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Presto di mattina /
Sperare è prendere posizione

Presto di mattina. Sperare è prendere posizione

Dilexi te/ Ti ho amato non è solo il titolo della prima esortazione apostolica di papa Leone pubblicata il 4 ottobre scorso, festa di san Francesco, una lettera scritta a quattro mani perché sviluppata in continuità su un testo iniziato da papa Francesco. Dilexi te è stata pure una delle espressioni più care di Dorothy Day (1897-1980), conosciuta per le sue campagne di giustizia sociale in difesa dei poveri, delle donne e dei lavoratori.

Fu attivista, giornalista, convertita, oblata benedettina e cofondatrice, negli Stati Uniti dei primi anni Trenta, del primo movimento sindacale e culturale cattolico di lavoratori: il Catholic Worker Movement attivo ancora oggi. Dunque parole non solo scritte nero su bianco, ma già praticate al vivo, incarnate, che hanno preso vita, corpo, spirito, nella carne di questa donna.

Il suo Dilexi te non fu una semplice annotazione spirituale, una citazione in capo a una pagina, ma uno stile permanente, una prassi di vita che univa contemplazione e azione, preghiera e giustizia, tenerezza e coraggio. Papa Francesco l’ha ricordata insieme ad Abramo Lincoln, Martin Luther King e Thomas Merton al Congresso degli Stati Uniti nel 2015, persone che sono di ispirazione anche a donne e uomini di oggi.

Ignazio Silone conosceva Dorothy Day, e ricordava che «dal suo socialismo anarchico si era convertita al cattolicesimo, per continuare a lottare, con una dedizione ancor più spericolata, per la giustizia – in quella casa di New York dove non si chiudevano le porte, chi aveva fame entrava», (M. Pieracci Harwell, Quaderni Satyagraha, 1 2002, 113).

Scrive Jim Forest in Dorothy Day. Una biografia, Jaca Book, Milano; Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 117, «Pacifismo significava per Dorothy il rifiuto generale della guerra, nei fatti nessuna guerra andava bene, nessuna guerra era giusta, nessuna guerra era degna di lode, ogni guerra era una catastrofe. Per lei il termine “anarchico” (letteralmente, una persona senza un re) significava assumersi le proprie responsabilità e non aspettarsi che sia il governo a risolvere tutti i problemi. È meglio fare le cose, spesso ella commentava, “dal basso verso l’alto invece che dall’alto verso il basso”».

E papa Leone, quasi a confermare il legame tra la sua esortazione e la vita di Dorothy Day, l’ha ricorda nella catechesi del 22 novembre 2025 dicendo di lei che aveva “il fuoco dentro”, e che sperare significava, per lei, “prendere posizione”.

Con il fuoco dentro

«Una piccola grande donna americana, Dorothy Day, vissuta nel secolo scorso. Aveva il fuoco dentro. Dorothy Day ha preso posizione. Ha visto che il modello di sviluppo del suo Paese non creava per tutti le stesse opportunità, ha capito che il sogno per troppi era un incubo, che come cristiana doveva coinvolgersi coi lavoratori, coi migranti, con gli scartati da un’economia che uccide. Scriveva e serviva: è importante unire mente, cuore e mani. Questo è prendere posizione.

Scriveva come giornalista, cioè pensava e faceva pensare. Scrivere è importante. E anche leggere, oggi più che mai. E poi Dorothy serviva i pasti, dava i vestiti, si vestiva e mangiava come quelli che serviva: univa mente, cuore e mani. In questo modo sperare è prendere posizione.

Dorothy Day ha coinvolto migliaia di persone. Hanno aperto case in tante città, in tanti quartieri: non grandi centri di servizi, ma punti di carità e di giustizia in cui chiamarsi per nome, conoscersi a uno a uno, e trasformare l’indignazione in comunione e in azione. Ecco come sono gli operatori di pace: prendono posizione e ne portano le conseguenze, ma vanno avanti. Sperare è prendere posizione, come Gesù, con Gesù. Il suo fuoco è il nostro fuoco».

La «piccola grande donna americana», l’ha chiamata papa Prévost, additandola come modello anche per l’oggi. Lei è stata, infatti, una che si faceva gli affari degli altri, fino ad essere incarcerata per la difesa dei diritti civili. Diceva in un’intervista su quell’esperienza:

«Le devo dire la verità: la prigione ci attirava, perché così potevamo venire in contatto con la povertà vera e non si trattava più di gestire una casa d’ospitalità, distribuire cibo e indumenti, occuparci degli ultimi; finalmente eravamo anche noi come loro.

Per me la prigione è stata una seconda casa e nonostante ne uscissi il più delle volte in uno stato di totale esaurimento, perché ti annienta, ti umilia e ti fa soffrire, ho avuto la convinzione che Cristo è sempre presente, non solo nel Santissimo Sacramento; è là dove due, o più di due, sono riuniti nel suo nome, ma anche nei poveri. E chi c’è di più povero e desolato nell’anima e nel corpo di questi fratelli rinchiusi nel carcere?» (in Evangelizzare, 7/ 1995, 12).

Il problema di uno, problema di tutti

Si legge nella prefazione di papa Francesco al libro di Dorothy Day Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri, (Lev, Città del Vaticano 2023, 9), curato da Robert Ellsberg, che racconta le ragioni della sua conversione: «Quando Dorothy Day scrive che lo slogan dei movimenti sociali per i lavoratori del suo tempo era “problema di uno, problema di tutti”, mi ha ricordato una celebre affermazione che don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana di cui quest’anno si ricordano i 100 anni della nascita, fa dire al protagonista di Lettera a una professoressa: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.

Il servizio deve diventare, dunque, politica: ovvero scelte concrete perché la giustizia prevalga e la dignità di ogni persona sia salvaguardata. Dorothy Day, che ho voluto ricordare nel mio intervento al Congresso americano durante il mio viaggio apostolico nel 2015, ci è di stimolo e di esempio in questo arduo ma affascinante percorso».

Io pure mi sono ricordato, riconoscente a don Piero Tollini, mio parroco quando divenni prete, che pure lui sulle pareti di due locali nel cortile della parrocchia della B. V. del Perpetuo soccorso a Borgo Punta, aveva fatto scrivere a grandi caratteri sia il testo di don Lorenzo sia uno di don Mazzolari: «Il problema degli altri è uguale al mio. Risolverlo tutti insieme è la politica. Da soli è egoismo»; «Quando si adorano gli idoli si calpestano gli uomini, e si oscura la verità».

 Dilexi te, una dichiarazione d’amore

Si legge all’inizio della lettera: «“Ti ho amato” (Ap 3,9), dice il Signore a una comunità cristiana che, a differenza di altre, non aveva alcuna rilevanza o risorsa ed era esposta alla violenza e al disprezzo: “Per quanto tu abbia poca forza […] li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi» (Ap 3,8-9). Questo testo richiama le parole del cantico di Maria: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53)

La dichiarazione d’amore dell’Apocalisse rimanda al mistero inesauribile che Papa Francesco ha approfondito nell’Enciclica Dilexit nos sull’amore divino e umano del Cuore di Cristo. In essa abbiamo ammirato il modo in cui Gesù si identifica “con i più piccoli della società” e come, col suo amore donato sino alla fine, mostra la dignità di ogni essere umano, soprattutto quando “più è debole, misero e sofferente” (1-2)».

Non c’è futuro senza farsi piccoli

Nel suo viaggio apostolico in Turchia, nei luoghi del Concilio di Nicea e in Libano (dal 27 novembre al 2 dicembre), visitando le piccole comunità cristiane che rispecchiano al vivo la comunità di Filadelfia nel testo dell’Apocalisse, Papa Leone le indica come punti di riferimento per le altre chiese. In esse, infatti, e soprattutto nella loro debolezza abita la forza di Cristo:

«Questa logica della piccolezza è la vera forza della Chiesa. Essa, infatti, non risiede nelle sue risorse e nelle sue strutture, né i frutti della sua missione derivano dal consenso numerico, dalla potenza economica o dalla rilevanza sociale. La Chiesa, al contrario, vive della luce dell’Agnello e, radunata attorno a Lui, è sospinta per le strade del mondo dalla potenza dello Spirito Santo.

In questa missione, è sempre nuovamente chiamata ad affidarsi alla promessa del Signore: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il suo regno” (Lc 12, 32). Ricordiamo, in proposito, queste parole di Papa Francesco (Omelia a Santa Marta, 3 dicembre 2019): “In una comunità cristiana dove i fedeli, i sacerdoti, i vescovi, non prendono questa strada della piccolezza manca futuro, […] il Regno di Dio germoglia nel piccolo, sempre nel piccolo”».

Al n. 21 della Dilexi te si legge ancora: «E la Chiesa, se vuole essere di Cristo, dev’essere Chiesa delle Beatitudini, Chiesa che fa spazio ai piccoli e cammina povera con i poveri, luogo in cui i poveri hanno un posto privilegiato (cfr. Gc 2,2-4)».

Un vincolo inseparabile tra la fede e i poveri

Ricordando papa Francesco, ai nn. 35-36, papa Leone scrive: «Tre giorni dopo la sua elezione, il mio Predecessore espresse ai rappresentanti dei media il desiderio che la cura e l’attenzione per i poveri fossero più chiaramente presenti nella Chiesa: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Questo desiderio riflette la consapevolezza che la Chiesa “riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”.

Infatti, essendo stata chiamata a configurarsi agli ultimi, al suo interno “non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro […]. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri”. In merito abbiamo abbondanti testimonianze lungo la storia quasi bimillenaria dei discepoli di Gesù».

Imprescindibile riferimento al concilio, a papa Giovanni e a Giacomo Lercaro

«Giovanni XXIII accese l’attenzione su di esso con parole indimenticabili: “La Chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Fu poi il grande lavoro di vescovi, teologi ed esperti preoccupati del rinnovamento della Chiesa a riorientare il Concilio…

Numerosi Padri conciliari, infatti, favorirono il consolidarsi della coscienza, ben espressa dal Cardinale Lercaro nel suo memorabile intervento del 6 dicembre 1962, che “il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre stato ed è, ma oggi lo è particolarmente, il mistero di Cristo nei poveri” e che “non si tratta di qualunque tema, ma in un certo senso è l’unico tema di tutto il Vaticano II”.

L’Arcivescovo di Bologna, preparando il testo di questo intervento, annotava: “Questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero”. Si prospettava così la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo» (Dilexi te, n. 84).

I poveri, una questione di famiglia

La lettera apostolica di papa Leone interpreta la povertà non come virtù o come azione, ma come elemento costitutivo dell’essere cristiano. Lo si evince già dall’intitolazione dei cinque capitoli che compongono l’opera: “Alcune parole indispensabili”; “Dio sceglie i poveri”; “Una chiesa per i poveri”; “Una storia che continua”; “Una sfida permanente”.

Quello del vangelo dei poveri, scrive papa Leone, «È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo» (n. 31). E al n. 104 leggiamo «Il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una “questione familiare”. Sono dei nostri. Il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o ad un officio della Chiesa».

Il povero è la carne di Cristo

Nell’esortazione del papa riemergono, in filigrana, espressioni significative di papa Francesco, che rivelano il loro sentire comune per i poveri, la necessità di lasciarsi evangelizzare da loro come “maestri di Vangelo”, “maestri silenziosi” (nn. 78; 198). Una di queste, che intreccia il loro magistero, è l’espressione ricorrente di Bergoglio che indica nei poveri “la carne di Cristo”: «Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo, quelli che sono la carne di Cristo

Dio, il figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa povertà è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che il Figlio di Dio ci ha donato con la sua incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri comincia quando si va verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, cominciamo a capire, capire che cosa è questa povertà, la povertà del Signore. E non è facile» (18 maggio 2013).

Ritroviamo questa icona testuale anche nell’esportazione di papa Leone: «Il Vangelo è annunciato solo quando spinge a toccare la carne degli ultimi… La tradizione cristiana di visitare i malati, lavare le loro ferite e confortare gli afflitti non si riduce semplicemente a un’opera di filantropia, ma è una azione ecclesiale attraverso la quale, nei malati, i membri della Chiesa toccano la carne sofferente di Cristo… In quanto è Corpo di Cristo, la Chiesa sente come propria ‘carne’ la vita dei poveri, i quali sono parte privilegiata del popolo in cammino. Per questo l’amore a coloro che sono poveri… è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio» (nn. 48-49; 103).

La chiesa sente come propria la carne dei poveri

«È in loro, nei poveri, che Cristo continua a soffrire e risorgere. È in loro che la Chiesa ritrova la chiamata a mostrare la sua realtà più autentica» (n. 76). «La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata» (n. 79).

«In quanto è Corpo di Cristo, la Chiesa sente come propria ‘carne’ la vita dei poveri, i quali sono parte privilegiata del popolo in cammino… per questo l’amore a coloro che sono poveri è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio» (n. 103). E quasi riprendendo parole di Francesco scrive: «La realtà è che i poveri per i cristiani non sono una categoria sociologica, ma la stessa carne di Cristo… carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata» (n.110).

La città nuova principia impastando, come i piccoli, sabbia e sogni inarrivabili

Dorothy Day aveva buoni ricordi del nostro paese. Aveva letto e apprezzato le storie degli infelici scritte da Silone, e il Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi. Nell’ottobre 1967 Dorothy Day ritornò per la terza volta in Italia, in occasione del Congresso internazionale dei laici a Roma e si incontrò con un altro costruttore di comunità, Danilo Dolci.

Se l’occhio non si esercita, non vede,
se la pelle non tocca, non sa,
se l’uomo non immagina, si spegne.
Quasi ho pudore a scrivere poesia
come fosse un lusso proibito
ormai, alla mia vita…
Nel mio bisogno di poesia, gli uomini,
la terra, l’acqua, sono diventati
le mie parole…
Non contrapporre la città terrestre
alla città del cielo.
Profeti hanno sognato la città
e moltitudini non hanno inteso:
non è sopra le nuvole,
è una città di terra che respira.
La costruisce chi la sa sognare
pur col cuore gonfio di fatica
fin che il miraggio, elaborato in pochi
prima, a ognuno divenga necessario
respiro –
chi ne genera
un embrione – con gli altri concepiti
qui e là per il mondo – radicato
a un suolo.
La città nuova inizia
dove un bambino impara a costruire
provando a impastare sabbia
e sogni inarrivabili.
(https://nido.treccani.it/2024/10/24/poesia-danilo-dolci-tra-realta-e-utopia/)

Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/kantsmith-3450568/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1717192″>Kant Smith</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=1717192″>Pixabay</a>

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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