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Han Kang: Il linguaggio ci interroga e ci cura

Il linguaggio ci interroga e ci cura. Man mano che il tempo passa credo sempre di più nel valore della teoria del doppio legame sviluppata dall’antropologo e cibernetico Gregory Bateson.

L’ultima arrivata a rafforzare questa mia “fede” è stata Han Kang, premio Nobel per la letteratura del 2024, che in un suo breve scritto tradotto recentemente (Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, Adelphi, 2025), racconta un episodio relativo alla genesi di un suo romanzo: una perfetta descrizione della teoria batesoniana in azione.

Ricordo brevemente che  il doppio legame (detto anche doppio vincolo) è un concetto psicologico, teorizzato da Gregory Bateson e dai suoi colleghi negli anni ’50, per spiegare le origini della schizofrenia e utilizzato in seguito nella cosiddetta scuola di Palo Alto.

In origine il doppio legame si riferiva a una situazione in cui la comunicazione tra due individui, uniti da una relazione emotivamente forte, presentava un disaccoppiamento tra il livello verbale (quello che viene detto a parole) e quello non verbale (gesti, atteggiamenti, tono di voce, ecc.).

Le osservazioni erano quindi rivolte a quelle situazioni tali per cui il ricevente del messaggio, non riuscendo a decifrarlo, si sottraeva al dialogo e, successivamente, ad altre situazioni analoghe che potevano portare a questa (per lui problematica) impasse.

Come esempio Bateson riportava l’episodio di una madre e un figlio emotivamente provati per un lungo periodo di distacco. Il figlio, in un gesto d’affetto, tenta di abbracciare la madre, la quale si irrigidisce; il figlio a questo punto si ritrae, al che la madre gli dice: “Non devi aver paura di esprimere i tuoi sentimenti” o “Sii spontaneo!”.

A livello di comunicazione implicita, con l’irrigidimento, la madre esprimeva  un rifiuto per il gesto d’affetto del figlio, mentre a livello di comunicazione verbale, la madre negava di essere la responsabile dell’allontanamento, alludendo al fatto che il figlio si ritraesse non perché intimorito dalla sua reazione “fredda”, ma perché bloccato da sue proprie difficoltà.

In una situazione di questo tipo il figlio, colpevolizzato, si trova impossibilitato a rispondere e si allontana sempre di più da una… risposta.

Questa e analoghe situazioni (non solo famigliari) raccontano l’incapacità di valutare correttamente i legami tra comunicazione esplicita e comunicazione implicita.

In questa prospettiva, la sindrome schizofrenica appare come un tentativo di difesa: la non comunicazione o meglio la risposta non verbale è la fuga.

Non credo di dover sottolineare il fatto che oggi più che mai viviamo, tutti  – noi individui, ma anche noi come società – immersi in situazioni da doppio legame, primo perché la comunicazione e i suoi canali sono cresciuti a dismisura attraverso i social e secondo perché in un attimo quello che si dice o meno potrebbe “irrigidirci”. O, viceversa, quello che ci irrigidisce potrebbe essere contraddetto da quello che si dice.

In questo “pesante librino” Han Kang, nel descrivere la genesi di un suo romanzo, rappresenta secondo me il disagio prodotto da questo tipo di situazioni alle quali siamo quotidianamente esposti in quanto specie umana e ci racconta come il linguaggio ci interroga e perché, in fondo uno scrittore, scrive: per amore del mondo* e per amore di tutti noi.

Farci interrogare dal linguaggio, scrivere, paradossalmente, rappresentano la cura per qualunque… schizofrenia, tipo quella che stiamo vivendo di questi tempi così impregnati di revanscismo, nazionalismo, sovranismo, razzismo, violenza (anche di Stato).

A proposito di questo Han Kang racconta : ”Avevo 9 anni quando lasciai Gwanju, con la mia famiglia nel Gennaio del 1980, quattro mesi prima del massacro. E ne avevo dodici quando trovai per caso su uno scaffale della nostra libreria…il Report fotografico di Gwanju e lo lessi di nascosto”.

Si trattava di un volume preparato in segreto e fatto circolare clandestinamente dai sopravvissuti e famigliari delle vittime di quel massacro perpetrato dal regime militare che aveva orchestrato il colpo di stato in Corea del Sud.

“Ero troppo piccola”- continua Han Kang – “per comprendere il significato politico  delle immagini, ma quei volti sfigurati mi si incisero nella mente sotto forma di un interrogativo basilare: l’essere umano è capace di atti simili su altri esseri umani? Nello stesso libro, però, c’era una foto che mostrava una fila interminabile di persone davanti a un ospedale, in attesa di donare il sangue per i feriti. Tanto che mi chiesi anche: gli esseri umani sono capaci di atti simili per altri esseri umani?”

Per quanto detto  all’inizio e nell’economia della specie questo dilemma rappresenta un tipico caso di doppio vincolo.

Come si può continuare ad abbracciare il mondo se il mondo si irrigidisce?

Il librino della Kang è un testo breve, ma denso come una preghiera laica. Una riflessione sulla parola, sulla fragilità, sull’umanità che resiste.

Han Kang parla con voce sommessa, ma incandescente. Racconta come la lingua, fragile e luminosa, sia ciò che ci tiene uniti:

“Mi rendo conto davvero che la lingua è il filo che ci unisce, un filo lungo il quale scorrono la luce e la corrente della vita, e dove confluiscono le mie domande.”

Queste parole risuonano con forza se lette accanto al discorso del banchetto della stessa Han Kang riportato in appendice del librino e, soprattutto, se comparate in generale alle parole usate da altri Laureati Nobel e raccolte da Daniela Padoan in Per amore del mondo (Bompiani, 2018).

Anche nelle voci di Toni Morrison, Doris Lessing, Nadine Gordimer, Szymborska, come in quella della Kang, la letteratura è vista come un gesto di resistenza e di cura, un modo per abitare il mondo senza fuggirne le contraddizioni.

Per queste AUTRICI (sarà un caso che si tratti solo di donne?) il linguaggio è corpo vivo, materia che pulsa. “La lingua possiede inevitabilmente una sorta di calore corporeo”, scrive Kang. È un’idea che si ritrova anche in Morrison, quando afferma che “la lingua può essere oppressiva o liberatoria, può ferire o guarire.”

In questo contesto, è illuminante richiamare la teoria del doppio vincolo di Gregory Bateson, che pare davvero la condizione in cui più frequentemente ci troviamo oggi, nell’epoca dell’iper comunicazione digitale, dove le parole si moltiplicano ma perdono peso, e i messaggi sono ambigui, contraddittori, disumanizzanti.

Han Kang sembra rispondere proprio a questa crisi:

Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, insiste sulla necessità di immaginare i tanti punti di vista delle persone e degli esseri viventi che abitano questo pianeta; il linguaggio ci collega gli uni agli altri.

La grande letteratura, allora, diventa antidoto al doppio legame: non perché offra risposte semplici, ma perché accoglie l’ambiguità senza negarla, la trasforma in forma, in ritmo, in respiro. Come scriveva Toni Morrison nella sua Nobel Lecture, “la funzione della libertà è liberare qualcun altro”. Han Kang sembra aggiungere: può anche salvarci.

La scrittura di Han Kang è fatta di pause, di vuoti, di luce. Non urla, ma sussurra. Non impone, ma interroga. È una lingua che si prende cura, che si avvicina al dolore senza invaderlo. Come le autrici raccolte da Padoan, anche lei fa della letteratura un gesto etico prima ancora che estetico.

Daniela Padoan, nel suo Per amore del mondo, scrive che “… le Nobel Lectures sono discorsi che non si dimenticano…”, e posso garantirvi che è così perché parlano al cuore della nostra comune umanità, e lo fanno con la forza della parola che ha attraversato il dolore.

In un tempo in cui la comunicazione è spesso manipolazione, slogan, rumore, propaganda, Han Kang ci ricorda che la parola può ancora essere un luogo di verità.

Un luogo dove abitare insieme, anche nella notte più buia.

*l’espressione si declina in quel mostrarsi in pubblico che già i greci videro come proprietà della polis e che Hannah Arendt definì l’attività più propriamente umana.

Cover: Han Kang, 2024 Nobel Prize Laureate in Literature – Wikimedia Commons

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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