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Va bene! Sarò anche “radical chic” ma quel vezzo dei politici che si mettono la mano davanti alla bocca per comunicare importantissimi(?) segreti di Stato sta diventando più odioso dello sciarpone di Brunetta. E al proposito quello che fasciava il collo di Alan Fabbri a mo’ di boa constrictor era spettacolare.

La tecnica della ministra Boschi, che vezzosamente ha escogitata, è insuperabile: una manina che muove freneticamente le dita mentre parla fitto fitto con il buon Alfano che a sua volta nasconde il parlottare con una manona impressionante. Queste difese debolucce rendono ancor più patetici i protagonisti del nostro mondo politico. E si veda la foto del capo del governo in Val d’Aosta sotto la neve curiosamente vestito con pantaloncini corti e cappotto! A mio avviso, questi marchi di visibilità esteriore servono a colpire la fervida fantasia degli ‘itagliani’ sensibili perfino al cambio di colore delle casacche indossate da Angela Merkel che in questi giorni, per lei assai problematici, tendono al viola, il colore del lutto. Quanto alle oscenità che giustamente colpevolizzano i maschi negli episodi di assalto alle donne verificatisi a Colonia e in altre città tedesche, si legga e si mediti lo splendido fondo della Aspesi su La Repubblica per imparare noi, la più brutta parte della metà del cielo, a rispettare loro, le donne, anche nei giudizi apparentemente pietosi e pietistici.

Un ergastolano(è vero!!!) divenuto scrittore di successo, Gregory David Roberts, nel suo romanzo Shantaram che descrive il luogo delle infamie del mondo, ovvero Bombay dove si rifugia per sfuggire alle pene che gli erano state inflitte, scrive una considerazione che val la pena di riportare per intero nonostante che possa confondersi con l’anno della misericordia proclamato da Papa Francesco.
“Un giorno Karla mi aveva chiesto: “Che cosa caratterizza maggiormente la razza umana? La crudeltà o la capacità di provarne vergogna? [….] ma ora che sono più saggio e solitario so che né la crudeltà né la vergogna caratterizzano la razza umana. E’ il perdono che ci rende unici.[…] Senza perdono non esisterebbe la storia. Senza la speranza del perdono non ci sarebbe l’arte, perché l’arte è in qualche modo un gesto di perdono[…] Viviamo perché possiamo amare e amiamo perché sappiamo perdonare” (p.461).

Potrebbe apparire uno degli aforismi molto amati dalla cultura popolare e probabilmente lo è. Quello che mi ha fatto riflettere è l’idea del perdono applicata all’arte quasi un riscatto dalla crudeltà delle azioni – siano non solo le violenze come negli episodi delle offese arrecate alle donne in Germania o quelle commesse giornalmente nei femminicidi in casa, sul posto del lavoro, per strada in cui la belluinità maschile ha il meglio – quanto la convinzione qui espressa che l’arte riscatti la malvagità. Un’idea platonica in fondo se non fosse che l’arte oggi è interpretata piuttosto come riserva economica che rappresentazione della verità-realtà e in tal modo tradita nella sua funzione, nel suo scopo, nella sua essenza.

Se affidare all’arte il compito di una rappresentazione tale da riscattare l’indicibile presenza del male nella realtà mi sembra sia giusto parlare di perdono. Ma cosa servono queste elucubrazioni se ancora il silenzio avvolge il furto dei quadri del museo di Castelvecchio a Verona? O ancora si escogita di spostare i quadri del Castello Estense per “accenderlo” ?.

E tutto questo è nulla se si pensa al concetto di perdono che va inesorabilmente negato a quei malvagi idioti che nascosti da un nome fasullo esultano alla morte del ‘negro’ che si getta sotto il treno per disperazione. Una vergogna così cocente che a ragione viene gettata come una colpa sulla città, sulla nostra, dall’articolo di Ruggero Veronese che è apparso in questo stesso giornale.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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