Presto di mattina /
Chiesa e mondo sulle stese strade, prossimi ai poveri
Tempo di lettura: 12 minuti
Presto di mattina. Chiesa e mondo sulle stese strade, prossimi ai poveri
«Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi» (A. Casati, Sconfinamenti. Passeggiando tra le parole, Qiqajon Magnano BI, 2024, 43).
La città, un presepe vivente
Tenda di Dio
sua calda dimora
è la carne vivente
dell’uomo, sua immagine.
Asino e bue
siamo tutti, Signore,
muso dietro muso,
a fissare il mistero
Mistero di ruvida
e povera paglia
e giorni senza luce,
droghe senza speranza.
Essere, mio Dio,
asino e bue
col fiato sospeso
a godere il mistero.
Noi siamo, Signore,
il tuo vivente presepe,
siamo la paglia
su cui coricarti ancora.
(https://pensierilenti.wordpress.com/2011/12/25/tenda-di-dio-don-angelo-casati/).
Sento la città come un vero presepe vivente, così come percepisco anche la nostra chiesa in essa rivolta al mistero che è chiamata a portare e custodire: “la carne vivente dell’umanità” tenda e dimora di Colui che viene anche ora in giorni senza luce, senza speranza, un mistero di ruvida e povera paglia. «Apertura, accoglienza, ma anche cammino insieme, ricerca di chi è lontano o si è allontanato. Chiesa e mondo sulle strade, prossimi ai poveri» (G. Carlo Perego, Lettera pastorale, 2025).
Ho pensato allora che il servizio/ministero della nostra chiesa tra la gente in questo presepe vivente, che accade tutti i giorni nella nostra città, potrebbe ben coincidere con quello assolto nei presepi di cartapesta dall’asino e dal bue.
Anche se tiene gli occhi bassi, l’asino è intelligenza, memoria, pazienza tenace, forza e resistenza, stabilità su terreni impervi e aridi, affidabilità, socievolezza, cavalcatura plebea, votata a portare buone notizie anziché conquistare.
Il bue, docilità e mansuetudine nascosti nel suo corpo massiccio e imponente, è pacato anche se è forte e possente e ama lavorare con altri suoi simili, due a due come discepoli per condividere la fatica di rivoltare la terra alla luce e predisporla al seme, da cui sgorgherà la gioia delle messi mature. Il suo ruminare il cibo è simile al meditare la parola di Dio dei monaci; il suo respiro fumante nel freddo riscalda il povero e sale come fragrante incenso a lode di Dio.
L’asino e il bue, così prossimi all’uomo, ai poveri e loro solidali, hanno tenuto il Povero accanto e poi nel cuore e con il fiato sospeso, così da gioire del suo mistero. Nei loro panni la nostra Chiesa aprirà ancora il vangelo cercandovi e trovandovi mitezza e umiltà di cuore, tenacia e pazienza, ostinazione di amore che cambia le sorti; sacrificio e consolazione creativa accanto ai poveri, agli afflitti, a coloro che hanno fame e sete di giustizia, al fianco, dei miti, dei semplici, degli ultimi dei pacifici e dei calpestati nella loro dignità e nei diritti in lotta per il loro riscatto.
Ritroverà così la sua vocazione originaria e più radicale, quella rappresentata proprio nel presepe dall’angelo che annuncia ai pastori una grande gioia e il dono della pace agli uomini amati da Dio. È l’angelo degli sconfinamenti quello del presepe, colui che dal cielo travalica sulla terra per sconfinare oltre la morte. Egli è lo stesso dell’annuncio alle donne presso la tomba vuota: “Non è qui, è risorto”.
La città, un presepe degli sconfinamenti, il luogo dell’altro
Anche una chiesa sinodale è una chiesa che sconfina nella città e oltre, perché Gesù è un Rabbi degli sconfinamenti e il suo vangelo non conosce frontiere. Così la lettera pastorale del vescovo mi sembra indirizzarci a praticare questo stile di Gesù: da Betlemme all’Egitto, da lì a Nazaret, dalla Galilea alla Giudea sconfinando attraverso la Samaria. Oltre i confini d’Israele nei territori della Decapoli e poi a Gerusalemme e sconfinando per morire fuori le sue mura.
Sconfinare non è facile, si incontrano resistenze, durezze anche mortali. Ma negli sconfinamenti è il nuovo di Dio che si manifesta, la sua vita che riaffiora. «Sconfinare comporta una fatica, l’ha patita anche Gesù. Per che cosa mai Gesù è stato messo in croce, se non perché sconfinava? Il suo messaggio, la sua buona notizia, dava un volto umano a Dio: rompeva immobilismi, faceva camminare gli storpi, apriva gli occhi ai ciechi. Per un sistema che vuole i sudditi immobili e ciechi era un pericolo pubblico.
Il Dio di Gesù Cristo, il Dio che vediamo e tocchiamo in lui, è il Dio dello sconfinamento… Pensavano di averlo fermato. Ha sconfinato. Nella risurrezione. Sconfina lo Spirito, dice Gesù, ma sconfinano anche i credenti in lui… Mi rimane a volte nel cuore un’immagine, quella delle imbarcazioni in rada. Niente regata, non soffia il vento, vele afflosciate. Se siamo fermi, sempre allo stesso punto, sempre attorcigliati alla stessa riva, non sarà perché non fiutiamo il vento, da dove spira e dove va, e non gli facciamo spazio» (Angelo Casati, Gesù, un rabbi che sconfina, La Rivista del Clero Italiano, 3 /2018, 222-223; 225; 227).
Sconfinare per grazia è anche un prendere corpo
«Sconfinare, ma anche prendere corpo. Dono dello Spirito è pure il prendere forma di una comunità vera, dove l’unità viene dall’invisibile ma si traduce nel visibile, quasi come una conseguenza ineludibile» (A. Casati, Sconfinamenti. 73).
E allora mi viene la domanda:
Tu, chiesa che cosa dici di te stessa?
È l’interrogativo affiorato leggendo la lettera pastorale del vescovo Gian Carlo scritta a tutta la comunità ecclesiale per il prossimo triennio pastorale 2025-2028: Che siano tutti uno. Cammino pastorale e visita pastorale. Il vescovo sente l’urgenza in questo tempo di trasformazione delle nostre realtà pastorali e comunitarie, nel solco del sinodo di tutta la chiesa, l’urgenza di un cambiamento, che ci interroghiamo tutti di nuovo sulla nostra identità che non è statica, monolitica, uniforme, ma poliedrica direbbe papa Francesco, radicata e dinamica, organica e vitale.
Si tratta di accompagnare le nostre comunità verso le unità pastorali e intraprendere un cammino di riforma – “ecclesia semper reformanda” ricorda il vescovo – verso un nuovo stile di annuncio del vangelo, un nuovo modo di vivere insieme, di prestare attenzione ai poveri, di educazione alla pace e alla non violenza, mediante nuove ministerialità e corresponsabilità. Così il Sinodo costituisce un’opportunità di cambiamento, «un atto di ulteriore ricezione del Concilio, ne prolunga l’ispirazione e ne rilancia per il mondo di oggi la forza profetica».
L’interrogativo: “chiesa chi sei? … che dici di te stessa?” è stata anche la domanda che si era posta Poalo VI in quel passante di valico che è stato il Concilio Vaticano II (1962-1965) e poi ripresa dal card. belga Léon Joseph Suenens all’inizio del dibattito sulla Costituzione conciliare Lumen gentium sul mistero e realtà della chiesa germe e inizio del regno (Lg 5). C’è una chiesa che ancora non c’è, ancora da scoprire, da cercare e poi da vivere, da edificare a partire dalle sue radici, ritornando alle sorgenti, “ressourcement” (ritorno alle fonti) direbbe il concilio, sempre quelle del suo mistero di amore.
“Tu, chiesa, che cosa vuoi fare di te stessa? Un vangelo vivente tra la gente?”
Per dare una risposta il vescovo Gian Carlo nella lettera è partito dalla parola di Dio, “dal cuore del vangelo”, direbbe papa Francesco, da un testo del vangelo di Giovanni sulla preghiera di Gesù: «Che siano tutti uno; che, come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato… e che li ami come hai amato me» (Gv 17,21-23).
La lettera apre su ciò che la chiesa ha di più intimo, la sua relazione amorosa e di unione al Cristo e al Padre suo. Essa invita a fissare lo sguardo su ciò che è essenziale nella chiesa: l’essere una e unita al Cristo e così poter offrire una testimonianza attendibile perché la gente creda. La lettera ci situa così, da subito, coram Christo, cuore a cuore, interiormente rivolti alla sorgente da cui la chiesa è scaturita: il costato trafitto del Figlio amato, provvidenza di amore ai popoli e alle genti. Rivolti alla sorgente sì, ma estroversi poi a seguirne il corso, il suo fluire per dissetare le terre aride e i viventi.
Iniziare con l’interrogarsi sulla chiesa non significa allora giocare in casa, chiudersi dentro, disinteressarsi del mondo, ma uscire fuori, andargli incontro con la luce di Cristo, sapendo bene che la chiesa sta a Cristo come la luce della luna sta a quella del sole. La luce delle genti è il Cristo che si riflette sul volto della Chiesa. Essa vive di relazione all’altro non di autoreferenzialità, dà conto di sé e del suo dono solo aprendo l’orizzonte delle sue relazioni ad altri orizzonti di umanità, aprendosi alla luce del suo sole.
Noi come servi, non padroni della chiesa
Anche la vita al suo interno (ab intra) è esperienza di relazionalità e, dunque, di sempre nuova apertura all’altro e ricerca dell’altro. Il suo tessuto umano e spirituale si connotano nell’esercizio della ministerialità come servizio alla comunione e della fraternità nella corresponsabilità per l’annuncio del vangelo.
Così scrive il vescovo Gian Carlo: nella chiesa «conoscenza e amore si intrecciano, verità e carità si richiamano in continuazione, agostinianamente: Caritas in veritate. Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale sono uniti dallo stesso desiderio di conoscere, incontrare il Signore e, al tempo stesso, di amare Dio e i fratelli, nella verità e nella carità, assumendo insieme la condizione di ‘servi’ e non di ‘padroni’ della Chiesa.
La ministerialità diventerà così una forma particolare di corresponsabilità, a cui tutti i fedeli sono chiamati a cui tutti i fedeli sono chiamati e, al tempo stesso, strumento per costruire comunione». Mi piace ricordare anche la lettera pastorale post-conciliare del vescovo Natale Mosconi che citando S. Agostino diceva: «L’amore della Verità non faceva abbandonare la verità dell’amore».
Con occhi che guardano avanti e dietro
Se infatti la chiesa si volge al passato, guarda dietro sé stessa è per fedeltà al presente, per vivere l’oggi della salvezza, proiettandosi verso il futuro. Scriveva il vescovo Filippo Franceschi che traghettò il concilio da noi: “Pellegrina nel mondo, la Chiesa deve conservare integra la fedeltà alle sue origini, ma deve, nondimeno, saper guardare davanti a sé con fiducia, e saper rispondere alle sollecitazioni o provocazioni che le vengono dall’uomo, dalla storia, dalla cultura.
La Chiesa, come diceva s. Bernardo, deve essere ante et retro oculata, (con occhi che guardano avanti e dietro). La sua tradizione non è solo “memoria”; è anche cammino in avanti”. Ma non è forse stessa l’eucaristia, memoriale, attuazione e evento prognostico del suo stesso mistero? «L’eucaristia fa la chiesa ed essa fa l’eucaristia» (Y. M. Congar). Essa celebra, modula e vive il mistero della gratitudine e della gratuità.
Come “lievito nella pasta”
Così la lettera del vescovo è una lettera “in uscita”, con stile sinodale di ascolto, partecipazione e servizio, non solo perché nell’ultima parte parla della visita pastorale del vescovo Gian Carlo “in uscita” per incontrare le comunità cristiane a partire dalla periferia della diocesi per arrivare poi alla città, ma proprio perché ricordandoci le note qualificanti della chiesa ci dice che essa non è per sé stessa e non vive per sé stessa, ma per l’annuncio del vangelo ai poveri.
Egli scrive: «È un cammino missionario e di annuncio che non può e non deve sognare “una riedizione pura e semplice della cristianità, ormai definitivamente tramontata” oppure “una postura ecclesiale adatta alla società di oggi”, creando “tensioni e incomprensioni dannose per la comunione e la missione”. È invece un cammino che, come lievito nella pasta (cfr. Mt 13, 33; Lc 13,20-21), riesce a rendere le nostre comunità/unità pastorali capaci di regalare segni, parole e gesti che creano comunione, con l’attenzione preferenziale ai poveri, a chi soffre, ai lontani».
A immagine del vangelo uno e quadriforme i suoi tratti essenziali
Nella lettera si approfondiscono come al suo ordito, le quattro linee qualificanti la chiesa: Unità, un dono da costruire; Santità, il cammino delle beatitudini; Cattolicità, nessuno escluso, nessun lontano; L’apostolicità, in comunione con i primi testimoni del vangelo.
Mi vengono in mente per esplicitare queste quattro note che caratterizzano la chiesa come popolo di Dio in cammino, i criteri o principi con cui papa Francesco nella Evangelii gaudium ha delineato il processo per attuare ed avanzare nella costruzione di “un popolo in pace, giustizia e fraternità”.
Unità: «L’unità prevale sul conflitto. Questo criterio evangelico ci ricorda che Cristo ha unificato tutto in Sé: cielo e terra, Dio e uomo, tempo ed eternità, carne e spirito, persona e società. Il segno distintivo di questa unità e riconciliazione di tutto in Sé è la pace. Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14). L’annuncio di pace non è quello di un armistizio negoziato, ma la convinzione che l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi. La diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un processo di riconciliazione, fino a sigillare una specie di patto culturale che faccia emergere una “diversità riconciliata”».
Santità: «La realtà è più importante dell’idea. Santità nei fatti e nella vita. Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola e alla sua messa in pratica: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio” (1 Gv 4,2). Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione. Ci porta, da un lato, a valorizzare la storia della Chiesa come storia di salvezza, a fare memoria dei nostri santi che hanno inculturato il Vangelo nella vita dei nostri popoli, a raccogliere la ricca tradizione bimillenaria della Chiesa, senza pretendere di elaborare un pensiero disgiunto da questo tesoro, come se volessimo inventare il Vangelo».
Cattolicità: «Il tutto è superiore alla parte. Anche tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia».
Apostolicità: «Il tempo è superiore allo spazio. Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga. Il Signore stesso nella sua vita terrena fece intendere molte volte ai suoi discepoli che vi erano cose che non potevano ancora comprendere e che era necessario attendere lo Spirito Santo (cfr. Gv 16,12-13). La parabola del grano e della zizzania (cfr. Mt 13, 24-30) descrive un aspetto importante dell’evangelizzazione, che consiste nel mostrare come il nemico può occupare lo spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo.
Il coraggio della creatività, come apertura e ricerca
Si richiede così il coraggio dell’immaginazione e della creatività: «Apertura, accoglienza, ma anche cammino insieme, ricerca di chi è lontano o si è allontanato. La nostra Chiesa, impegnata nel cammino condiviso delle nostre comunità/unità pastorali, deve essere aperta: alle nuove comunità di altra lingua, unite dalla stessa Eucaristia; agli studenti, ai lavoratori, alle famiglie che provengono da altre Chiese locali dell’Italia e del mondo.
Ogni chiusura non rigenera una città, ma neppure una Chiesa. Non solo una Chiesa aperta, ma una Chiesa che ricerca: ricerca la pecorella smarrita, chi è lontano o si è allontanato, talvolta anche per colpa nostra, per le nostre parole, il nostro stile di vita. L’umiltà di andare incontro alle persone e non solo di aspettarle è condividere lo stile di Gesù che “passò in mezzo a loro facendo del bene” (At 10,34)».
L’umiltà di navigare a vista
«Chiesa e mondo: sulle stesse strade, prossimi ai poveri» non poteva essere più corrispondente al sentire del nostro vescovo il quale ha scelto quale motto episcopale l’incipit della costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si legge all’inizio: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Così non solo coram Christo ma coram Mundo.
Sarebbe bello che al termine di questo triennio alla domanda: che cosa ha fatto la Chiesa di Ferrara-Comacchio in questi tre anni? Ci fosse la stessa risposta che diede Paolo VI che definì il Concilio alla sua chiusura «un triplice atto di amore: verso Dio, verso la Chiesa, verso la umanità». Così si interrogava e rispondeva alla domanda: «Quando il Concilio sarà davanti alla storia futura e gli uomini si domanderanno: «Che cosa faceva la Chiesa cattolica in quel momento al Concilio? Amava, sarà la risposta. Amava con cuore pastorale».
E apro
alla fatica degli immigrati,
sudore ignoto
alla città che ignara
dorme…
E noi
non sappiamo.
A ferirmi,
ora che vedo,
sono putrelle di ferro
nero
fatte rossastre da fatica
scaricate da camion in sosta.
E noi
non sappiamo
corpi tesi
all’estremo inarcamento
visi contratti
vite da schiavi.
E noi
non sappiamo.
Vado nella città
ma ho putrelle negli occhi.
Non le rimuove
l’aria fine
insperata
di questo mattino
di luglio.
E noi
non sappiamo.
(A. Casati, Sconfinamenti. (49-50).
Cover: Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/arttower-5337/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=51318″>Brigitte Werner</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=51318″>Pixabay</a>
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Lascia un commento