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Vite di carta. Anno nuovo, parole nuove

Shecession è un neologismo di cui apprendo leggendo il numero dell’Espresso con data 27 dicembre 2020; lo metto accanto all’altro, V-day,  e incomincio l’anno nuovo con due nuove parole come viatico, se non addirittura come leitmotiv per il prossimo futuro.

Il vaccino, o meglio i vaccini già in distribuzione portano con sé il senso positivo di una battaglia a lungo combattuta contro il virus che ora volge al meglio; pur nella incertezza sulla durata della loro efficacia rappresentano il segno della ripresa. Sono belle parole, le vaglio mentre le scrivo e desidero che siano quelle vere da usare a vittoria raggiunta, quando avremo archiviato il Covid in termini di emergenza pandemica e lo affronteremo come una comune influenza. So anche, mentre le scrivo, che sono disattese: la disarmonia del mondo si è scatenata nella corsa agli approvvigionamenti e il V-day che bisogna usare come parola del momento sta dando la stura a irregolarità e disuguaglianze, nemmeno a dirlo a sfavore della parte più debole del pianeta, a quella povertà le cui isoipse sono un groviglio intricato che tocca ogni continente ma si concentra nel cosiddetto sud del mondo.

Nelle prime pagine dell’Espresso, nella sua rubrica La parola, Michela Murgia si esprime così: “Il virus non è amico di nessuno, ma anche negli stati che vantano standard di democrazia più elevati sono soprattutto le donne a rischiare di veder compromessi i loro diritti in nome dell’emergenza pandemica.” Infatti anche in un paese come l’Italia hanno per prime perso il lavoro, reggono il carico del lavoro dentro casa, che il lockdown ha reso più pesante, continuano a essere retribuite di meno rispetto agli uomini. “La minaccia del prossimo anno è nel neologismo shecession, la recessione selettiva post pandemica che colpirà le donne come nessun’altra categoria.”

In questa chiave è la differenza di genere a riproporsi come criterio di discriminazione nel mondo, e di seguito il settimanale propone alcuni articoli sul tema del potere alle donne. Raccontando sia di donne maltrattate in Etiopia e nelle nostre città, sia  di donne “di influenza globale”, come la premier neo-zelandese Jacinda Ardern e di nuove protagoniste nel mondo dell’arte e del giornalismo.

Leggo con interesse l’articolo di Giuseppe Catozzella sulle detenute della prigione di Adwa in Etiopia, che insieme ai loro figli subiscono una totale violazione dei diritti umani. Ritrovo lo sguardo lucido che ho già conosciuto nel reportage di Francesca Mannocchi sui migranti diretti in Europa che sono respinti con violenza sul confine bosniaco.

Leggo e mentre una consapevolezza amara mi entra in circolo ho voglia di fermarla, di esorcizzarla. Mi metto a fare il gioco delle esse. Ce lo insegnò una anziana signorina, che nelle telefonate augurali di diversi capodanni del passato immancabilmente augurava a mio marito e a me, e la voce le tremava, “tutte le esssse che volete”.
Le esse che in questi anni mio marito e io mandiamo nei messaggi augurali di inizio anno nascono da lì e riguardano un bel gruppetto di parole che proponiamo noi in questo modo: le prime due sono fisse e nello stesso ordine: salute e serenità; seguono in ordine sparso a seconda del momento solidarietà, soldi, speranza, quando ancora insegnavo sceglievo per me anche sabato libero, ecc…

Vado a consultare l’indice di un libro recente di Marco Balzano che ho sulla scrivania, Le parole sono importanti, e trovo le seguenti: Divertente, Confine, Felicità, Social, Memoria, Scuola, Contento, Fiducia, Parola, Resistenza. Se fossi in classe con i ragazzi farei due operazioni: la prima richiederebbe di guardarle un po’ più a fondo, una a una con tanto di etimologia, l’altra sarebbe un esercizio di scrittura creativa, utilizzandole tutte per formulare un breve testo e immaginando di avere una diversa età. Ma ora che il mio servizio nella scuola è finito, gioco a selezionarle in base alla mia prediletta esse. Qui compaiono social e scuola e posso licenziarle in fretta, perché verso i social sono guardinga e non li so usare per scelta (vile?) e perché la scuola è stata la mia vita e posso darne per scontato il valore. Mi sa che devo mettere sul tavolo qualche altro libro importante e darci un’occhiata; nel mio studio scorro gli scaffali più a tiro e vengo scelta dalle Lezioni americane di Italo Calvino e da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg.

Nel primo Calvino ha scritto sulle parole utili da consegnare al terzo millennio  – siamo nel 1984 e l’Università di Harvard lo ha invitato a tenere un ciclo di  conferenze a tema libero – e ne ha selezionate sei che non cominciano per esse, precisamente Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, e la sesta non conclusa Consistenza. Le prendo così, slegate dai discorsi letterari che Calvino intraprende, e le penso nel loro significato complessivo: serenità e Leggerezza si avvicinano, a tratti si intersecano e mi sento in qualche modo legittimata da un grande libro a continuare il mio gioco. Di Calvino poi mi affascina la Esattezza, sarà che per temperamento e per mestiere ho cercato di praticarla tutta la vita. Ho detto che mi affascina come altre categorie del dover essere, ma mi vedo mentre la saluto con la mano come fosse una parente in partenza su un treno veloce che la porta lontano, anzi lontanissimo.

Ho detto niente consapevolezza, solo parole augurali: allora avanti con Lessico famigliare alla ricerca dei modi di dire del professor Beppino Levi, padre della scrittrice. Nel libro vengono riportate da lei le parole e le frasi che si sono sedimentate nella sua famiglia, una famiglia ebraica e antifascista, che viene ritratta tra gli anni Trenta e Cinquanta, a Torino. Sono i detti e le filastrocche dei nonni e di altri parenti ormai scomparsi, dei genitori di Natalia, della sorella e dei tre fratelli. Ne nasce un tesoretto di parole come chiavi interpretative del mondo, capaci di far riconoscere anche al buio e tra migliaia di persone i componenti del gruppo-famiglia Levi.
Ecco le prime esse che trovo nei discorsi del padre, il personaggio a me più caro, con quel suo modo di camminare storto e distratto, che riproduce il suo rapporto sghembo con la vita. Trovo ski, perché Beppino ama la montagna e porta regolarmente a sciare la famiglia; lui dice ski e non addolcisce la pronuncia, cascasse il mondo. Trovo qua e là notizia delle sue sfuriate, che nascono frequenti e passeggere sia in famiglia che in Istituto all’Università di Torino, dove è titolare della cattedra di Anatomia Umana. Trovo gli scherzettini, che in famiglia è il nome dato alle barzellette: manco a dirlo il professore li disprezza, a meno che non siano antifascisti. Poi trovo sempio e sempiezzi e mi soffermo su alcune pagine davvero gustose: sempio è un incapace, uno inadeguato al suo ruolo. Sempiezzi sono in genere le cose fatte male, troppo semplici, di certo inadeguate alle aspettative del professore. Rido, rileggendo la pagina in cui sono sempiezzi i romanzi che egli legge la sera o quando è in viaggio, tutti scadenti anche se ne acquista in continuazione. E soprattutto “E’ un sempiezzo” ripararsi in cantina durante i bombardamenti su Torino, tanto se la casa viene colpita crolla tutto.

Sarà sicuramente sempio anche il mio gioco, che faccio durare poco. Lascio però alcuni puntini, come nei messaggi e nelle telefonate di buon anno: altre belle parole che cominciano per esse potete metterle voi…

Nel testo faccio riferimento ai seguenti testi:
– Marco Balzano, Le parole sono importanti. Dove nascono e cosa raccontano, Einaudi, 2019
– Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988
– Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, 1986

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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