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Presto di mattina. Queste tue mani

Mani

Mani, voce del verbo misurare, preparare, costruire, riparare, tendersi, dischiudersi, aprirsi. Mani che stringono, aprendo l’intimità; mani che trattengono, liberando dall’estraneità; mani che lottano conquistando dignità; mani che si abbassano per rialzare, mani che tengono per mano e intrecciano nel presente il domani.

Tendo la mano al sole d’oriente
e non ritrovo l’alba né salvezza
alcuna solo l’ombra di una pianta
secca cresciuta tra le rocce nude
nel nulla infisse le radici senza
terra fa giorno in questa fredda plaga
occidentale fa giorno e nessuno
si risveglia migliore tutto è come
ieri non sopportabile da vite
senza voce da corpi senza luce
abbandonati al giogo della roba
d’altri desiderata contro leggi
degli uomini e di Dio riconosco
il volto del dolore di chi tende
la mano per toccare un’altra mano
amica e si ritrova con un soldo
che tinge il palmo di vergogna senza
pietà le pagine del mondo scorrono
mentre l’ombra del vincitore
devasta il formicaio ed una lunga
notte mostra gli artigli che imprigionano
il sole che si spegne ad occidente
Non vivere domani il tuo presente
(Gianpaolo Anderlini, Distopie, Fara editore, Rimini 2020, 22)

Fiducia e fede nelle mani

«Una volta Rabbi Pinhàs di Korez si sentì turbato nella sua fede in Dio e non trovò altro rimedio che di andare a trovare il Baalshem. Udì allora che egli era appunto arrivato nella sua città. Pieno di gioia corse alla locanda. Diversi chassidim si erano raccolti intorno al Maestro, ed egli stava parlando su quel versetto della Scrittura che dice che le mani di Mosè, tese in alto nell’ora della battaglia contro Amalek, erano “emuna”, cioè fiducia, fede.

“Avviene talvolta – diceva il Baalshem – che si è turbati nella propria fede in Dio. Il rimedio contro questo è di pregare Dio di rafforzare la fede in noi. Ché il vero male che Amalek arrecò a Israele fu che con il suo fortunato assalto fece raffreddare la loro fede in Dio. Perciò Mosè, con le sue mani tese al cielo, che erano come la fiducia e la fede stesse, insegnò loro a pregare Dio che li rafforzasse nella fede, e questo solo è ciò che importa nell’ora della battaglia contro la potenza del male”. Rabbi Pinhàs l’udì, e il suo udire stesso fu preghiera, e già nella preghiera sentì la sua fede farsi forte» (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, 103-104).

Giù le mani

«Giù le mani dall’Africa. Non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». È stato questo il grido di papa Francesco nei suoi tre giorni in Africa, durante la sua visita nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan.

Giù le mani dalla dignità di un popolo e da coloro che con la loro vita e il loro sangue lo riscattano dalla corruzione. Nel suo intervento ha ricordato Floribert Bwana, ucciso a 26 anni a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati, che avrebbero danneggiato la salute della gente:

«Avrebbe potuto lasciare correre, non lo avrebbero scoperto, anzi ci avrebbe guadagnato…  Mantenere le mani pulite, mentre le mani che trafficano soldi si sporcano di sangue… Se qualcuno ti allungherà una busta, ti prometterà favori e ricchezze, non cadere nella trappola, non farti ingannare, non lasciarti inghiottire dalla palude del male. Non lasciarti vincere dal male, non credere alle trame oscure del denaro, che fanno sprofondare nella notte, vinci il male con il bene!… Diciamo insieme: no alla corruzione».

Queste parole le ha ripetute in Sud-Sudan: “no” alla corruzione, ed ha aggiunto “no” ai traffici di armi, ricordando i minori costretti alla guerra; essi sono come «un grido che sale a Dio e che accusa gli adulti che hanno messo le armi nelle loro piccole mani»; un «crimine abominevole» che deruba i bambini «della loro infanzia, della loro innocenza, del loro futuro, tante volte della loro stessa vita. Diciamo invece “sì” all’incontro e al dialogo. Solo così potrà esserci sviluppo, la gente potrà lavorare in pace, i malati curarsi, i bambini andare a scuola».

Riferendosi in particolare all’ex Zaire e alle sue innumerevoli risorse nel nord Kivu ha evidenziato lo sconcertante paradosso che in questo paese «i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti… un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca».

Nelle mani

Nel testo poetico di Anderlini, Distopie (utopie negative), risuonano, si intrecciano le parole del Papa. Il quale, prendendo tra le sue mani le piaghe del paese africano, ha ascoltato le testimonianze dei sopravvissuti alle atrocità e al massacro nel Kivu, le sofferenze delle molte persone vulnerabili esposte alle sofferenze indicibili dovute a corruzione, sfruttamento indiscriminato delle risorse, incursioni di bande armate, mancanza di medici e medicine, ai pregiudizi sociali.

Di fronte a questo fosco scenario, paragonabile a un buco nero di fronte al quale anche la fede è turbata, egli sì è domandato: «vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante?». Come a dire: vale la pena battersi là dove gli sfruttatori neo coloniali, «l’ombra del vincitore/ devasta il formicaio ed una lunga/ notte mostra gli artigli che imprigionano/ il sole che si spegne ad occidente?».

Dai giovani, che erano in 65 mila festosi e danzanti ad accoglierlo nello stadio di Kinshasa, è venuta a Francesco la risposta: «voi mi avete detto ne vale la pena e c’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo: volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano per riconsegnarlo alla sua dignità…

In questo Paese, dove c’è tanta violenza che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile. Non mi avete fatto un elenco di problemi sociali, enumerato dati sulla povertà, ma mi avete fatto incontrare nomi e volti».

Non solo denuncia ma la profezia deve tradursi in un faccia a faccia, in operosità etica e corresponsabilità. Ecco allora l’invito a «fuggire l’autoritarismo disarmando i cuori bellicosi; favorire libere elezioni, trasparenti e credibili; estendere ancora di più la partecipazione ai processi di pace alle donne, ai giovani, ai gruppi marginalizzati; rafforzare la limpida presenza dello Stato lottando contro la corruzione e contrastando le ingerenze straniere che destabilizzano intere aree geografiche… Tutto questo investe di responsabilità delle comunità cristiane, cattoliche e di ogni altra tradizione e denominazione».

Guardate dentro alle vostre mani

…ovunque capiti
di vivere mattino pomeriggio
e sera forse domani si recita
a soggetto con libere parole
e liberi pensieri ed una smorfia
di piacere impigliata tra le labbra)
(e se) così comincia l’avventura
(oggi) in quel domani che non viene
(provassimo) così come sperato
(a sognare) nel fango dell’attesa
(senza maschera) sono nudo e tremo
(“Echi”, Distopie, 52)

mi consolo dicendo che bisogna
riportare la terra in terra e il cielo
in cielo e ritrovare l’orizzonte
per evitare che la terra torni
piatta ed il maelstrom (gorgo) della vita sbucci
ginocchia e mani di chi ancora prega
e chiede di tornare a casa oggi
e non l’ottavo giorno quanto tutto
sarà per tutti casa e più nessuno
sarà lontano dal suo luogo ora
domani è solo un oggi che si attarda
(Gianpaolo Anderlini, Incontri, Fara editore, Rimini 2020, 64)

Così in questo oggi che fatica a divenire domani papa Francesco ha detto ai giovani che riempivano lo stadio della Capitale congolese il 2 febbraio: «Sono felice di avervi guardato negli occhi, di avervi salutato e benedetto mentre le vostre mani levate al cielo facevano festa.

Ora vorrei chiedervi – ha proseguito Francesco – per alcuni momenti, di non guardare me, ma proprio le vostre mani. Aprite i palmi delle mani, fissateli con gli occhi. Amici, Dio ha messo nelle vostre mani il dono della vita, l’avvenire della società e di questo grande Paese.

Fratello, sorella, le tue mani ti sembrano piccole e deboli, vuote e inadatte per compiti così grandi? Vorrei farti notare una cosa: tutte le mani sono simili, ma nessuna è uguale all’altra; nessuno ha mani uguali alle tue, perciò tu sei una ricchezza unica, irripetibile e incomparabile. Nessuno nella storia può sostituirti.

Chiediti allora: a che cosa servono queste mie mani? A costruire o a distruggere, a donare o ad accaparrare, ad amare o ad odiare? Vedi, puoi stringere la mano e chiuderla, diventa un pugno; oppure puoi aprirla e metterla a disposizione di Dio e degli altri».

Come un diamante nel creato è il vostro paese e «la Chiesa e il Papa hanno fiducia in voi, credono nel vostro futuro, in un futuro che sia nelle vostre mani e nel quale meritate di riversare le vostre doti di intelligenza, sagacia e operosità… Coraggio, fratello e sorella congolese! Rialzati, riprendi tra le mani, come un diamante purissimo, quello che sei, la tua dignità, la tua vocazione a custodire nell’armonia e nella pace la casa che abiti. Rivivi lo spirito del tuo inno nazionale, sognando e mettendo in pratica le sue parole: “Attraverso il duro lavoro, costruiremo un Paese più bello di prima; in pace”».

Cinque nomi per le dita della mano

«Giovane che sogni un futuro diverso, dalle tue mani nasce il domani, dalle tue mani può venire la pace che manca a questo Paese. Ma come fare concretamente? Vorrei suggerirvi alcuni “ingredienti per il futuro”: cinque, che potete associare proprio alle dita di una mano.

Al pollice, il dito più vicino al cuore, corrisponde la preghiera, che fa pulsare la vita. Può sembrare una realtà astratta, lontana dalla concretezza dei problemi. Invece la preghiera è il primo ingrediente, quello fondamentale, perché da soli non ce la facciamo. Non siamo onnipotenti e, quando qualcuno crede di esserlo, fallisce miseramente. È come un albero sradicato: anche se grande e robusto, non si regge in piedi da solo…

…Ora guardiamo al secondo dito, l’indice. Con esso indichiamo qualcosa agli altri. Gli altri, la comunità, ecco il secondo ingrediente. Amici, non lasciate che la vostra gioventù sia rovinata dalla solitudine e dalla chiusura. Pensatevi sempre insieme e sarete felici, perché la comunità è la via per stare bene con sé stessi, per essere fedeli alla propria chiamata. Invece, le scelte individualiste all’inizio sembrano allettanti, ma poi lasciano solo un grande vuoto dentro.

Preghiera, comunità; arriviamo al dito centrale, che si eleva al di sopra degli altri quasi a ricordarci qualcosa di imprescindibile. È l’ingrediente fondamentale per un futuro che sia all’altezza delle vostre aspettative. È l’onestà! Essere cristiani è testimoniare Cristo. Ora, il primo modo per farlo è vivere rettamente, come Lui vuole.

Ciò significa non lasciarsi imbrigliare nei lacci della corruzione. Il cristiano non può che essere onesto, altrimenti tradisce la sua identità. Ma – mi chiedo – come si sconfigge il cancro della corruzione, che sembra espandersi e non fermarsi mai? Ci aiuta San Paolo, con una frase semplice e geniale, che potete ripetere fino a ricordarla a memoria. Eccola: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21).

…Siamo al quarto dito, l’anulare. Lì si mettono le fedi nuziali. Ma, se ci pensate, l’anulare è anche il dito più debole, quello che fa più fatica ad alzarsi. Ci ricorda che i grandi traguardi della vita, l’amore anzitutto, passano attraverso fragilità, fatiche e difficoltà.

Ma, nelle nostre fragilità, nelle crisi qual è la forza che ci fa andare avanti? Il perdono. Perché perdonare vuol dire saper ricominciare. Perdonare non significa dimenticare il passato, ma non rassegnarsi al fatto che si ripeta. È cambiare il corso della storia. È rialzare chi è caduto. È accettare l’idea che nessuno è perfetto e che non solo io, ma tutti quanti, hanno il diritto di poter ripartire.

Preghiera, comunità, onestà, perdono. Siamo all’ultimo dito, il più piccolo. Tu potresti dire: sono poca cosa e il bene che posso fare è una goccia nel mare. Ma è proprio la piccolezza, il farsi piccoli che attira Dio. C’è una parola chiave in questo senso: servizio. Chi serve si fa piccolo. Come un minuscolo seme, sembra sparire nella terra e invece porta frutto.

Secondo Gesù il servizio è il potere che trasforma il mondo… Servire non è restare con le mani in mano, è mobilitarsi. Tanti si mobilitano perché calamitati dai propri interessi; voi non abbiate paura a mobilitarvi nel bene, a investire nel bene, nell’annuncio del Vangelo, preparandovi in modo appassionato e adeguato, dando vita a progetti organizzati, di lungo respiro. E non abbiate paura di far sentire la vostra voce, perché non solo il futuro, ma anche l’oggi è nelle vostre mani: siate al centro del presente!».

Il gesto e la parola le tue due mani per riparare il mondo

Sento ancora il respiro delle cose
amate e la carezza di una mano
amica l’onda lunga di un abbraccio
e il lento spandersi del bene nelle
pagine aperte e non ancora scritte
Moltiplica la grazia e forse il male
si siederà lontano all’orizzonte
opaco del passato e sentirai
l’affanno delle mani rifiutate
ed il respiro corto del dolore
altrui (prova da solo a riparare
il mondo con titanica tenacia
e non lasciare nulla d’intentato
perché non ci sarà nessuno a fare
qui ed ora la parte che ti attende)
Basta un sorriso a riparare il mondo (?)
(Orme, in Distopie, 17).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui] 

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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