Fiorenzo Baratelli e Maura Franchi
In questi mesi ognuno di noi ha messo in atto un grande sforzo per dare continuità alla vita di sempre, mentre il virus immerge tutti noi in un perenne stato di precarietà e paura. Paura di qualunque forma di contaminazione che sperimentiamo in ogni momento della vita. Paura del vicino in treno, benché munito di mascherina e collocato a debita distanza. Paura dell’estraneo, ma anche del noto. Ogni comportamento si accompagna ad un inconsapevole sentimento di pericolo. Il nemico potenziale è nell’amico che non vediamo da tempo e può essere persino identificato nel medico, quando scrutiamo l’attenzione con cui si sta sanificando le mani, prima di porle sul nostro corpo.
Nessuno è immune dalla paura, così la nostra vita ‘sanificata’, rischia ormai l’implosione. È una paura particolare quella generata dalla pandemia. Qualcosa di simile avevamo sperimentato con il terribile episodio delle torri gemelle quando, per ragioni sconosciute, da parte di sconosciuti, si era sgretolato il simbolo del nostro mondo sviluppato e solido.
La ripresa è stata lunga. Intanto l’episodio aveva dato vita ad una ricca serie di dispositivi di sicurezza che avevano, in una stagione, riempito le nostre case e i nostri giardini: monitor delle effrazioni, dispositivi per fronteggiare un estraneo malvagio e non prevedibile. I dispositivi ci seguivano al mare con i trilli involontari dei gatti, che segnalavano la falsa minaccia di estranei sul terrazzo. Abbiamo capito brevemente che tornare dalla Corsica era più costoso dei danni provocati dai ladri estivi.
La nostra paura è finita nel fascino di una eterna protezione, mediata da un’ampia proposta di dispositivi, pubblicizzati addirittura all’uscita del supermercato. Sembra che siano trascorsi secoli da quando una gran parte di noi trovava ragionevole interrompere le vacanze al mare per un innocuo gatto sul tetto.
La pandemia è oggi una paura più vera e più forte, testimoniata dalle migliaia di morti poste alla nostra attenzione, ogni giorno in ogni canale televisivo. La paura in questa esperienza del virus è incomparabilmente più grave, innanzitutto per gli esiti proposti. Si tratta di una paura in cui non esiste un colpevole che possa essere individuato, ma ogni esperienza che ci metta a contatto dei nostri simili rappresenta un rischio. Da qui scaturisce la qualità particolare della paura che stiamo vivendo. Da questa radicale paura del contagio scaturisce un’universale condizione di solitudine.
La distanza tra gli individui non è solo proposta da una necessità sanitaria, ma è anche l’esito di una particolare e nuova paura da contatto: tema di cui sappiamo in realtà molto poco. È difficile convivere con la contraddizione tra la domanda di un colpevole e l’impossibilità di individuarlo.
Molte opere di letteratura ci hanno indicato vicende reali simili a quelle sperimentate in questi mesi. Il primo effetto emotivo è la crescita di una domanda di capro espiatorio che ad esempio nell’episodio della peste, Manzoni individua nella figura dell’untore. Una traccia di un approccio simile lo ritroviamo nella presenza in rete di una ricca produzione di tesi complottiste. Il complottismo diventa una rassicurazione perché scarica su un colpevole vagamente identificato una rabbia impotente.
Alcuni esiti prevedibili della paura generata dall’esperienza collettiva in corso, sembrano confermare i due caratteri che il sociologo Rainer Koselleck considerava distintivi della modernità.
Il primo carattere è il fatto che durante il dispiegamento della modernità, si riduce la base dell’esperienza degli individui, cioè le tradizioni forniscono sempre meno senso e significato al presente. Si passa dall’illusione che la storia sia maestra di vita, alla constatazione che ogni evento non appartiene ad una sequenza lineare. È la fine di un certo storicismo deterministico che funziona come una garanzia di rapporto lineare tra passato-presente-futuro. È come se si fosse prosciugato un filone aureo che forniva significati e senso alle esistenze ed era in grado di orientarle verso un futuro percepito come migliore.
Il secondo carattere distintivo della modernità individuato da Koselleck, è l’abbassamento dell’orizzonte delle aspettative e delle attese. In parole semplici ciò significa sempre meno fiducia in un futuro migliore. Viviamo appiattiti nel momento puntuale del presente senza un sostegno che ci viene dal passato, né una speranza rivolta al futuro. È da meditare seriamente cosa può causare il diffondersi di ‘un comune sentire‘ all’insegna della paura, sia in termini di perdita di energia creativa nell’immaginare una società migliore, sia in relazione ad un possibile uso che ne può fare il potere. La paura ha molte applicazioni, ma è certo uno dei piani utilizzabili per la costruzione del consenso.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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