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Trump-Von der Leyen, la doccia scozzese:
più che un accordo, una resa

Trump-Von der Leyen, la doccia scozzese: più che un accordo, una resa

 

La UE ha raggiunto un “accordo” con gli Stati Uniti. Pagherà per le merci che esporta dazi al 15% (incluse le auto che ai tempi di Biden avevano dazi al 2,5%, saliti al 27,5% con Trump), mentre per acciaio e alluminio rimangono al 50%. Per alcuni prodotti mancano i dettagli (non si sa se pagheremo più del 15% o meno). La UE si impegna ad acquistare 250 miliardi di gas all’anno nei prossimi 3 anni (alla faccia del green deal) e altrettanto per armi (alla faccia di una difesa UE), a investire in USA 600 miliardi di dollari all’anno che si aggiungono a quelli drenati dall’IRA, il piano antinflazione di Biden e ai 300 miliardi di risparmi UE che ogni anno migrano in USA.

Dovrà acquistare solo chip americani in modo da rafforzare la dipendenza tecnologica dalle imprese Usa. Se si aggiunge la svalutazione pilotata del dollaro e il fatto che le stablecoin Usa invaderanno l’Europa, è una disfatta dell’Europa senza precedenti. In tal senso è un accordo storico che conferma la completa sudditanza di questa UE agli Stati Uniti e che avrà pesanti ripercussioni sull’occupazione, l’indipendenza e la prosperità.

La UE ritira anche tutte le possibili tasse sui servizi americani. Si stima che l’Italia perderà un terzo delle vendite negli Stati Uniti, minando il lavoro di 200mila suoi cittadini. Un danno gigantesco che avrà conseguenze devastanti sull’idea stessa di Europa, che mostra tutta la sua vacuità, come avviene da anni su ogni questione internazionale e oggi, drammaticamente, su Gaza.

Giunge alla fine il viaggio UE durato 25 anni sul costruirsi come cortigiani degli Stati Uniti, senza alcuna statualità propria, senza difesa, senza politica estera, senza politiche comuni, allargandosi di continuo solo come mero mercato. Con ogni probabilità l’accordo (giudicato incredibilmente positivo dalla Von der Layen… meglio 15% che 30%, alla Fantozzi) solleverà un’ondata di sdegno in chi nutriva qualche residua fiducia in questa UE e avrà enormi conseguenze sulle elezioni europee del 2029.

Del resto l’esperienza del Regno Unito (10 % di dazi), uscito con la Brexit, dimostra che da soli si ottiene più della UE, se c’é uno Stato si può negoziare (sempre che non ci sia, dietro le quinte, una strategia anglosassone nel colpire la UE anche per questa via).

L’accordo è stato fatto nel resort di Trump in Scozia in una pausa della sua partita a golf – anche per umiliare la Von der Leyen. Chissà che risate si faranno Putin e Xi Jinping a vedere una tale scena di vassallaggio, che preannuncia come andrà a finire la guerra in Ucraina.

Gli Stati Uniti, con i dazi pagati dalle imprese (e lavoratori) UE (e degli altri paesi) contano di finanziare il “Big Beatifull Bill”, la legge di bilancio pluriannuale che riduce le imposte ai ceti medio-alti e taglia quel poco di pubblica sanità che c’era. Inoltre le imprese americane non pagheranno le imposte sui profitti del 15% che si era deciso in ambito OCSE, né pagheranno dazi sui servizi verso la UE (digitali, etc.) che erano un’arma negoziale strategica della UE, né pagheranno le imposte sui movimenti di capitale in dollari sui quali lucrano da 30 anni nella totale assenza di intervento della UE. Vedremo quali saranno i danni nei prossimi anni su occupazione e ricerca, i primi ad essere tagliati e poiché le merci cinesi sono ancora più colpite (dazi al 30%) crescerà la pressione cinese ad esportare in Europa con sconti, avvantaggiata dai maggiori costi di gas e di armi che ora dobbiamo pagare agli americani. Non c’è che dire: un ottimo risultato negoziale.

UE: gigante burocratico, nano politico ed economico

Come siamo arrivati a questo disastro? Etienne Balazs (La burocrazia celeste) dimostrò come il declino della Cina imperiale fosse dovuto in gran parte alla burocrazia dei mandarini (funzionari-letterati), la classe più potente sotto l’imperatore che impedì al ceto borghese di sviluppare una propria autonomia economica e culturale, impedendo ad una Cina più avanzata della stessa Europa nelle tecnologie (nei secoli del medioevo) di decollare. Questa UE oggi è simile a quella Cina medioevale. Ha uno striminzito bilancio annuale di 260 miliardi (1,13% del Pil UE) e si appresta ad approvare il nuovo bilancio 2028-2034 di poco maggiore (290 miliardi) pari a 1,26% del Pil, come la spesa pubblica dell’Austria che con 9 milioni di abitanti incide del 2% sull’intera popolazione UE. La spesa è finanziata per ¾ dai contributi degli stessi 27 paesi e da alcune tasse (dazi doganali, tasse sull’energia, parte dell’Iva nazionale, sui rifiuti non riciclati, ammende varie). In futuro dovrebbero aggiungersi imposte per 8-9 miliardi sulle emissioni di gas serra, importazioni di carbonio, transazioni finanziarie, rifiuti elettronici non raccolti, sulle imprese con più di 100 milioni di ricavi. La spesa è per Agricoltura (circa 50 miliardi, pare il 20% in meno), Coesione 70, Competitività 58, Azione esterna 28, Difesa 19, Ucraina 14. Cifre irrisorie per un’area di 450 milioni di cittadini. Un “nano finanziario” ma “gigante regolatorio”. Un’evidente sproporzione che impedisce a questa UE di far sentire la propria voce nel mondo (e infatti su Gaza è scandalosamente muta).

Questa UE però non è quella voluta dai padri fondatori ma dagli americani, il cui allargamento era utile alle imprese americane. Una UE che, mentre sottraeva sovranità ai singoli Stati, non è mai cresciuta come statualità, in modo da creare un gigante privo di forza, esposto al ricatto dei suoi 27 Stati molto più grandi, attuatore di normative e ora, che l’America è cambiata, completamente succube del bullo americano di turno. La “burocrazia celeste” si occupa di normative ma ignora le poste in gioco nella politica estera. Questa è oggi la Commissione Europea. Una “Biancaneve e i 7 nani” alla rovescia, cioè una Biancaneve nana e 27 nani che sono dei giganti polifemici ciascuno accecato nell’occhio europeo che scruta il mondo perché vede solo il proprio Stato nazionale, in modo da essere infilzati dall’astuto-bullo Ulisse di turno, che un recente libro (Contro Ulisse, un eroe sotto accusa, di Monica Centanni) mostra in veste non solo di eroe, ma di ladro e assassino.

Più che una trattativa è stata un alzare bandiera bianca, accettando quello che passa il “convento americano” (e nella speranza che tra un anno non alzi ancora i dazi), senza introdurre i nostri dazi sui servizi Usa (digitali,…) che sono in avanzo nello scambio con la UE, favorendo così le big tech americane, né discutendo delle regole necessarie a garantire quegli standard europei che pure la UE si è data (su sanità, privacy, sicurezza, fisco sulle grandi imprese) lasciando perdere la tassazione sui profitti delle multinazionali Usa (minimum tax) in quanto minacciati da Trump di essere tassati sui redditi da capitale maturati dagli europei sui titoli americani (sezione 899 del BBB). Uno scambio a favore dei ricchi europei, a costo di perdere centinaia di miliardi di imposte usabili a favore di tutti, non discutendo la tassazione che la UE potrebbe fare sugli investimenti in dollari delle persone fisiche e giuridiche (mobilità dei capitali dalla UE agli USA) che colpirebbe i mercati finanziari americani e darebbe parecchio fastidio a Trump – e la prossima stangata alla UE sarà accettare di usare le stablecoin americane in Europa, indebolendo tutta l’economia europea.

Ma a chi serve una tale Europa, che non ha capito che l’alleato imperatore americano che oggi la bullizza è in totale dissolvenza e altri attori emergeranno sulla scena mondiale? Non certo agli europei che ci vivono e lavorano, una enorme ameba a favore del neo liberismo americano e siffatta in modo da convincere che gli Stati sovrani siano molto meglio. Accettando i dazi (e dio non voglia le stablecoin Usa), la UE ammette, peraltro, contraddicendo 25 anni di narrazione mainstream, che si può prosperare in un mondo non basato sul libero scambio.

In attesa di una nuova UE, c’è qualcosa di meglio tra liberismo senza regole e protezionismo à la Trump? Anche per la teoria economica ci sarebbe una terza via per regolare i movimenti internazionali di merci e di capitali, basata non sul potere del più forte di imporre dazi ai più deboli ma sul reciproco social standardL’idea fu avanzata dall’Ilo (l’agenzia Onu per lavoro e le politiche sociali) e queste regole sono già presenti nei Trattati Ue e nello stesso statuto del FMI (Fondo monetario internazionale), che già in passato ha ricevuto l’attenzione del parlamento europeo. Il nucleo del social standard consiste in una regolazione/limitazione dei commerci con quei paesi che attuino politiche di competizione al ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui regimi di tutela ambientale e sanitaria, sulle tasse non pagate dalle imprese rispetto a un comune obiettivo di riferimento e alla posizione da cui partono. Così congegnato, il meccanismo può sanzionare non solo la Cina che reprime i sindacati indipendenti o la Romania che taglia il welfare per sussidiare gli investimenti delle multinazionali, ma anche la Germania che comprime il salario per unità prodotta o gli Stati Uniti che abbattono i vincoli ambientali alla produzione e non tassano le loro imprese che fanno affari in Europa. Vale anche per l’Italia se dovesse ridurre i diritti dei cittadini o sul lavoro.

Il confronto internazionale avverrebbe non sulla base di chi è più forte, ma di chi rispetta i diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Un incentivo a costruire un mondo migliore dell’attuale, attuando quella democrazia sostanziale che potrebbe stimolare anche i paesi poveri e i BRICS. In un mondo che sarà sempre più multipolare (che Trump o XI Jinping lo vogliano o no), l’Europa mostrerebbe al mondo il suo lato umano e civile. Ma ciò implica prendere le distanze dal modello americano. Finiremo dalla “padella americana” alle “braci” cinesi e russe? No, perché si affermerebbe un modello umanistico dell’Europa che è universale, dove democrazia, libertà e prosperità incidono anche sugli scambi commerciali (l’umanità dei fatti e non quella delle parole). E’ questa l’attualizzazione nel XXI secolo di quell’Europa a cui pensavano i suoi fondatori reclusi a Ventotene. Quella attuale è invece un’ameba ideale per i bulli di turno.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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