altre volte, confessiamolo subito, propugnammo per la Palazzina l’idea di un Museo esclusivamente Lapidario … Or bene, via via che i soffitti andavano ripigliando i colori e le armonie del passato un senso inesprimibile di gioia entrò dominatore nell’animo nostro e il progetto d’un tempo venne a poco a poco modificandosi.”
Lo scoppio della prima guerra mondiale tronca ogni cosa.
Al termine del conflitto il Paese, e Ferrara, sono travagliati da una crisi economica grave, da conflitti sociali, dal sorgere della violenza fascista particolarmente attiva nelle campagne del ferrarese, conduttore lo squadrista e futuro quadrumviro Italo Balbo.
Il 4 aprile 1921 Benito Mussolini, candidato, tenne nel giardino della palazzina Marfisa un discorso elettorale che terminò con l’invito: “al popolo di Ferrara”: “Qui o popolo di Ferrara è la tua storia. Qui o popolo di Ferrara è la tua vita. Qui o popolo di Ferrara è il tuo avvenire.” [In occasione della inaugurazione della Palazzina fu posta una lapide che così recitava: “Qui dove labente squallore accusava l’incuria del tempo e l’ignavia degli uomini squillò vindice di trionfale rinascita il 4 aprile 1921 la voce di Benito Mussolini. Il popolo della città e dell’agro di Ferrara additando il nome e il segno di Roma.
L’oratore, molto probabilmente, non aveva consapevolezza del luogo, né, certamente, ne avvertiva la collegata poetica del silenzio e dell’abbandono. Da questa occasione la classe dirigente locale fa partire un nuovo stereotipo. L’abbandono e la cancellazione dell’immagine di “Ferrara città morta” alla quale subentra quella della “rinascita” nel nome degli Este e del fascismo. “Il nascere del Fascismo ed un novecentissimo Astolfo ci trassero da sì ignobile stasi.”
Gualtiero Medri scriverà:
“Dal suo Loggiato [della palazzina] il Duce dell’Italia di Vittorio Veneto parlò al popolo che lo gridava suo candidato alle elezioni politiche. Era il 5 di aprile del 1921, una giornata sfolgorante di sole e di entusiasmo. Il prato della Palazzina rigurgitava di popolo accorso per vedere, ascoltare, acclamare l’uomo che ridava l’Italia agli Italiani; era tutto un ondeggiare di vessilli; pareva fiorissero come per incanto dall’entusiasmo che la parola del Capo faceva divampare. Fu giornata trionfale per il Fascismo Ferrarese e pei colori della Patria.”
Non bastò a far ripartire i lavori, come non bastò la raccolta di fondi che un comitato di signore ferraresi, sotto gli auspici della Ferrariae Decus, organizzò nel 1924.
“La Kermesse organizzata nel campo erboso della Palazzina, riuscì graziosissima: la sera i chioschi luminosi, fioriti dalla eleganza di signore e signorine, offrivano un effetto fantastico, lasciavano intuire che cosa il grande prato diventerebbe con opportuni piantamenti che lo trasformassero in un giardino cinquecentesco, rinovellando il giardino di Marfisa.”
Nella vulgata locale la reintegrazione della Palazzina è attribuita alla volontà della Cassa di Risparmio di Ferrara e del suo presidente senatore Pietro Niccolini di celebrare in quel modo il centenario di fondazione della banca. Senza volerne sminuire l’intervento è necessario allargare il discorso a una situazione e operazione politica le quali miravano a radicalmente mutare l’immagine di Ferrara.
L’operazione Marfisa non è isolata ma si inserisce nel più generale disegno che il fascismo portava avanti in tutta Italia; a Ferrara in particolare il gerarca Italo Balbo intendeva far dimenticare le violenze e le uccisioni offrendo del nuovo regime una immagine coonestata dalla borghesia cittadina, di continuazione del buon governo estense, del rinnovamento delle glorie passate, di un futuro alto e concorde.
Abbiamo ricordato il parallelo degrado del palazzo di Ludovico il Moro. Nel 1930 iniziano i lavori di ristabilimento per ospitarvi il Museo Archeologico Nazionale di Spina. Il soprintendente Carlo Calzecchi Onesti (1886-1943) scrive “occorre qui ricordare fra i promotori della provvidenziale risoluzione, in primo luogo Sua Eccellenza Italo Balbo.”
Una situazione coincidente con quella della palazzina di Marfisa. Ricordo in quello stesso periodo la invenzione del Palio di Ferrara e momento centrale di tutta la operazione le celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto (1533).
A partire dal 1928 inizia un insieme articolato di iniziative che vedevano, raccolte nella Ottava d’Oro, conferenze di illustri studiosi. In quella di apertura Italo Balbo dirà:
“Gaiezza, fantasia, gusto della vita, giovinezza, cavalleria, valore, armonia dello spirito, ottimismo: ecco quanto noi chiediamo all’Ariosto … il che, se non erro, definisce in pieno non soltanto l’ideale ariostesco della vita, ma quello latino e italiano e fascista, nel senso più nobile della parola.”
Si aggiungeranno varie mostre fra le quali una bibliografica a cura di Agnelli e Ravegnani, una sui bronzi del museo Civico affidata a Gualtiero Medri e quella, più significativa ed importante sulla Pittura Ferrarese del Rinascimento, la cui presidenza ‘effettiva’ era di Italo Balbo: ‘direttore generale della esposizione Nino Barbantini’.
Un percorso decennale che si può far terminare con il restauro della Palazzina di Marfisa compiuto nel 1938.
La Cassa di Risparmio di Ferrara diviene, con qualche riluttanza, elemento necessario per la conclusione degli anni ariosteschi e per la definizione di un modello che nel recupero della Ferrara estense diviene paradigma per il futuro che verrà.
Non è inutile ricordare che nel 1928 in occasione del rinnovo delle cariche, l’assemblea dei soci della Cassa vota il presidente senza tenere conto delle indicazioni di Italo Balbo, il quale reagisce in maniera violenta tanto che il presidente eletto si dimette e viene nominato il candidato della federazione: Pietro Niccolini “fascista da sempre”.
Quando, dieci anni dopo, si tratta di organizzare la celebrazione per il centenario della fondazione della banca il consiglio si divide ed una parte insiste per una opera di beneficenza. Prevale la scelta del restauro della Palazzina di Marfisa, sostenuta dal presidente Niccolini e gradita “al quadrumviro cittadino Italo Balbo”.
Il consigliere Giulio Righini interviene dicendo “di non essere rimasto insensibile al fatto che Sua Eccellenza Italo Balbo che ha la costante visione degli interessi materiali ma anche ideali e spirituali della città approva e loda il progettato restauro e l’ideata destinazione della Palazzina Marfisa”.
Giuseppe Agnelli scriverà “resti memoria che indussero all’atto munifico la vigile influenza di Italo Balbo e l’alto sentimento civile del Presidente senatore Pietro Niccolini.”
Alla inaugurazione sarà presente lo stesso Balbo, venuto appositamente dalla Libia della quale era stato nominato governatore
L’intenzione politica è dichiarata ed esplicita: la Palazzina di Marfisa sarà l’edificio di rappresentanza della Ferrara fascista.
Questo è il quadro nel quale, senza obiezioni, si muove Barbantini . Molto è mutato da quando nei primi anni del Novecento lo studioso inneggiava alla poesia del silenzio. Le mostre veneziane, quella ferrarese del 1933, i rapporti culturali allargati come non era possibile a Ferrara hanno reso attuabile una diversa visione di Ferrara: non più una città morta ma una intellettualmente vivace che rinasce nella continuità con la tradizione estense. Corrisponde a quanto vuole la classe politica che gli affida il compito di creare la dimora rinascimentale di Marfisa.
In quello stesso periodo (1935-1940), il conte Vittorio Cini gli affida il compito del restauro e dell’arredo del Castello di Monselice. Le due operazioni, quasi contemporanee, sono analoghe e collegate fra loro.
Barbantini aveva già dimostrato di sapere ricreare ‘il genio del luogo’. I ferraresi lo avevano riconosciuto nell’allestimento della mostra del 1933 dove l’utilizzo di mobili di antiquariato serviva ad inquadrare i dipinti, a dare in qualche modo al visitatore il senso di partecipazione e coinvolgimento personale; da questo punto di vista ebbe generale ammirazione l’ambientazione del Compianto del Cristo del Mazzoni collocato in un ricostruito scurolo a dare l’impressione di una presenza contemporanea all’evento.
Barbantini non è inventore di un tipo di presenza, numerosi sono gli esempi ai quali può essersi rifatto.
Alfredo D’Andrade, nel 1884, aveva creato a Torino il Borgo Medievale che riassume modi di intervento, convinzioni e convenzioni che varranno almeno sino agli inizi del secolo successivo. Barbantini avrà visto, nel 1918, il sontuoso volume dedicato alla Casa milanese Bagatti Valsecchi, la avrà forse visitata. Ha certo consultato il libro del fotografo Augusto Pedrini dedicato agli ambienti del Rinascimento e agli arredi; un atlante di oltre seicento immagini, un repertorio ricco di suggestioni.
Certo non gli era ignoto il Museo dell’Arredamento di Stupinigi. Avrà visto, nel 1911 all’esposizione per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, varie ricostruzioni di abitazioni. Altri possibili riferimenti confermano come il coordinatore ferrarese si muova entro un ambito largamente frequentato, accolto e riconosciuto.
Nella stessa Ferrara esistevano almeno due esempi di ricreazioni di atmosfere e di recupero del passato. Le statue dei duchi estensi poste di fronte alla cattedrale, invenzione di Agnelli, Giuseppe Maciga mecenate, eseguite, nel 1926, dallo scultore Giacomo Zilocchi. La edificazione medievaleggiante, nel 1924, della Torre della Vittoria ad opera dell’ingegner Carlo Savonuzzi.
È bene avere in mente le indicazioni operative che Barbantini dichiara: valgono sia per la palazzina ferrarese che per il Castello di Monselice.
“Il programma che ha informato il restauro, il concetto di conservare all’edificio tutti i segni nobili della sua lunga esistenza evitando scrupolosamente perfino l’occasione di qualsiasi invenzione ed aggiunta, è stato seguito in somma ed in sostanza, senza eccezioni e senza distrazioni, fino in fondo. Crediamo di potercene lodare.”
E per la Palazzina:
“Il nostro compito era chiaro. Conservata rigorosamente la struttura interna dell’edificio, completato il restauro delle volte, si trattava di praticare alcune opere semplici e alcuni accorgimenti elementari intesi ad ottenere che l’armonia di quella struttura e la vaghezza di quelle decorazioni risultassero e non fossero turbate.”
Bernard Berenson scriverà, parlando della mostra del 1933: “Capii che chi l’aveva allestita doveva essere un ‘conoscitore’ nel senso vero della parola, dotato di un finissimo intuito, di un gusto sobrio, di un occhio sicuro per l’ambientamento dell’opera d’arte.”
Sia a Monselice che a Ferrara, salvaguardata la coerenza delle strutture, è l’allestimento che garantisce l’identità.
Barbantini non ha, né a Monselice né a Ferrara, la preoccupazione di recuperare pezzi un tempo presenti nelle due sedi. La ricreazione di una atmosfera non viene diminuita o condizionata dall’ansia della ricerca storica. Scriverà per la palazzina di Marfisa ma vale anche per il castello di Monselice:
“Questi mobili appartengono quasi tutti al Cinquecento. Nella scelta meditata e rigorosa che ne abbiamo fatta, trascegliendoli fra i più insigni che abbiamo incontrati sul mercato italiano, ci siamo preoccupati oltre che dell’eccellenza di ogni esemplare, della loro conservazione che per tutti o quasi tutti i modelli raccolti possiamo asserire perfetta.”
Tale comportamento conduce ad un uso disinvolto delle opere acquisite. Faccio alcuni esempi. Per potere utilizzare quattro monumentali cornici “sansovine” vengono inseriti, in tre, “frammenti di più vaste composizioni con episodi di battaglie”: si tace che per fare questo è stata tagliata una copia delle Battaglia delle Amazzoni da Rubens, proveniente, integra, dalla collezione Donà delle Rose. Il Ritratto di Dama, dalla stessa raccolta, è in realtà il ritratto di Livia Martinengo come indicava una legenda, cancellata al momento della collocazione in Marfisa: “Livia Nobilis Matrona Romana Com. Martig. Pudicitia et Pietate Nobilior”. Il Viaggio di Fetonte montato nella volta della sala 6 è copia parziale dell’affresco di Giulio Romano presente in Palazzo Te a Mantova: raffigura il carro del Sole che si avvia al tramonto mentre dalla parte opposta si avvicina la Luna. Il ritratto di Marfisa d’Este, futilmente riconosciuto da Alfonso Lazzari, è stato dovuto restituire a Mantova e sostituito da una copia del pittore Mario Capuzzo: si tratta del probabile ritratto di Louise de Lorraine da un originale di Anthonis Mor.
Nessuna delle opere presenti in Marfisa ha, anche labile, collegamento con l’edificio e con il personaggio. Lo stesso vale anche per il contemporaneo intervento su Monselice.
Una parte delle opere, per ambedue le sedi, ha la stessa provenienza, in particolare dalla collezione Donà delle Rose e da quella Pisa. Alcune seggiole e seggioloni paiono partizione da uno stesso blocco. Le atmosfere da ricostruire sono diverse ma in alcuni momenti vi è coincidenza di soluzioni. Penso alla ricostruzione dello ‘studiolo’ identica in entrambi gli edifici. A Ferrara vi sono state successive recenti e sciagurate modifiche che hanno eliminato il broccatello alle pareti e fatto scomparire calamaio, penna e stoffa, gli arredi del tavolo.
“Un solo ambiente abbiamo creduto necessario tappezzare di broccatello, e cioè la sala ottava, in omaggio alla sua appartata funzione di ‘studiolo’ e al carattere eccezionale del soffitto che la sovrasta.”
Barbantini è un visionario, progetta per tempi lunghi, proponendo una sintesi di realtà che pensa immutabili e che coincidono con il potere in quel momento presente. È una favola quella che viene narrata nelle sale della Palazzina; una favola che non ha quasi alcun rapporto con la realtà storica.
Un Rinascimento fatto di cortesia e gentilezza, di arte e di bellezza, di poeti ed artisti, di cavalieri e dame.
Barbantini fu un geniale e capace realizzatore di tale impegno. Le sue qualità sono state testimoniate sia dalle esposizioni veneziane che da quella ferrarese del 1933. Programmaticamente una mostra è un momento contingente destinato, per quanto riguarda l’ordinamento, a scomparire; possono restare documentazioni varie ma se ne perde la generale visione.
A Ferrara, dopo il 1933, la Pinacoteca Comunale aveva mantenuto, restituiti gli arredi che la completavano, la sistemazione delle sale; dopo la statizzazione i direttori che si sono succeduti hanno cancellato ogni residua testimonianza: restano solo alcune fotografie d’archivio.
I musei veneziani, da Ca’ Rezzonico al Museo Orientale, hanno mutato allestimento e presentazioni. Lo stesso Castello di Monselice, contemporaneo alla Palazzina e ispirato agli stessi criteri, ha visto spostamento di opere e furti che hanno fortemente modificato quanto realizzato da Barbantini.
L’unico esempio sopravvissuto di un impegno che aveva caratterizzato tutta la sua vita era l’allestimento della Palazzina di Marfisa d’Este. Non a caso Carla di Francesco scriveva “La Palazzina intesa come globalità degli intenti e dei risultati è ormai entrata a far parte della storia del restauro e del gusto, come esemplare – intoccabile ormai – della cultura ferrarese del suo tempo”.
Una Amministrazione attenta e funzionari consapevoli hanno difeso l’assetto tramandato e preservato questo unicum museale, prezioso perché sopravvissuta testimonianza di un’epoca, di un gusto, di criteri e modalità di intervento.
Attenzione che viene meno quando nel 2014 si iniziano a collocare nella Palazzina esposizioni di arte contemporanea. La prima è Lovers, aperta dal 22 maggio al 15 giugno 2014. Inizia un uso continuativo della Palazzina che diviene sede, neutra, di mostre di arte contemporanea: l’allestimento Barbantini non è fatto per coesistere con altro e quindi scompare cancellato dai pannelli per il sostegno dei nuovi materiali: la Palazzina resta chiusa per le fasi di allestimento e disallestimento derivati dal nuovo uso.

Non faccio un elenco delle esposizioni che vi hanno trovato sede; ne ricordo solo qualcheduna a testimoniare un uso infelice e incolto: responsabili gli amministratori e i funzionari che da quella data si sono succeduti sino ad oggi. Apre il 12 novembre 2015 Il manichino e i suoi personaggi, chiuderà il 13 marzo 2016; dal marzo al maggio 2019 Aqua Aura. Paesaggi curvi; XVIII Biennale Donna. Attraverso l’immagine, dal settembre al novembre 2020; Augusto Dolio, Il respiro della natura dal 18 giugno all’11 settembre 2022
A tutto questo corrisponde la bizzarra ipotesi di trasferirvi il Museo Antonioni.
“Siamo fermi ma, in questa immobilità si è fatta strada anche una nuova ipotesi per la sede del Museo [Antonioni], ovvero Palazzina di Marfisa d’Este in corso Giovecca”.
A parlare è Vittorio Sgarbi presidente della Fondazione Ferrara Arte.
A settembre del 2022 la Palazzina è stata chiusa al pubblico per lavori di restauro non chiaramente specificati; comportano la liberazione delle sale e lo spostamento delle opere. Il timore forte e non ingiustificato è che si colga l’occasione per eliminare del tutto l’ordinamento Barbantini.
Penso non sia inutile ricordare che gli arredi, tranne alcune poche eccezioni, sono di proprietà della banca, oggi Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Esiste una convenzione, stipulata il 17 giugno 1941, che ne regola il rapporto con l’Amministrazione Comunale.
“Che la Cassa vuole conservare e conserva in sua proprietà tutto il vero e proprio mobilio, facendone, a puro titolo di deposito da potersi, secondo l’intendimento espresso dalla Cassa, considerare perpetuo, la consegna al Comune, non mai per utilizzazioni pratiche, ma solo per l’esclusivo uso di arredamento artistico della Palazzina, con divieto di rimozione o di trasporto dei mobili in altri edifici o locali, e con l’obbligo della loro buona conservazione. … Nel caso di utilizzazione diversa dall’attuale, che è quella convenuta fra Comune e Cassa di Risparmio, di un signorile appartamento di rappresentanza della città (esclusa quindi la sua utilizzazione in impieghi pratici ed inusuali) che il Comune intendesse di dare alla Palazzina, ovvero a qualche locale della medesima, i mobili, quadri, sopramobili, ecc. di proprietà della Cassa che adornano i locali stessi, saranno restituiti alla Cassa proprietaria.”
Dovrebbe essere inutile, ma non lo è, segnalare che una convenzione o la si attua o la si muta: non si può far finta di niente.
È quanto è accaduto: la Palazzina non è più la sede di rappresentanza della città. Non si capisce per quali ragioni la banca proprietaria non faccia valere i suoi diritti.
Una Amministrazione disattenta e funzionari inadeguati hanno commesso e continuano a commettere due errori che non sono solo di metodo.
Il primo è non aver capito che la Palazzina era il perno per il riconoscimento della Ferrara estense. Una volta accolta l’ipotesi, riduttiva e, a mio parere, sbagliata, che la storia della città si chiudeva nei due secoli del vicariato estense, era d’obbligo enfatizzare le presenze che guidavano a quella lettura. La Palazzina era stata creata con questo scopo; non averlo inteso fa molto dubitare sia delle capacità politiche che di quelle professionali di amministratori e addetti.
Il secondo è, avendo cancellato la Palazzina, avere rinunciato a possibili finanziamenti e promozioni, ad ogni aggancio con le istituzioni che operano nel settore.
Stupisce che non ci si sia resi conto che l’ICOM ha una sezione dedicata alle dimore storiche, DEMHIST, che consente di mettere in rete e di fruire della promozione complessiva, canale per ottenere finanziamenti e per partecipare a programmi specifici.
L’inserimento negli elenchi vale anche per “case che non sono mai state abitate perché ‘costruite’ (o allestite) apposta per essere musei: cioè costruzioni di ambienti dedicati a spiegare come viveva una fascia della società in un certo luogo in un determinato periodo storico”.
Stupisce che non vi sia stato accesso a quanto previsto dalla Legge Regionale 10 febbraio 2022 n. 2, la quale prevede, in particolare all’art. 5, una serie di contributi a sostegno sia degli interventi di manutenzione e restauro sia per opere di valorizzazione.
Stupisce altresì che la Ferrariae Decus, alla quale va il merito dei primi interventi e una continua attenzione, sia restata e resti inerte di fronte alla distruzione di quella Palazzina il cui ripristino è stato tanta parte della storia della associazione.
Nota:
Questo saggio di Ranieri Varese uscirà nel 2025 su Artes, la rivista diretta da Luisa Giordan dell’Università di Pavia, nel primo numero della nuova serie.
In copertina: Ferrara, Palazzina Marfisa d’Este nell’allestimento Barbantini.
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Ranieri Varese
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Grazie Ranieri Varese. Un pezzo di storia di Ferrara per molti versi sconosciuta. E preoccupante l’uso improprio della Marfisa e i progetti in essere della attuale Amministrazione: l’ignoranza non è più un vizio.