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di Barbara Diolaiti

Alvaro Gàmez Martinez e Javier Esteban Carbonell. Ventisette anni l’uno, ventotto l’altro. Spagnoli entrambi.
Il primo, laureando in Giurisprudenza all’Università di Ferrara, è di Huelva in Andalusia, la città delle fragole e da cui partì il viaggio iniziale di Cristoforo Colombo; il secondo, con doppia laurea (Archeologia in Italia, Storia in Spagna) e Specialistica in Archeologia Preistorica ottenuta alla Facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Ferrara, è di Saragozza, in Aragona.

S’incontrano per la prima volta nella città estense nel 2009, all’Ostello della Gioventù di corso Biagio Rossetti, e si osservano diffidenti. Alvaro è appena arrivato, Javier andato e tornato, a partire dal 2005. Nessuno dei due vuol fare “vita da spagnolo”, nessuno dei due frequenta gli altri Erasmus per i quali, mi spiegano, “quell’anno in Italia è, in genere, poco più di una vacanza”.
Per questi due ragazzi, invece, è il primo passo verso il sogno di una vita. Non è la nazionalità ad avvicinarli, anzi, ma la comune, irrinunciabile, non negoziabile decisione di vivere per sempre in Italia, “di diventare italiano”, precisa Alvaro. Una scelta che non può essere scalfita da alcuna delle tetre riflessioni alle quali siamo abituati parlando di ragazzi e di futuro in questo Paese. Alvaro e Javier ti ribaltano la prospettiva: la decisione di vivere in Italia è priva di “nonostante”, è un’altra prospettiva. Trovare un lavoro coerente con il percorso di studio è per loro marginale, centrale è appunto l’Italia; Ferrara per Alvaro, il Chianti per Javier.

Ho conosciuto Alvaro e Javier alcuni mesi fa, grazie ad amici comuni; colpita da tutta questa allegria, serenità e determinazione, ho chiesto loro di ricostruire le vicende e le riflessioni che li hanno condotti in una direzione apparentemente “ostinata e contraria”. La nostra chiacchierata, alla fine, è lunga quattro ore.

“Ho sempre desiderato vivere in Italia – racconta Javier – ma quando mi iscrissi a Storia, a Saragozza, nemmeno sapevo cosa fosse l’Erasmus; per caso scoprii che un amico era in partenza e feci anch’io domanda”.
All’inizio del terzo anno accademico viene indirizzato a Siena. “Scelsi di non assumere alcuna informazione sulla città, di non guardare nessuna foto per potermi stupire come un bambino”.
Il 16 settembre 2005 Javier arriva a Siena e resta folgorato da piazza del Campo. Un colpo di fulmine, un anno meraviglioso, ricorda, al termine del quale è però costretto a tornare in Spagna: “E’ stato come tornare in gabbia”. Non si rassegna e alla fine trova un bando per una borsa di studio dell’Unione Europea destinata ai territorio svantaggiati a causa della cessazione dell’attività mineraria.
“Una borsa di studio seria, che non esiste più – spiega – copriva le tasse universitarie, due viaggi andata e ritorno dalla Spagna all’Italia e prevedeva 800 euro al mese per nove mesi”.
Uno strumento essenziale per Javier, la cui famiglia (padre metalmeccanico, madre casalinga, due figli) non avrebbe certo potuto permettersi di mantenerlo agli studi all’estero. E così Javier può finalmente iscriversi ad Archeologia all’Università di Siena, anno accademico 2007/2008, dove si laureerà il 16 settembre 2009.
Anche per Alvaro, dopo l’anno di Erasmus, arriva la decisione di trasferirsi all’Università in Italia, a Ferrara.

E’ stato complicato trasferire gli studi?
“L’ iter burocratico per il trasferimento da un’università all’altra di Paesi comunque dell’Unione Europea – spiegano all’unisono – è veramente sconcertante, ti rendi conto che l’Unione Europea non esiste, esiste solo un progetto economicista che nulla ha a che vedere con le persone. L’unica differenza con un trasferimento da Università extra UE è che non devi sostenere un test di italiano, ma tutto il resto è uguale: devi recuperare ogni documento, produrre l’intera documentazione del tuo percorso scolastico in traduzione con costi elevati (circa 2.000 euro), compresi i contenuti dei corsi, la programmazione dalle elementari in poi. E a questo aggiungi la mancanza di informazioni, l’incapacità del personale dei consolati e delle ambasciate. Sono stati necessari circa sei mesi”.

Quando Alvaro e Javier s’incontrano, il primo sta iniziando l’Erasmus mentre il secondo è iscritto alla Specialistica di Archeologia Preistorica. Nel 2011 Javier sarà costretto a rientrare all’improvviso in Spagna a causa di due diverse gravi malattie, poi felicemente risolte, che avevano colpito entrambi i genitori. La sua casa ferrarese passa ad Alvaro, iscritto a Giurisprudenza.

E’ allo zio che Alvaro deve questo amore assoluto per l’Italia; uno zio spagnolo che parla però l’italiano e “anche un po’ di napoletano”.
” Il mio – chiarisce Alvaro – è un grande amore per l’arte e la cultura del passato. Non ero mai stato in Italia prima del 2009. Tutto quello che sapevo l’avevo letto e fin da bambino ascoltavo praticamente solo musica italiana, Modugno, Carosone. Volevo vivere qui e nessuna delle mie aspettative è stata delusa. L’Università stessa è diversa: in Spagna di fatto ti limiti a consumare l’Università più o meno come accadeva alle scuole superiori; in Italia, invece, l’Università è un mondo a parte, una realtà ancora viva e stimolante”.

Eppure noi italiani tendiamo a vedere la Spagna, specie negli ultimi anni dopo la nascita del movimento degli Indignados, come un Paese molto più vivace e avanzato…
“Credo che la riflessione sulla possibilità di trasformazione della società sia invece molto più consapevole in Italia – interviene Javier – Per me il vero punto di svolta è stata l’uscita dall’ambito esclusivamente studentesco, conoscere persone più grandi e con interessi simili ai miei: il movimento degli orti condivisi, della decrescita. E sono proprio questi amici che mi hanno convinto a riprendere gli studi dopo la malattia dei miei, a giungere alla Laurea specialistica”.

” Il movimento spagnolo del 15 maggio ha certo rappresentato una piccola speranza – incalza Alvaro – e all’inizio era davvero forte e spontaneo, poi il tentativo di strumentalizzazione da parte dei politici ha allontanato moltissime persone e ora si è frantumato in una miriade di iniziative e movimenti legati alle specificità come quello contro i pignoramenti o per la sanità pubblica o per il diritto alla casa, il che va comunque bene, ma credo che manchi una riflessione complessiva e approfondita. Diciamo che in Spagna ci sono poche idee ma molto sangue, mentre in Italia è il contrario”.

E voi preferite l’Italia anche se qui sarà ancora più difficile trovare un lavoro coerente con i vostri studi…
“Non è importante – chiarisce deciso Javier – Mi è molto chiaro che il mio lavoro non potrà essere quello di archeologo della preistoria. Intendo continuare a studiare, a ricercare, ma senza assegnare a tutto questo un valore economico. A più riprese negli ultimi anni ho lavorato nel Chianti in aziende agricole ed è lì che vedo il mio futuro, credo che l’agricoltura biologica offra possibilità reali. Preferisco vivere in un luogo che amo anziché impazzire nel tentativo di ottenere, che ne so, un qualche dottorato in una qualsiasi Università in una lotta, una competizione continua. Non avrebbe alcun senso, non sarebbe positivo per la mia vita”.

Anche per te, Alvaro, un futuro da agricoltore dopo la laurea in Giurisprudenza?
“No no – ride – ma nemmeno un futuro da avvocato, che ce ne sono fin troppi e con sempre meno lavoro. Ho la fortuna di parlare la seconda lingua più diffusa al mondo e penso ad un lavoro di consulenza legale per aziende che abbiano rapporti con la Spagna o con il Sud America. Sono comunque in grado di adattarmi. L’aspetto fondamentale è trovare un lavoro che mi consenta di restare in Italia e, meglio ancora, a Ferrara. Amo questa città e la vita del mio quartiere. E’ davvero una città a misura d’uomo ed è questo che cercavo, assieme alla bellezza, e qui ho trovato anche quella. L’idea di Biagio Rossetti di unire città e natura è per me straordinaria. Inoltre mi piace lo stile di vita italiano; probabilmente sono affezionato a un’Italia che non c’è più, eppure riesco ancora a trovarne traccia. Huelva non mi manca anche perché la mia famiglia è di origine galiziana e in Andalusia non ho mai sentito di avere radici”.

Avete scelto l’Italia, siete fidanzati con ragazze italiane e non intendete tornare in Spagna. Le vostre famiglie come l’hanno presa?
“Mio padre – risponde Javier – era molto perplesso e quando partii per l’anno di Erasmus mi disse: ‘vedi almeno di imparare la lingua’. Ora hanno capito che non cambierò idea e hanno accettato la mia scelta”.

“Sono figlio unico – spiega Alvaro – e questo avrebbe potuto complicare le cose, ma ho sempre pensato che ciascuno abbia il diritto di trovare un proprio percorso. I miei hanno accettato la mia scelta”.
Mentre trascrivo questa nostra conversazione, Javier è già alla ricerca di lavoro nel Chianti e Alvaro ha imparato a condurre una gondola e a fare i cappellacci alla zucca alla ferrarese.

Javier e Alvaro (a destra) in direzione ostinata e contraria (foto di Nicolò Ferrara)

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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