Skip to main content

Vite di carta. La terra sbagliata dello scrittore albanese Gazmend Kapllani.

Di ogni libro che si legge bisognerebbe poter parlare con qualcuno. Oggi vorrei che Maria, mia compagna nel recente viaggio dentro il Festivaletteratura 2023 a Mantova, potesse essere qui e discutere con me del libro che Gazmend Kapllani ha presentato nella bella cornice di Santa Barbara giovedì 7 settembre.

E vorrei scrivere a Simonetta Bitasi che ha gestito l’incontro con Kapllani e con l’autrice italo-bosniaca Elvira Mujčić, per dirle che mi è servita la chiave di lettura da lei suggerita, anche se nel corso della lettura ho dovuto ridefinirne i confini semantici.

la terra sbagliata Gazmend KapllaniMi è stato utile cominciare La terra sbagliata aspettandomi un romanzo politico: è vero che la politica e la storia dell’Albania escono in primo piano a un certo punto del racconto, dopo un inizio dedicato alla vicenda personale di Karl, che da emigrato torna a casa per il funerale del padre dopo molti anni di lontananza, e della sua famiglia che invece è rimasta tenacemente legata al sortilegio della città natale, Ters (in albanese con due accezioni di significato, “sortilegio” e più in negativo “malocchio”).

Il romanzo racconta la massiccia emigrazione albanese seguita alla caduta del regime comunista negli anni Novanta, quando gli studenti di Tirana in segno di protesta occuparono le università e uccisero la dittatura facendo a pezzi la statua di Enver Hoxha.

Tra questi ragazzi c’è Karl. Si trova Karl anche tra i tanti che in seguito partirono dall’Albania per materializzare i loro sogni di libertà, andando in Europa, America, Australia, ovunque potessero, o nella vicina Grecia come accade al nostro protagonista.

Il romanzo mette a fuoco molto bene anche la visione del mondo della sua famiglia rimasta a Ters, del padre e del fratello, la cui voce emerge alla fine di buona parte dei capitoli. In caratteri corsivi si leggono le parole di Frederik , la sua dissonanza rispetto alle scelte di Karl, la cui vita  è andata avanti in altri paesi (dopo la Grecia, l’America), con altre donne a fianco, con il bagaglio delle lingue straniere imparate che si è accresciuto facendo lievitare in lui una identità aperta e sempre problematica. 

Nella stessa pagina in cui Karl  decide di fuggire dalla schiavitù a cui la dittatura ha ridotto gli albanesi e rinfaccia al padre la sua ortodossia comunista,  il fratello prende la parola per ricordargli gli insegnamenti paterni sulla importanza delle radici, della famiglia e della nazione. Due modi contrapposti di rapportarsi al proprio paese, alla origine di sé e al futuro.

A questo punto ho dovuto ripensare al significato di romanzo “politico” e includervi una accezione di più vasta portata e una che porta lo zoom narrativo su una scala decisamente più ridotta, di carattere personale e intimo. La prima va riferita all’orizzonte più ampio e generale, quello del sistema mondo in cui  la migrazione di individui e popoli è da sempre un carattere costitutivo, frutto e causa di squilibri e ri-categorizzazioni degli assetti geopolitici.

L’essere umano vive in un complesso equilibrio tra noto e ignoto, tra necessità di un radicamento e voglia di partire, di cambiare la propria situazione, di ribellarsi a un passato che non lo definisce più. Persino il più tradizionalista degli uomini, se guardasse al proprio albero genealogico, alla costituzione del proprio DNA,  scoprirebbe di essere il frutto di una qualche migrazione”: mi soccorrono le parole che trovo nella postfazione scritta dai due traduttori del romanzo, Ermal Rrena, emigrato da Tirana proprio come Karl nel 1991, e la milanese Rossella Monaco.

I quali aggiungono: “Accade che emigrare è un lavoro: presuppone visione, speranza, impegno, fatica, obblighi, in vista di una vita migliore… Ma emigrare è anche un diritto, specie – aggiungo io – quando coloro che partono fuggono da un paese che disattende i caratteri della polis e si fa terra di diritti calpestati e di guerre.        

Nella parabola di vita di Karl  questa prima accezione che potrei definire ecumenica si intreccia con l’altra, più intima e personale del figlio in lotta col proprio padre. “Nello scontro generazionale… si ritrova tutta la forza politica delle decisioni umane. Il figlio non comprende lo sforzo di costruzione del padre e il punto di vista del fratello che ha finito per incarnare quello del genitore. Il padre e il fratello non comprendono la sua volontà di definirsi attraverso l’incontro con l’altro“.

Allontanandosi dalla terra sbagliata ha trovato coordinate esistenziali più autentiche, come la donna che ha amato dalla giovinezza, perduta e poi miracolosamente ritrovata, e come il mestiere dello scrittore.

Quando torna per due settimane a Ters per il funerale del padre rivela a se stesso che nulla è davvero cambiato: le sue scelte confermate, la contrapposizione con la fissità della vita del fratello confermata e resa ancora più netta. Al nazionalismo di Frederik che concepisce le proprie radici soltanto in senso geografico e culturale, Karl risponde con altre radici, dal significato più ampio, esistenziale. 

Se Maria fosse qui condividerei con lei un’ultima frase molto bella in cui Rrena e Monaco parlano della difficoltà del tradurre e di ogni lingua come scrigno fluido e pulsante di una visione del mondo. La frase è questa: “nella traduzione convivono… l’incontro e lo scontro, l’impossibilità di dire la stessa identica cosa in lingue diverse, la volontà di avvicinarsi ai significati, alla musica, ai ritmi, alle immagini che fanno di un popolo quel che è. Di aprirsi invece di imporsi. Di lasciar andare invece di afferrare”.

Nota bibliografica:

  • Gazmend Kapllani, La terra sbagliata, Del Vecchio Editore, 2022 (traduzione di Ermal Rrena e Rossella Monaco)

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

tag:

Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it