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Airbnb, per i miei studenti, è un modo per trovare camere a basso costo; Blablacar un sistema di trasporto più piacevole del treno e fruibile con minore spesa; Uber il modo più semplice ed economico per andare all’aeroporto di Roma o di Milano. Per molti di noi queste sigle sono ancora estranee alla vita quotidiana, al più ne leggiamo sulla stampa quotidiana. Manifestazioni della sharing economy supportate dalle tecnologie della connessione e dalla radicale trasformazione dell’organizzazione del lavoro di significative aree di servizi. Si tratta di un modello incentrato su una piattaforma e su un piccolo nucleo di dipendenti che ne garantiscono il funzionamento, attorno ai quali si aggrega un ampio numero di persone che offrono servizi ai clienti.

Uber, ad esempio, si compone di una piattaforma e di un piccolo nucleo di dipendenti che ne permette il funzionamento unitamente agli autisti che mettono a disposizione le auto ai clienti. Analogamente opera Airbnb: un nucleo di dipendenti gestisce la piattaforma, i clienti prenotano alloggi per le vacanze spendendo poco grazie alle persone che offrono ospitalità ai clienti della piattaforma. Airbnb non possiede case e Uber non possiede taxi. E quindi, come definiamo coloro che prestano il servizio? Sono lavoratori dipendenti o sono lavoratori autonomi? Vendono lavoro o utilizzano un’opportunità (quella di lavorare qualche ora e integrare il reddito)? Sono un modello organizzativo più flessibile o un’altra prova che l’epoca delle garanzie tramontata?

Con quali atteggiamenti guardiamo questi fenomeni? Possiamo considerarli forme della precarizzazione del lavoro, possiamo sostenere che il rischio di impresa viene totalmente scaricato sulle spalle di coloro che svolgono il lavoro. Ma ciò non ci sarebbe di grande utilità né analitica, né pratica. Uber non possiede auto, il vero mezzo di produzione è la piattaforma prima che l’auto. Analoga considerazione per Airbnb: le case sono dei proprietari, il rischio è il loro. Il mezzo di produzione è l’app che consente l’incontro. E c’è una nuova merce a regolare questa economia: la reputazione, che dice se un host di Airbnb o un driver di Uber sono affidabili. Nell’economia della piattaforme i lavoratori ricevono lavoro intermediato da un portale e la loro produttività è valutata da un algoritmo che misura la reputazione. La reputazione diventa, peraltro, una categoria sempre più pregnante.
Un aspetto interessante è che queste piattaforme sono in grado di mobilitare i propri clienti contro i vincoli proposti dalle autorità. E’ il caso di Uber a New York che proprio facendo leva sul sostegno degli utilizzatori e degli autisti, è riuscito a contrastare le decisioni restrittive dell’Amministrazione pubblica della città.

A commento telegrafico cito la frase di un’anziana emigrata in Canada (testimonianza raccolta da Vito Teti in un volume sulla storia delle migrazioni meridionali): “La cosa che più desidero è tornare al paese. Ma non torno più. Ho tanta nostalgia. Vivo con la nostalgia del paese. Ma so che se tornassi perderei anche la nostalgia”. Rispetto al nostro passato personale la nostalgia è un sentimento comprensibile, ma in termini sociali è discutibile e comunque perdente. Le forme del lavoro, in primo luogo nei servizi, hanno già subito un forte mutamento, il tempo passato in un luogo, per un numero crescente di casi non è più il parametro prevalente di giudizio, qualità e reputazione riguardano un numero crescente di posizioni.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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