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La notte è un buio pozzo magico che inghiotte le vicende del giorno. Le notti d’inverno, poi, sono ancora più buie, di un nero pece che compare presto, dura molto e non sbiadisce nemmeno con la luna piena. Sono le notti in cui le finestre illuminate delle case raccontano le storie più intense, parlano di vite, abitudini, segreti, stuzzicano l’immaginazione di chi passa col naso rivolto all’insù e per un momento si sente partecipe.

Non è una questione di voyeurismo ma un richiamo inevitabile, irresistibile, di quelle luci che trapelano e offrono sensazioni di calore o gelo, felicità o tristezza, perché ogni finestra racchiude i presupposti di amore o distacco, solitudine, disperazione, allegra convivialità.

La finestra è il confine tra il mondo interiore, teatro di sentimenti privati e il grande mondo esteriore, pericoloso, imprevedibile; una membrana tra il dentro e fuori che segna il confine, traccia le differenze, rivendica una sua presenza nel panorama urbano.

La finestra diventa il soggetto irrinunciabile e pretestuale nell’arte di Edward Hopper (Nyack 1882 – Manhattan 1967), pittore e illustratore statunitense, uno dei grandi artisti del realismo americano. Nella sua ricerca artistica, preferiva vagabondare per le città osservando, disegnando e dipingendo ciò che vedeva. Ed ecco che prendeva forma il famoso dipinto Room in New York del 1932, mentre camminava per le vie di notte nel quartiere di Washington Square, I nottambuli del 1942, Hotel room del 1931 e molti altri.

In Room in New York, l’intimità di una vita di coppia viene scrutata attraverso una finestra, che diventa la porta di accesso all’anima dei protagonisti. L’uomo è immerso nella lettura del giornale, la donna strimpella annoiata e senza convinzione sui tasti di un pianoforte. Immagini di una grigia ordinarietà della vita domestica.

Edward Hopper, Room in New York, 1932

I nottambuli descrive una scena attraverso l’ampia vetrata di un bar notturno: tre figure al banco, due uomini e una donna, ciascuna immersa nei propri pensieri, un cameriere intento nel proprio lavoro. Il desolante isolamento di ciascuno di essi è immediatamente raggiungibile e palpabile come l’indifferenza che li circonda.

Edward Hopper, Nighthawks, 1942

In Hotel room, 1931, una esile figurina di ragazza è seduta sul letto di un’angusta stanza d’albergo, con un libro in mano, ricurva su se stessa in una pausa di riflessione che esprime stanchezza esistenziale. Tutt’intorno i bagagli sono rimasti chiusi, le scarpe rovesciate sul pavimento, abiti e cappello sparpagliati qua e là. Tutto esprime un’intima sofferenza in un momento di passaggio.

Edward Hopper, Hotel room, 1931

Le finestre rivelano verità, permettono di esplorare e fanno scoprire momenti, solitudini, inquietudini. Le finestre d’inverno lasciano scorgere ombre gesticolanti sui muri, richiamando a una discussione accalorata, mostrano madri con neonati in braccio in attesa che si addormentino; si scorgono silhouette che percorrono avanti e indietro stanze troppo piccole per contenere irrequietezza, mobili vissuti, giganti piante d’appartamento o fiori secchi.

Alcune finestre mantengono luci e decorazioni nonostante il Natale sia passato da un po’, perché è difficile lasciare la festosa leggerezza appena trascorsa. Una nonna in sedia a rotelle è perennemente affacciata alla sua finestra, la sua vetrina sul mondo e anche un gatto comodamente accucciato sul davanzale scruta l’universo. Gli allegri commensali di una tavolata accanto alla finestra contagiano con la loro esuberanza mentre su un’altra facciata si scorge un uomo intento ad appendere uno scaffale.

Le finestre lasciano intravvedere candele accese che, accanto a un accenno di risparmio energetico, fanno riscoprire un romanticismo perduto. Finestre che rimangono buie, tristi, vuote, indice di assenza o abbandono, finestre oscurate con tendaggi che decretano lo stacco tra il giorno e la notte, finestre da cui esce la fredda luce dei led negli ultimi uffici a chiudere.

Oggi la finestra ha però perso parte del suo ruolo simbolico e con esso il suo fascino, sostituita dall’iPad, l’interfaccia di Facebook o Pinterest che, con meno charme, portano dentro casa il mondo.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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