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Il manifesto delle sardine, che non ha nulla a che vedere con il Manifesto del 1848, recita “Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita” e poi “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”. Il loro leader si chiama Mattia Santori e in una delle tante interviste che ha concesso, diceva che le sardine vogliono parlare di cose pratiche, della vita reale. Tutte cose per le quali loro hanno già ricevuto attestati di merito.
L’attacco ai populisti che campeggia nel manifesto ittico svela già l’origine e la fine del mistero sulla provenienza e sulle intenzioni di questo “nuovo” movimento sorto proprio nel momento giusto. Elezioni regionali, riforma del Mes, governo in bilico sulla legge di bilancio, pignorabilità più facile dei conti correnti, Germania (con Finlandia e Olanda) all’attacco sul fronte banche e misure espansive. Insomma ci voleva una boccata d’ossigeno ed ecco che le piazze si riempiono. Ma non perché da solo il nuovo Mes rischia di trasformare l’Italia nella Grecia di qualche anno fa, piuttosto e semplicemente perché Salvini sta disturbando la “normalità” delle nostre giornate.
Il problema sono i populisti dunque, anche se loro si sentono popolo, forse. “Cari populisti”, cari voi che vi ispirate a quel movimento che idealizzava il popolo come portatore di valori positivi in contrasto con le élite. A quel movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra il 19° e 20° secolo, che si proponeva di raggiungere […] un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, specialmente dei contadini e dei servi della gleba, insomma proprio per voi… “la festa è finita” (cit. Enciclopedia Treccani).
Ed è finita allora anche per il povero Chomsky, anche lui ovviamente un sovversivo della destra estrema, che dava la sua “faziosa” definizione di populismo quando diceva che questa parolaccia “significa appellarsi alla popolazione” e spiegava che “chi detiene il potere vuole invece che la popolazione venga tenuta lontana dalla gestione degli affari pubblici”. Vuole insomma che si occupi di mantenere la sua vita “normale”.
Casualmente occuparsi della cosa pubblica una volta significava anche “democrazia” e la democrazia si nutre anche di politica e in politica di solito si riempiono le piazze per protestare contro il governo o per proporre un’alternativa, magari proprio un manifesto che proponga soluzioni diverse rispetto a iniziative governative. Non tanto per rivendicare il proprio diritto alla normalità, cioè svegliarsi, andare a lavorare, tornare a casa, dormire e ricominciare modello George Orwell formato millennial ed oltre.
Rivendicare il proprio diritto alla tranquillità e alla normalità va bene ma non è un progetto politico degno di attenzione, da portare in piazza. A me personalmente piace vedere giovani impegnati in qualcosa che non sia video giochi on line o a seguire gli “amici di Maria”. Ma pretendere la normalità in tempi dove non c’è nulla di normale, dove si attenta al futuro delle persone, richiede qualcosa in più. Magari un Manifesto anche scopiazzato da quello del 1848, potrebbe funzionare meglio. Ma forse risulterebbe troppo populista “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”, figuriamoci. Roba vecchia come il Cynar e il mito del Che Guevara.
L’esercizio della democrazia richiede impegno e va al di là della capacità di riempire una piazza, bisogna anche far capire per cosa lo si fa in maniera chiara e spiegare se si sta scendendo in piazza per i diritti del popolo oppure per i bisogni della casta, che sono sempre gli stessi dai tempi di Marx, ovvero che la massa non si occupi di cose serie come oggi sono le questioni economiche. Non si occupi, ad esempio, della riforma del Mes che attenta ai principi di giustizia sociale, ai diritti acquisiti in anni di lotte sindacali e di quel popolo che voleva contare qualcosa.
La parola populista è diventata sinonimo di demagogia, si è accuratamente storpiata per oscurarne la radice popolare e antisistema. E con le piazze oggi vogliamo far vincere il sistema? Dargli ragione quando pretende che non dobbiamo occuparci del nostro futuro e ritornare alla nostra normalità? Oggi più che mai sta passando il concetto che sia inutile occuparsi di questioni più grandi di noi, che all’Unione bancaria devono pensarci gli esperti come hanno fatto fino a quando poi abbiamo scoperto che esisteva un caso Carife. Quante volte sono scesi in piazza i giovani per le banche fatte fallire da un sistema di potere che vuole addossare le responsabilità di ogni cosa al popolo in stile bail in?
Dobbiamo convincerci che gli interessi popolari, populisti, non siano di nostra competenza e per farlo dobbiamo confonderli con la demagogia. Dobbiamo convincerci che ci sono questioni talmente utopiche, oltre la possibilità di realizzazione, impossibili, come una volta era impossibile immaginare il voto alle donne e quindi cullarci nella nostra normalità, fare volontariato, parlare di accoglienza qui e ora, non preoccuparci del perché le cose succedono. Dobbiamo far diventare contemporaneamente affari seri e imprescindibili questioni come la paura del passato che non potrà mai più tornare, confortati in questo dalle statistiche appena sfornate. Tranne nelle piazze delle sardine e nelle trasmissioni di Lucia Annunziata, ovviamente.
E poi “Occuparsi di cose pratiche”. Il motivo del successo di Salvini sta proprio nel fatto che parla alla pancia della gente, gli parla della quotidianità, delle aziende che chiudono per mancanza di credito, dell’incapacità dimostrata dai vari governi sull’accoglienza, dei tetti delle scuole che cadono, delle difficoltà delle forze dell’ordine nel fare il loro lavoro, della svalutazione del lavoro causata dal sistema della moneta unica, delle ingerenze della Commissione europea, dell’impossibilità di proporre politiche economiche a causa di vincoli europei ritenuti oramai da tutti gli economisti obsoleti e troppo rigidi. E a dirlo sono addirittura Mario Draghi e Christine Lagarde, che scomoda persino San Tommaso per convincere i tedeschi che sono necessarie politiche fiscali espansive.
Ed è su questo che andrebbe contestato Salvini e la sua Lega a cui “l’Emilia non si lega”, sulle cose pratiche e sugli argomenti politici, sulle soluzioni che propone dicendo perché e come invece sarebbe meglio procedere, ma andava fatto quando era al governo. Ora al governo vuole tornare ed occupa le piazze in un gioco che si chiama democrazia e che vede chi è all’opposizione protestare contro il governo. Contro l’opposizione si protesta non andando alle loro manifestazioni. Che senso ha e quanto è democratico fare opposizione all’opposizione? Se ci si sente sulla stessa linea dei partiti che sono al governo li si sostenga, si aiuti il governo ad illustrare quanto bene stanno facendo nell’attuare le loro politiche economiche e sociali. Ve ne saremmo grati, a dir poco.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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