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Che la disuguaglianza stia diventando il problema principale e che vada affrontato nell’immediato mi sembra evidente almeno quanto il fatto che la nostra classe politica non abbia intenzione di metterla al bando.

I governi sembrano concentrarsi molto di più sulla crescita piuttosto che sulla distribuzione delle risorse e a fronte di Pil che si alzano (ultimamente poco in verità) e guadagnano le prime pagine dei giornali insieme alle politiche di abbattimento dei debiti pubblici confusi con il diavolo del XXI secolo, il muro delle divisioni sociali trova grandi spazio su Oxfam o su altri studi di settore, come se la cosa non avesse possibilità di suscitare grande interesse pubblico.

I Pil delle nazioni potranno pure crescere ma, come diceva Bob Kennedy, ex senatore statunitense e fratello di John, “il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Di sicuro non è un indice reale del benessere diffuso e i debiti pubblici, come quelli privati, non verranno mai veramente abbattuti perché sono per i mercati finanziari come la farina per il fornaio.

Il debito pubblico potrebbe essere estinto in ogni momento semplicemente monetizzandolo, cioè facendo ricomprare alle Banche Centrali i Btp emessi. Quando questo succede, infatti, il debito non è più un problema. E che sia possibile lo dice chiaramente anche chi di finanza vive, ad esempio Guido Maria Brera, tra i fondatori del Gruppo Kairos, che sulle pagine del Corriere della Sera (intervista di un paio di anni fa) dice: “…abbiamo un avanzo primario che ci permette di vivere alla grande, noi ristrutturiamo il debito, facendolo ricomprare agli italiani…”, cioè in pratica quello che fa la Boj, la Banca Centrale Giapponese, riuscendo in questo modo a tenere bassi i tassi di interesse e direzionando quest’ultimo verso i propri cittadini, un piccolo premio produzione piuttosto che un grande problema.

Invece qui da noi si preferisce combatterlo con l’austerità che come effetto, fino ad adesso ed oltre, ha avuto quello di aumentare la povertà, la disoccupazione, bloccare gli stipendi per anni e, quindi, non solo ci ritroviamo con redditi più bassi o bloccati, ma, manco a dirlo, ad aumentare è ancora sempre il debito pubblico (e molto di più quello privato), insieme alla disuguaglianza e ai guadagni di chi usa l’economia di mercato come un bancomat.

Le disparità sociali sono diventate addirittura macroscopiche e pochi ricchi hanno più ricchezza di interi Paesi. Il lavoro, ancora oggi, mezzo principe di inclusione sociale e acquisizione di potere democratico di partecipazione, è reso scarso attraverso il concetto di disoccupazione strutturale (in particolare nei paesi occidentali), e della precarizzazione, che rappresenta l’ingiusta compensazione al fatto di aver ceduto il potere ai mercati finanziari.

Lo Stato non ha svolto il suo compito di difesa del benessere dei suoi cittadini attraverso il rafforzamento delle politiche di difesa del lavoro né nell’offerta di congrui ammortizzatori sociali. Attraverso i suoi politici e le loro relative politiche continua a relegare la giustizia sociale a rappresentazioni grafiche satiriche o ai libri per pochi mentre di fatto rende impossibile il soddisfacimento dell’art. 1 della nostra Costituzione derubricandone quanto stabilito dai Padri Costituenti a mera e ingombrante statuizione di principio. Nei fatti continua a togliere diritti ai lavoratori.

Una delle ultime frontiere a cui si è lanciato l’attacco è il settore pubblico. Continua la diffusione delle statistiche che mostrano la differenza nelle assenze per malattie e personaggi come Giannino, dalle onde di Radio24, ne fanno una bandiera. Il diritto all’assenza per malattia diventa come l’art. 18, ultimi avamposti di civiltà da abbattere al più presto e non, invece, scarni esempi di tutele lavorative da estendere a tutti i cittadini lavoratori.

L’esempio da seguire dovrà essere il lavoratore che dopo una seduta di chemioterapia si precipiti al lavoro per tenere bassa la statistica delle assenze oppure la neo mamma che rifiuti i mesi spettanti di maternità. Dunque assistenza e figli ancora una volta sacrificati al totem della competitività, l’unica che ci potrà condurre nel secolo dell’abbondanza e del benessere. Sarebbe da chiedersi: “benessere di chi?”.

Sono esempi altri di disuguaglianza crescente e di come essa si crea. Si insegna alle persone ad essere competitive tra di loro e li si distrae dal fatto che le categorie sociali stanno diminuendo come gli scaglioni irpef, limitandosi ai grandi ricchi da una parte e tutti gli altri dall’altra. Si confondono gli interessi e persino il diritto alla malattia o alla maternità diventa motivo di dibattito assurdo “sono diritti buoni o cattivi?”.

L’occasione della scoperta di un dipendente infedele serve spesso per far fare un tuffo nel passato a tutta la categoria di lavoratori, sempre nel nome degli interessi della globalizzazione e dell’economia di mercato, che in se non è una cosa brutta ma che attualmente è afflitta da una presenza, o virus, ingombrante come pochi: quella del mercato finanziario.

In Italia l’1% della popolazione possiede più del 40% della ricchezza nazionale e di conseguenza ha più capacità di influenzare la politica e soprattutto di intorbidire le acque e confondere le prospettive e gli interessi in gioco. A chi conviene veramente che in Italia operino più multinazionali che piccole imprese locali? A chi conviene che lo Stato non intervenga nell’economia? a chi conviene che tutto ciò che è pubblico, compresi i dipendenti, divenga privato?

Alla maggioranza delle persone e ad un po’ di uguaglianza servirebbe semplicemente che le cose funzionassero bene. Purtroppo il concetto di “funzionare bene” è stato monopolizzato da una ristretta fascia di persone, il che dimostra un’alta percentuale di disuguaglianza già nella base decisionale, a favore dell’1% di cui sopra. Il risultato è che nel XXI secolo il grosso cruccio dei rappresentanti del popolo è quello di come riuscire a togliere diritti, più che aumentarli. E la cosa tragica che in questo riescono a farsi aiutare dallo stesso popolo che alla fine si ritroverà sempre più in fondo alla scala sociale.

Il fenomeno sociale del partito dei 5 Stelle, altro esempio, funziona perché dicono alla gente che una volta al governo del Paese “toglieranno”, “abbasseranno”, “cercheranno risorse nei rivoli degli sprechi”. Quindi usano verbi che sembrano funzionare a tutti i livelli: quello più alto, che non vuole interferenze nel suo mercato e nell’imposizione della legge dell’accentramento delle risorse, non vuole che si tolga alle alte sfere ma concede che si ridistribuisca tra il popolino senza infastidire il vero potere. E quello più basso, che oramai si è quasi convinto che il male sia lui stesso e quindi deve essere curato anche attraverso l’austerità, che è meglio essere governato che democratizzato. Cioè che ha bisogno di auto flagellarsi per redimersi da peccati che forse non è nemmeno sicuro di aver commesso.

E cosa fa l’Italia? si sta dimostrando incapace di prendere decisioni autonome, anche se si tratta di ricostruire dopo i terremoti, sempre alla ricerca di giustificazioni sovranazionali e di avalli dai Paesi più decisionali come Stati Uniti, Germania o Francia. Una linea che sta aumentando le differenze tra ricchi e poveri anche grazie alle scelte che favoriscono l’ingresso indiscriminato delle merci straniere, meno controllate, meno buone e ad uso di chi vive di concorrenza e di competizione (caratteristica animale). Abbiamo appena introdotto, fieri e inflessibili, il Ceta che ancora di più relegherà lo Stato in un angolo dando il potere alle aziende di regolare da se i propri rapporti a spese dei cittadini che saranno sempre di più indifesi di fronte alle esigenze di guadagno di potenti privati oramai autorizzati a disconoscere la superiorità dello Stato. Che in base a questi accordi non potrà bloccare l’importazione di prodotti scadenti e se lo facesse sarebbe soggetto a giudizio come una normale azienda, rappresentanza dei suoi azionisti e non più rappresentativo dell’interesse generale.

E grazie a questo il mondo sarà ancora un po’ più disuguale perché ci sarà meno Stato e più mercato e quest’ultimo, si dovrebbe sapere, non ha tra i suoi compiti la difesa dei più deboli.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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