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Nello spazio senza confini della letteratura il mio ultimo viaggio di lettrice si è fermato a Ferrara.

Provenivo da Lucca e da una storia inquietante accaduta a Davide, uno stimato neurologo dalla vita regolata e sicura: professione, famiglia, amici. All’inizio, perché si sa che ogni storia presenta una svolta prima o poi e nella sua (nel romanzo Nova di cui è autore Fabio Bacà [Qui]) il nostro neurologo incontra sconvolgimenti non da poco che lo cambiano in profondità.

A Ferrara mi aspettava Folco. Mi aspettava in una delle borgate che incontro per prime, entrando in città da sud, dalla Via Bologna. Era ad attendermi davanti alla vetrina di un bar che non c’è più, come qualche altro che è scomparso al mio paese. Restano luoghi storici e i clienti che li hanno frequentati con assiduità, quelli abituali, la cui bicicletta sapeva andare da sola fino a lì, spesso li ho sentiti chiamare uomini da bar.

Nel bel romanzo del ferrarese Cristiano Mazzoni, in cui Folco è il protagonista assoluto, si muove un gruppo di personaggi scaturiti dalla vita di borgata della Ferrara degli anni Ottanta: tipi umani la cui identità si è fatta in gran parte frequentando Il bar dei giostrai.

“Era quella l’università dove la loro generazione di figli del quartiere era cresciuta e aveva studiato, aveva fatto filotto con una boccia da biliardo, aveva bevuto uno spritz o una spuma, aveva smazzato una partita a trionfo o a bestia, aveva giocato a flipper, aveva guardato Novantesimo minuto e aveva letto il giornale a scrocco. E molto altro.”

Folco è un cliente fisso, fino dagli anni della adolescenza e la sua identità è tutta lì, nei pezzi di vita vissuti tra i tavolini presso il bancone o nel fumo della sala biliardo, più la passione per il partito comunista e per la Spal, la pesca, la scuola prima e il lavoro (precario) poi. La vita in famiglia nelle case popolari e anche un matrimonio finito col divorzio e la solitudine del dopo.

Mi sembra di vederlo, di conoscerlo. Ho circa quindici anni più di lui e ho incontrato un’altra Ferrara negli anni Settanta, andando ogni giorno al liceo, nella zona centrale e con compagni di classe della buona borghesia.

Ma al mio paese ho conosciuto gli ambienti dei bar, dove stazionavano i meno giovani conoscenti dei miei e molti ragazzi della mia età. E poi il narratore, pur usando la terza persona, assume con tanta immediatezza il punto di vista del suo personaggio che Folco diventa vivo.

Nella costruzione letteraria che l’autore ha scelto per presentarlo, noi lo incontriamo in una notte particolare. È la seconda domenica del campionato di calcio e la Spal ha battuto la sua rivale storica, il Vicenza. Folco esce dallo stadio compiaciuto e soddisfatto.

È con lui il cugino e amico storico Albi, che nel seguito della giornata e fino a notte fonda lo ascolta. Sì, perché Folco ha davanti ancora poche ore e poi nella mattina del lunedì andrà a un appuntamento per lui fatale.

Albi ascolta da lui il resoconto di quasi trent’anni di vita, ora Folco si avvicina ai cinquanta, e tutti i trent’anni vengono riassaporati in lunghi flash back, che permettono anche a noi lettori di comporre il mosaico del suo vissuto. Con l’ambiente del bar e di Ferrara all’intorno: la Ferrara dei tifosi spallini, degli attivisti del partito comunista, dei riti nella vita delle periferie.

Mentre la storia di Davide, il neurochirurgo cui accennavo prima, si svolge in senso cronologico e noi lettori lo vediamo cambiare giorno dopo giorno, Il bar dei giostrai incomincia nel presente della vita di Folco.

La finzione letteraria utilizza la memoria del personaggio per ricostruirne il vissuto; in questo modo procedono in parallelo la consapevolezza del personaggio su di sé e la nostra su di lui, sul suo passato.

Quando Folco ha finito di raccontarsi all’amico, siamo perfettamente allineati con lui e il lunedì mattina siamo pronti a condividere la tensione emotiva che ha dentro, mentre aspetta di rivedere dopo tanto tempo la donna del destino.

Il finale ha tratti fiabeschi e anche se non dovrebbe sorprendermi ormai nulla di ciò che i destini umani possono riservare, tuttavia nelle pagine conclusive ho sentito echi da La bella addormentata nel bosco e dal Principe ranocchio.

Ho rivisto in scena anche la bella Micol letteraria da Il giardino dei Finzi Contini [Qui], là irraggiungibile per chi la ama, mentre qui …

Le ultime pagine fanno lievitare un po’ magicamente il destino del protagonista: passato un numero predestinato di anni, cadono i roveti che impedivano l’accesso al castello della principessa e l’incontro con lei ed il bacio possono divenire realtà.

Ma desidero tornare al corpo di questo romanzo, alla parte precedente che è tutta realismo. Addirittura con tratti veristici e con il peso del milieu che forgia gli abitanti del quartiere, li mette di fronte alla “difficoltà di crescere sani in un ambiente spesso difficile, ma che, se sfruttato nella maniera giusta, fungeva da vaccino per tutta la vita.

Certo, non era scontato imboccare la giusta strada. Molti preferivano le scorciatoie che li portavano a cogliere i fiori del male, ben presenti agli angoli dei marciapiedi del quartiere. Ma questa era la legge della borgata: irrobustirsi e sgomitare fino a uscirne o rimanere deboli fino a restarne schiacciati”.

Il bar dei giostrai è anche una storia di tossici, che si bucano negli angoli bui e spesso muoiono in solitudine.
Qui al mio paese ne ho conosciuti. So i nomi di quelli, i più perduti, che hanno perduto la vita.

Ho conosciuto anche un altro Folco, in carne e ossa. Ero a Piacenza alcuni anni fa per l’Esame di Stato, presiedevo l’unica commissione di un Istituto Professionale in cui le due classi quinte da esaminare contavano qualcosa come dodici studenti ognuna.

Il commissario di Fisica era un ingegnere dal volto scavato e con gli occhi accesi: alto, magro, pronto a scattare per fornire di un bicchiere d’acqua il candidato sotto interrogazione, rigoroso nel fare le domande, ma pronto ad accompagnare le risposte con qualche aiutino. Un appassionato di musica rock, frontman in un gruppo che faceva serate in provincia.

Perché mi ha ricordato Folco? Aveva la stessa età quando l’ho conosciuto, e la stessa solitudine: viveva solo in una grande casa ai margini di un piccolo paese a pochi chilometri da Piacenza.

Era tornato due anni prima da New York, dove nella mattina dell’11 settembre 2001 aveva assistito alla distruzione delle torri gemelle ai piani dove si trovava il suo ufficio. Quel giorno, mentre camminava verso le torri, aveva visto crollare la sua attività professionale; al suo rientro in Italia lo aspettava una malattia grave.

Era venuto a fare gli esami quando era da poco guarito e credo fosse questa rinascita a lasciargli il segno, come di una febbre negli occhi.

Come viveva in paese? Veniva in città ogni mattina per insegnare in un Istituto Tecnico, ma il pomeriggio era dedicato al bar della piazza. Se ne stava a giocare a carte con i compaesani, e intanto dava un’occhiata ai ragazzi, mentre giocavano a flipper o chiacchieravano tra loro.

Spesso, se li vedeva starsene in ozio troppo tempo o li vedeva passare in lunghi giri davanti al locale, si alzava e li convinceva a tornarsene a casa a cercare di studiare un po’. A volte li accompagnava anche, e sempre con modi complici da fratello maggiore. O da “vecchio profe”, quando risultava più opportuno.

Si torna alle proprie radici, insomma, anche rientrando da posti lontanissimi. Oppure come accade a Folco si rimane figli di quelle radici, senza mai salire su un aereo per andare all’altro capo del mondo. Uomini da bar forever.

Poi, che sia una persona in carne e ossa, o un personaggio di carta, a restituirci un tipo umano come questo, che ha avuto e ancora ha piena cittadinanza nei nostri paesi e nelle nostre città, non mi pare discriminante. La vita parallela in cui si muove la letteratura ha a che fare con la vita. Altroché.

Nota bibliografica:

  • Cristiano Mazzoni, Il bar dei giostrai, Autodafé Edizioni, 2017

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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