Skip to main content

Noi italiani non siamo calvinisti. Per metterla giù brutale, non abbiamo un’etica del lavoro e non abbiamo un’etica del profitto. E’ un male e un bene allo stesso tempo. Il male è che tendiamo a lavorare male (più che a non lavorare) e in modo inefficiente. Il bene è che non diamo alle persone un valore direttamente correlato ai soldi che guadagnano o al successo che hanno nel lavoro. Siamo meno competitivi, meno feroci, e questo in termini filosofici e psicologici non mi pare disprezzabile (anche se in termini organizzativi il nostro umanesimo spesso genera disastri).

Il Jobs Act, a voler essere gentili, è pervaso da una filosofia di fondo calvinista: se vali, il tuo padrone (o datore di lavoro, per chi pensa che il conflitto di classe non esista) non ha nessun interesse a licenziarti; anzi, ha interesse a valorizzarti e a farti crescere, perchè ha investito denaro ed energie su di te. Se viceversa non vali, il tuo padrone ha diritto di sostituirti con qualcuno che vale più di te. Attenzione: non è detto che tu non valga in assoluto. Magari non vali in quel particolare contesto di lavoro, ma in un altro potresti essere il migliore. Ragionando in quest’ottica, il fatto che datore di lavoro e lavoratore trovino meno attrito possibile negli scivoli che fanno entrare ed uscire dal lavoro, è un bene per entrambi. Una situazione fluida, non vischiosa: niente gente incollata alla sedia per chissà quali privilegi o rendite, niente vincoli all’ingresso di forze fresche con voglia di fare. Detto così sembra il migliore dei mondi possibili. Questa, a darle il beneficio della buona fede, è la “filosofia” del Jobs Act.

Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (del Consiglio d’Europa), organo giudicante composto da 15 membri “indipendenti” e nominati dal Comitato dei Ministri di questo Consiglio, ha stabilito, accogliendo un ricorso, tra gli altri, della CGIL, che il Jobs Act viola il diritto di “ricevere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione in caso di licenziamento illegittimo”(NdA: attenzione, non è l’Unione Europea. Si tratta di organo che favorisce la stipula di convenzioni tra gli Stati membri, le sue decisioni non sono direttamente vincolanti). Nonostante sia un organismo eminentemente politico-giuridico, quindi secondo alcuni incline a fare della “filosofia” del diritto, credo che questo Comitato abbia affrontato la questione in modo pragmatico, tenendo conto della situazione di fatto, e non del mondo ideale, liquido e ricco di pari opportunità fasulle nel quale si è mosso il legislatore del Jobs Act.

Anch’io non credo che un imprenditore (categoria vastissima, che può andare dal piccolo ristoratore all’imbianchino, dall’agente assicurativo al costruttore di infrastrutture) si diverta a sbarazzarsi dei dipendenti perché è “cattivo”. Si tratta però di capire quali sono i parametri sui quali un imprenditore stabilisce che un suo dipendente “vale”, e soprattutto vale la pena non solo tenerlo, ma anche valorizzarlo. Le menti ipnotizzate dal mito della Silicon Valley come specchio del mondo – gente che il “mondo del lavoro” lo ha studiato su un paio di testi o lavorando nell’azienda del padre – direbbero che il lavoratore che vale è quello che fa il suo lavoro con precisione e velocità, risultando efficiente ed efficace, e raggiungendo i risultati di produzione (di beni o servizi) richiesti dal capo. E gli altri? Ciascuno pensi al proprio, di lavoro, e rifletta onestamente se può considerarsi di una precisione e di una velocità e di una efficienza superiori alla media (se rispondete tutti “sì, certo” state mentendo spudoratamente a voi stessi). Siete, siamo tutti eccellenti? O piuttosto abbiamo le nostre qualità e i nostri punti deboli, le cose che ci riescono meglio e quelle che ci riescono peggio? Bene. Se siamo questo (perché siamo questo), meritiamo di essere licenziati perchè rendiamo meno di quello che il nostro imprenditore si aspetta da noi? E se siamo bravi nel nostro lavoro ma ci piace dire la nostra opinione, e al nostro capo quella cosa lì proprio non va giù, meritiamo di essere licenziati? E se rimaniamo incinte, con quella bellissima norma della Costituzione che tutela la maternità? In sintesi la domanda è: se siamo lavoratori o lavoratrici ordinari/e, magari con alti e bassi, magari a volte incinte, che si ammalano, con figli o genitori da assistere, che amano dire come la pensano (diritto tutelato dalla Costituzione), meritiamo una tutela consistente nel fatto che, se il capo ci sbatte fuori, possiamo aspirare al massimo ad alcune mensilità di stipendio come “indennizzo” perchè non era legittimo che ci sbattesse fuori? Perchè questo dice il leggendario Jobs Act, partorito da non saprei quale sinistra. Che se siamo sbattute/i fuori illegittimamente, ci spetta un’elemosina chiamata “indennità”.

E se qualcuno pensa che il Covid-19 abbia reso superfluo o datato questo ragionamento, perchè chi conserverà il lavoro tra un po’ sarà un privilegiato e quindi tanto vale pareggiare e mettere tutti sullo stesso piano: bene, chi la pensa in questo modo sappia che non è parificando le condizioni verso il basso, togliendo tutele a tutti, che si agevola il cosiddetto “mercato del lavoro”. Le cose non sono migliorate nemmeno durante il precedente ciclo economico: il Jobs Act potrebbe aver favorito un leggerissimo incremento delle ore lavorate, ma bisogna sapere che nelle statistiche viene contato anche chi fa un giorno di lavoro e poi resta a casa. Di sicuro sono diminuite le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, le cosiddette “stabilizzazioni” – ammesso e non concesso che passare al contratto regolato dal Jobs Act sia una stabilizzazione, o non piuttosto una precarizzazione ab origine, visto che la tutela reintegratoria del posto in caso di licenziamento illegittimo non esiste più. In cambio di questo, non c’è più nessuno assunto con questa tipologia di contratto che possa dirsi realmente tutelato contro il rischio che una malattia, una gravidanza, una necessità di assistenza, lo possano inserire nel novero degli scomodi, dei poco produttivi, i primi da far fuori, anche se sono bravi/e.

E’ proprio questo il problema. Quando il ciclo produttivo diventa recessivo, gli imprenditori devono decidere chi lasciare fuori, chi espellere dalla produzione, spesso per una mera ragione di costi. In una situazione come quella in cui siamo entrati a piedi pari, sono i fragili, i deboli, le donne, gli scomodi, sono questi i soggetti sui quali scaricare il costo della crisi. E prima di arrivare al licenziamento si passa per i turni massacranti, i trasferimenti lontano da casa, le minacce. Chi si adegua o chi se lo può permettere, rimane: per gli altri, le altre, dentro una recessione profonda come quella attuale, l’ultima tappa, il traguardo del calvario possono diventare i licenziamenti plurimi per motivi economici. Sono, di fatto, licenziamenti collettivi, che in Italia sono assoggettati a regole che tendono, in teoria, a non sacrificare gli anziani, i malati, le donne in maternità, i più deboli. Per aggirare queste regole e “scegliere” l’espulsione precisamente delle donne, dei deboli, dei malati, degli scomodi, si imposteranno una serie di licenziamenti individuali in sè illegittimi, ma fatti passare come “collettivi”. Questa deriva terribile, questo potenziale massacro sociale, potrebbe trovare un argine qualora esistesse ancora una norma che ha sempre funzionato come deterrente: se il licenziamento è illegittimo, il giudice può disporre il reintegro del lavoratore nel proprio posto. Perchè è un deterrente? Semplice: perchè in questo caso è il lavoratore a poter scegliere se rientrare al suo posto o essere in cambio risarcito. Ma il risarcimento per un danno del genere non si potrà risolvere in una manciata di mensilità – tra l’altro legate solo all’anzianità di servizio maturata – come prevede il postmoderno Jobs Act (che non a caso parla di “indennizzo”),  ma potrà essere molto consistente in termini monetari, un autentico risarcimento per il danno subito. Era questa la funzione di tutela svolta dal famigerato,  obsoleto, ridicolizzato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, una delle poche norme invecchiate bene e per questo sottoposte ad una eutanasia di Stato, nel nome di una feroce “modernità”.

Solo chi non frequenta il lavoro e le sue dinamiche può obiettare che il Jobs Act continua a prevedere la reintegra nel posto per i licenziamenti discriminatori. Quale imprenditore motiverà il provvedimento scrivendo che il licenziato è troppo malato, troppo nero, troppo omosessuale, troppo donna, troppo rompicoglioni? Quella del licenziamento discriminatorio è una prova diabolica, i giuslavoristi lo sanno bene. Molto più abbordabile è la dimostrazione della carenza della motivazione, l’assenza della giusta causa o del giustificato motivo. Che attualmente, se il regime applicabile è il Jobs Act, permette al lavoratore di incassare un piatto di lenticchie in cambio della perdita (ingiusta) del suo posto.

Quale idea di Costituzione ha il coacervo di genietti che ha concepito, da “sinistra”, questa scelleratezza? Come può pensare che un cittadino possa esercitare liberamente i suoi diritti costituzionali sul luogo di lavoro, se è sottoposto ab origine al ricatto esplicito della perdita del posto? Ancora una volta dobbiamo sperare nella tanto vituperata Europa per recuperare terreno sulla strada dei diritti frutto di lotte collettive, minacciati di morte dall’idea che il lavoro è solo una merce, non uno strumento di autonomia, dignità ed emancipazione.

tag:

Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it