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Il criceto si preoccupa molto per la mia indignata reazione ai fatti di Napoli, la città che con Venezia e Parigi rappresenta il triangolo perfetto della bellezza, del nucleo forte di ciò che, nata da Roma, chiamiamo Europa e quindi Occidente. Tutti noi sappiamo qual è il carattere dei napoletani della loro insopprimibile vitalità, della esagerata reazione alle passioni, specie di quella più tremenda: il calcio.
Il saggio animaletto m’esorta alla calma, prospettandomi quanta sufficienza pericolosa, se non proprio antipatia, mi procurerò, osando recriminare sul brutale comportamento tenuto dai festanti e pericolosi ‘tifosi’ (parola che in tempo di coronavirus riporta a una delle malattie più pandemiche di ogni tempo, il tifo). Rivedo quelle belve dalla bocca oscenamente spalancata nell’urlo che compiono caroselli, che impazziscono, che si buttano nelle fontane. Per cosa? Perché hanno (loro!) vinto sulla Juventus aggiudicandosi non so quale premio. L’impassibile sindaco di Napoli commenta che si sapeva quale sarebbe stata la reazione dei napoletani e che recriminava solo che si fossero gettati nelle fontane. Ora – sono convinto – lo stesso atteggiamento sarebbe potuto essere comune alle città in cui operano altre famose società di calcio, quali la Juventus, o la Roma e perfino la Spal della piccola Ferrara. Non la città ma la passione per il gioco porta a questi immondi effetti. E ora caro criceto che mi s’attacchi pure. Credo che nel mondo ci possa essere motivo di esultanza più corretta e civile. Ad esempio sperare che Alex Zanardi possa farcela e tornare tra noi. Un grande.

Frattanto esce sulle pagine dei quotidiani nazionali, preceduto da una ricerca apparsa sulle pagine del Journal of Trombosis and Haemostasis un saggio condotto dal grande studioso di chirurgia vascolare, nonché direttore del Centro di malattie vascolari dell’Università di Ferrara, Paolo Zamboni. Il quale, studiando alcuni celebri quadri del Rinascimento e oltre, ne individua la possibile malattia che affliggeva la persona ritratta. Uno splendido esempio di ‘convivenza’ tra due forme del sapere, che sembrerebbero così lontane, ma che ritrovano nel pensiero una originale e straordinaria competenza. Il caso più clamoroso è la risoluzione del mistero di una macchia scura che appare sul seno della protagonista del quadro di Rembrandt Betsabea con la lettera di David. Una analisi che individuerebbe in quella macchia “una vena trombizzata sotto la pelle”. Ma ancora le ricerche condotte su una serie di ritratti che vengono pubblicate sul Corriere della sera del 18 giugno 2020 . Lo scritto di Elena Meli viene titolato Diagnosi su tela. Le malattie ‘dipinte’ dai grandi pittori ”tra le quali, oltre alla Betsabea rembrandtiana, quella che appare sul seno della Fornarina di Raffaello, o su Il Bacchino malato di Caravaggio, il cui colore verdastro e le unghie nere riportano a una diagnosi di un’anemia, che portano lo studioso alla conclusione che il Bacchino soffre del morbo di Addison, anche se a quel tempo nulla si sapeva di questa malattia, descritta solo due secoli dopo. La straordinarietà degli studi di Zamboni, da cui attendiamo a breve un volume sulle sue ricerche, quasi miracolosamente percorrono in parallelo quelle due culture, che furono nel secolo scorso uno dei temi fondamentali della consapevolezza di un rapporto tra le espressioni del mondo affrontate dal fondamentale studio di Charles Snow Le due culture e la rivoluzione scientifica apparso nel 1959. Mi onora l’amicizia di Zamboni, ma ancor più mi rende felicemente stupito come un grande scienziato sappia affrontare quel mondo a cui appartengo, applicando in modo perfetto quel secondo principio della termodinamica e il concetto dell’entropia, che avventurosamente mi è stato spiegato in anni lontani. Da qui la straordinaria capacità di Zamboni di giocare con quella doppia esperienza. E gliene siamo grati.

Arriviamo a questo punto a una mia personale ricerca, che mi prospetta nel tempo l’amicizia e a volte l’affetto che molti medici hanno provato per l’insopportabile malato, talvolta immaginario che qui scrive. E già dal 1962, quando venni a contatto con le mie prime vittime mediche che qui ricordo.
Adalberto C. e Paolo M. aprono la serie. E immagino quante volte, preso dai miei malanni che credevo irrimediabili, ho interrotto una cena o un altro appuntamento. Ma mi hanno sempre perdonato. Poi con gli anni la cerchia si allarga. Primeggia Italo N., insuperato lettore e curioso di ogni cosa, che ben presto si aggregò al cerchio di affetti familiari che lo portavano spesso in campagna a cena con l’amico Adriano P. E ancora Monica I., nipote adottiva straordinariamente dolce e ferma in momenti terribili della mia vita. Poi i più giovani di conoscenza: Sergio G., che mi fece conoscere il fascino delle Eolie che con la sua dolcezza scatena i ricordi, quando si siede a tavola e impone “racconta!”. O la cortesia e la calma di Enrico G., sposo di Sandra la coppia più felice che io abbia mai conosciuto. E infine i recenti Gianni R., con cui condivido il mito di Parigi. E Alberto e Maura C. straordinari nell’alleviarmi le pene delle spalle dolenti e dolcissimi nel consolarmi. Si aggiungeva frattanto il nipote Ippolito G. “belo e bravo” secondo la definizione della nostra mitica colf che rimase dai miei suoceri per tutta una vita.
Che voglio di più? Perfino il dentista Marco N., fratello della mia indimenticabile compagna di banco delle superiori, con cui intrattengo anche rapporti bassaniani o letterari. E anche il mio medico di base Enrico M., che condivide, oltre che la passione per il celebre, letterariamente parlando, campo da tennis della Marfisa di Ferrara, casa e contatti con carissimi amici del giovane Bassani. Mi scuso poi con chi ho fatto disperare, imponendo la mia visione medica, come mia cognata Paola B. e le dermatologhe della sua scuola.

Alcune volte ho avuto pan per focaccia come in un viaggio in Ungheria a trovare l’amico indimenticabile András Szőllősy, allievo prediletto di Béla Bartók e di Dallapiccola. Nel viaggio da Venezia a Vienna con i bambini c’erano gli amici medici Paolo M. e Italo N. Passa il capotreno che cerca un medico per un viaggiatore che si è sentito male. Implacabili vedo con terrore che i due indici dei medici si rivolgono verso di me e pronunciano: “lui”! Ovviamente poi andarono loro. O la majesté con cui entrò Italo N. nella camera dove mi avevano appena operato. La caposala non lo riconosce e gli chiede chi è. Impassibile risponde “Il Professore!”. O il dolce sorriso e la mano che stringe la mia di Sergio G., mentre mi risveglio dalla anestesia della più grave operazione che ho avuto. Mi direte o commenterà il criceto: Ma erano tutti così meravigliosi?
Ovviamente i problematici non li ho ricordati. E ti pareva.
Comunque: Evviva i medici e la medicina!

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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