COME AL CINEMA
un racconto
COME AL CINEMA
un racconto
Per strada non c’è un’anima, solo lui e la sua anima. È una notte di fine inverno, freddissima, senza luna e senza nebbia. I contorni delle cose, le case, gli alberi, i cartelli pubblicitari sembrano ripassati con la china. Il casello di Ferrara sud è chiuso, un incidente dice la radio, un’autobotte rovesciata.
Guarda l’ora sul cruscotto, le due, è ancora in tempo. Tutte le strade portano a Bologna, mancano due ore al suo volo, il check-in chiude alle quattro e un quarto. Niente autostrada, meglio, non gli è mai piaciuto guidare in autostrada, non si vede niente, si parte e si arriva come in un tunnel.
Lascia la Porrettana, la strada che i bolognesi chiamano via Ferrarese e i ferraresi via Bologna, volta a destra e si infila nel lungo rettilineo che conduce a Poggio, la prima stazione dell’antica via Galliera, vede sulla sua sinistra l’antica torre sbrecciata dell’Uccellina.
Spegne la radio. Sua mamma è morta da un anno, un anno esatto. Si è spenta come una candela a fine corsa. Non ha sofferto, si dice sempre così, chissà se è vero. C’era un vecchio prete ad officiare la messa funebre, uno che sua mamma non l’aveva mai vista, aveva fatto un’omelia standard, un mucchio di sciocchezze su quanto era buona e quanto era pia la signora Caterina, e quanto grande fosse la sua fede.
Invece lui sua mamma non l’aveva mai vista pregare, se lo faceva, lo faceva di nascosto e della chiesa cattolica apostolica romana e dei preti aveva una pessima opinione. Forse a Dio ci credeva, ma Dio era decisamente troppo lontano, almeno per lei, meglio Gesù Cristo. Fede o non fede, lei dell’aldilà non se ne occupava e preoccupava, nemmeno a un passo dalla morte aveva perso la sua sublime ironia.
Quando l’aveva interrogata su cosa si aspettava di trovare dall’altra parte: Non ti pare una domanda un po’ prematura, così gli aveva risposto candidamente. Una settimana dopo era già troppo tardi, non parlava più, un pomeriggio aveva chiuso gli occhi e se n’era andata, senza chiedergli il permesso.
Con questo ricordo aveva raggiunto Poggio Renatico. Intanto si era alzato il vento. Nel nero della notte passavano veloci lenzuoli bianchi, arrivavano e sparivano, poi una nebbia opaca occupò tutto il campo visivo. Poco male, pensò, lui non aveva paura della nebbia, la maledizione dell’automobilista per lui non era una maledizione, ci era nato con la nebbia, qui nella bassa padana ci nuotiamo nella nebbia, è come una vecchia zia che ci dà appuntamento ogni inverno, se non arriva ci rimaniamo male.
Rallentò, azionò i tergicristalli, ancora c’era visibilità a una cinquantina di metri. Vide all’ultimo momento il cartello di San Venanzio. Ora la strada descriveva una lunga curva a novanta gradi. La percorse a venti all’ora, dentro un mare di latte sempre più denso; la curva non finiva mai. Ricordava il cartello di San Vincenzo appena finita la curva, ma anche il cartello era scomparso, come se si fosse infilato nella manica di un cappotto.
E ora? Impossibile proseguire. Fermò la macchina sul ciglio della strada e uscì fuori dall’abitacolo. Stese le mani davanti a sé, sparite. Una nebbia così non l’aveva mai vista, era come sperimentare una quarta dimensione. Ma se il suo mondo era scomparso, che mondo era quello? Un mondo opaco, incognito, diverso, opposto, un Altro mondo. C’era da averne paura?
Si incamminò lentamente. In strada non passava nessuno, era solo, avanzava nel niente di niente, attento solo a non deviare dal pezzetto di asfalto sotto i suoi piedi. Guardò il cellulare: nessun segno di vita. L’aveva caricato prima di partire ma ora era spento, provò a spingere qualche tasto, niente da fare, il telefono era morto.
Forse era passata mezz’ora, gli pareva molto di più, e aveva percorso poche decine di metri. Doveva solo camminare, camminare e non perdere la calma, e sarebbe arrivato da qualche parte, ma la calma se n’era già andata. Si sentiva agitato. No, si sentiva spaventato. Come se in quel mondo ci fosse solo lui e dovesse affrontare da solo il niente dell’universo.
D’un tratto vide una luce nella pancia scura della nebbia. Era una luce piccola, rossa, fioca e lontana. Pensò a quel lumicino che brilla nel bosco delle favole. Riprese a camminare, quella luce era la sua meta, la sua salvezza.
Proprio come nella favola, lui camminava, quasi correva ora, ma la lucina rossa sembrava allontanarsi. La strada faceva un’altra curva, la luce era scomparsa, ma infine ritornò a brillare, finalmente più grande, sospesa sopra la linea dei suoi occhi. Era l’insegna al neon di un bar, Biassanot c’era scritto. Per entrare bisognava salire tre gradini di mattoni.
In quel momento, dalla porta a vetri uscì un signore distinto vestito come a un matrimonio, un completo di lino blu, fazzoletto nel taschino della giacca, camicia di seta azzurra e un farfallino rosa. Il signore gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: Si accomodi pure, le lascio volentieri il mio posto. Fece per dire grazie, ma il signore scese di corsa i gradini sparendo nella nebbia.
Entrò. Il locale era un unico grande stanzone con un pavimento di vecchie tavole di legno, la sala era illuminata da una lampada a soffitto, emetteva una luce rossa, che lasciava la sala in penombra. Nonostante l’ora, doveva essere almeno l’una di notte, il bar era pieno, tutti i tavolini erano occupati, uomini e donne vestiti eleganti, parlavano tutti a voce molto bassa, producendo un brusio di fondo indistinguibile. Si guardò intorno, gli era venuta una gran sete.
In fondo alla sala c’era un lungo bancone. Lo affrontò subito una barista alta e gentile con un completino azzurro cielo: Anche lei questa notte non riesce a dormire? Ha voglia di parlare o di ascoltare una storia? Si accomodi al suo tavolo, qui non serviamo al banco. La barista gli indicò un tavolo in fondo a sinistra, l’unico che aveva ancora una sedia vuota.
E per l’ordinazione? Può ordinare a me, disse la barista. È che sono un po’ scombussolato, si scusò, è una notte strana. Non deve preoccuparsi, tutte le notti sono strane. Vorrei qualcosa di forte, un Americano. Avrà il suo americano, ma ora faccia il bravo, vada a sedersi al suo tavolo, quello là in fondo.
Si accorse che le gambe facevano fatica a sostenerlo, barcollava, colpa di quella piccola avventura, pensò, e della nebbia, la stanchezza, i pensieri. Si diresse al tavolino che gli era stato indicato. Si sedette senza salutare nessuno e chiuse gli occhi; ecco cos’era, era stanco morto.
Forse si era addormentato per qualche secondo, lo svegliarono le voci dei suoi vicini, o forse dormiva ancora. In quel breve sogno aveva riconosciuto la voce di sua madre e una vecchia scena famigliare, era a tavola, aveva dodici anni e arrivava il suo solito rimprovero: Fammi il favore Alberto, guarda, sembri un sacco vuoto, stai composto sulla sedia.
Aprì gli occhi, o forse no; quella voce continuava: Non mi piaci così, hai la barba lunga, i calzoni sporchi, ti sei lasciato andare in questo ultimo anno. Si raddrizzò sulla seggiola e sbatté le mani sui jeans, erano tutti sporchi di terra.
La barista vestita di azzurro gli portò al tavolo il suo cocktail. Era proprio gentile: Signor Alberto si rilassi, sta andando tutto bene. Ma come faceva a conoscere il suo nome? Quella notte le cose strane cominciavano ad essere troppe.
Sorseggiò il suo Americano e finalmente alzò gli occhi e guardò chi gli stava di fronte. Era una signora minuta con un abitino a fiori, tutta china sul piano del tavolo e con in mano un fante di denari. Tutte le altre carte erano distese sul tavolo tra un bicchiere e l’altro.
La signora non badava a niente e nessuno, era totalmente impegnata in quel solitario che alcuni chiamano Lo Zoppo, dove le carte lunghe (Bastoni e Spade) si devono alternare a quelle corte (Denari e Coppe). Con molta fortuna e un po’ di abilità, alla fine tutte le carte devono tornare ordinate nelle case dei quattro semi. Ma Lo Zoppo non è un solitario generoso.
Quasi sempre qualcosa si blocca, i Re sbarrano la strada agli Assi, le carte lunghe non trovano un compagno tra le carte corte, E allora niente da fare, non si può più andare avanti, si raccolgono le carte, si mischia il mazzo e si ricomincia da capo.
Conosceva bene quel gioco. Era il solitario preferito di sua madre, ogni sera prendeva il mazzo e giocava allo Zoppo. Se il solitario non riusciva, sua madre aiutava la fortuna con qualche mossa non consentita dal regolamento, un piccolo imbroglio, un peccato di cui sua madre si autoassolveva. Hai imbrogliato ancora, le diceva, Ma lei rispondeva con un sorriso birichino alle sue proteste.
La signora del bar seduta di fronte a lui barava al gioco proprio come sua madre, usando la stessa furbizia, gli stessi imbrogli. Fu allora che si accorse che la signora col vestito a fiori era proprio sua madre, solo un po’ più giovane di come la ricordava e si meravigliò di non essere sorpreso da quella scoperta.
Era sempre stato convinto che un giorno l’avrebbe rivista e avrebbe di nuovo parlato con lei. Ma lei gli doveva qualche spiegazione. Che ci faceva in questo bar di nottambuli. Non era l’ora del tè e pasticcini, non era il suo posto questo.
Sua madre fece una breve risata: Ma Alberto, questo non è un bar, non te ne sei ancora accorto? Questo è un cinema. Il nostro cinema. Volevi sapere com’era dall’altra parte, e anch’io volevo saperlo. Tutti vorrebbero sapere la stessa cosa. Guardati intorno, qui è come al cinema. E durante l’intervallo ci portano anche qualcosa da bere.
Qui vediamo tutto quello che succede dall’altra parte. Non ci annoiamo mai. Sai, io vedevo anche te, ogni minuto della tua vita. Guardavo ma non riuscivo a sentirti. Il nostro cinema è a colori ma non ha il sonoro. Ti vedevo ma non ti sentivo. Fino all’ultimo, quando guidavi come un cieco nella nebbia.
Ascoltava sua madre senza capire di cosa parlava, cos’era questa storia balzana, cosa c’entrava il cinema, ma intanto sentiva il proprio respiro rallentare la corsa, i muscoli cominciavano a rilassarsi. Quel posto, quel bar o qualsiasi cosa fosse, gli sembrava un luogo sicuro. Si sentiva protetto, come non lo era mai stato. Si, stava bene, c’era un bel calduccio che invitava al sonno.
Ma si riscosse improvvisamente, pensò al suo viaggio, all’auto lasciata in strada, agli amici che lo aspettavano all’aeroporto. Si alzò e si diresse di corsa verso il bancone per pagare il suo cocktail. Ma intanto la luce rossa della sala si era spenta. Ora c’era solo un grande schermo bianco e cominciava la musica. La barista gli parlò sottovoce: Vada al suo posto, sta cominciando il secondo tempo. Vedrà, le piacerà.
In copertina: I nottambuli (Nighthawks) di Edward Hopper
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Atmosfere omerico-dantesche , scene onirico-psichiche per un via-vai tra inconscio e linguaggio. Buona continuazione del film e buona visione.
Film incompiuto. Finito troppo presto. Aspetto il secondo tempo.
veramente bello, poi letto a ferragosto ancora più straniante
Bravo Francesco. Un racconto dove la nebbia ti accompagna tra sogno e realtà.
Direi un po’ Buzzati e un po’ Edoardo De Filippo. Ci sono già tanti racconti nella nostra letteratura che mi è difficile non collocare anche il tuo nel solco di una tradizione illustre. Comunque bello. E breve. Due pregi non da poco. A mio modesto giudizio.
Bellissimo, con il ritmo giusto e una atmosfera che si fa sempre più luciferina… Alberto passa anche da Poggio Renatico, cosa volere di più?