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Il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio è stato eletto 266° pontefice della Chiesa cattolica e si può forse iniziare a racciare un primo bilancio di questi sei anni di papa Francesco. A farlo alcuni giorni fa, Massimo Faggioli, a Santa Francesca Romana, la sua parrocchia prima che spiccasse il volo nel 2008 per gli Usa, dove insegna e fa ricerca storica e teologica, ora, alla Villanova University di Philadlphia in Pennsylvania.

Il profilo tratteggiato di papa Bergoglio è stato quello di un “gesuita pragmatico” che, in sostanza, sta andando avanti per la sua strada innescando processi, più che formulare risposte risolutive. Un incedere incurante dei freni della curia romana, di un Pontefice che non perde il sonno la notte se il suo fare non incrocia il sostegno di un pensiero teologico. Anche se il suo tragitto pastorale non si può dire privo di una teologia e filosofia, come vorrebbe chi lo sminuisce come ‘parroco del mondo‘ in confronto con il papa teologo per definizione: Joseph Ratzinger.

Ma la parte saliente della riflessione di Faggioli è stata riservata allo scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa.
Qui l’atmosfera in sala si è fatta densa e preoccupata.
Le rivelazioni nel giugno 2018 a carico dell’ex arcivescovo di Washington D.C., Theodore McCarrich (espulso il luglio successivo dal collegio cardinalizio per decisione di papa Francesco); in agosto il rapporto del gran giurì della Pennsylvania che rivelava il sistema di coperture a favore di sacerdoti accusati di pedofilia e alla fine dello stesso mese la pubblicazione del memoriale dell’ex nunzio negli Usa, Carlo Maria Viganò, con tanto di nomi e cognomi di cardinali e vescovi accusati di collusioni con circoli gay, che avrebbero favorito McCarrick e altri (e invito rivolto al Papa a dimettersi); fino all’annuncio di papa Francesco, in settembre, della riunione straordinaria dei presidenti delle conferenze episcopali a Roma dal 21 al 24 febbraio 2019.
E poi lo choc delle rivelazioni riguardanti l’Irlanda; la vicenda dell’arresto, con sentenza in diretta tv australiana, dell’ex ministro vaticano per l’economia, cardinale George Pell (condannato a sei anni di carcere per abusi sessuali); il film premio oscar ‘Il caso Spotlight‘ sulla diocesi di Boston con le accuse al cardinale Bernard Francis Law (dimessosi nel 2002 sotto il peso dello scandalo e morto nel 2017), di aver coperto in modo costante e sistematico gli abusi compiuti da sacerdoti; fino alla consapevolezza che “quasi tutte le chiese occidentali ne sono coinvolte a livello dei loro più alti responsabili”, scrive lo stesso Faggioli (Il Regno 2/2019).
Sono solamente alcuni esempi di un ciclone che si sta abbattendo sulla Chiesa cattolica (ma il fenomeno non risparmia le altre confessioni e la società in generale, nella sua mutazione antropologica nell’era capitalistico-digitale), senza contare che il silenzio che finora riguarda la Chiesa italiana pare non significhi che qui il problema non esista.

Un macigno grande come una casa, le cui implicazioni non fanno che aggiungere preoccupazione a inquietudine.
Proviamo a dirne solo alcune.
Il tutto accade dopo che per anni la predicazione morale ecclesiale è stata concentrata in modo insistito, martellante e ossessivo sulla sfera sessuale, fino all’irrigidimento intransigente sui valori non negoziabili, tralasciando in secondo piano la questione sociale e imbastendo alleanze – più o meno tattiche (atei devoti, tecocon…) – con abbracci politici imbarazzanti, se non sconfinati nella più plateale incoerenza.
Un’impostazione che, per quanto con l’attuale pontificato stia conoscendo una decisa correzione di rotta, finisce per porre un grande problema di credibilità della Chiesa, nell’impatto brutale contro le proporzioni dello scandalo abusi.
Le conseguenze non sono di portata minore, se si pensa che questo ciclone è facile fianco per usi strumentali sul piano teologico, pastorale, culturale e politico.

Se la globalizzazione, specie in Occidente, sta producendo disuguaglianze dove si attendeva il definitivo passaggio delle colonne d’Ercole di una nuova era di benessere, questo significa società facili prede di paure e nuovi rancori, con tanto di ripiegamenti nostalgici e chiusure dietro ripari, per quanto anacronistici, del passato: nazionalismi, sovranismi, suprematismi, muri, barriere, dottrine, tradizionalismo. Tutte letture che, per quanto strumentali, trovano orecchi sensibili per ostacolare chi vuole incamminarsi sulla strada di una ecclesia semper reformanda.

Restando nel recinto strettamente ecclesiale, non si potrà trascurare a lungo anche il problema di un collegio cardinalizio così pesantemente investito che, prima o poi, dovrà riunirsi per eleggere il prossimo Papa.
Non da meno è, e destinato a essere, il prezzo in termini di vittime innocenti di questo uragano: da chi, devastato, ha subito violenze inconfessabili, e tuttora inconfessate, ai casi, già verificati, di prelati dimessi o allontanati da incarichi pastorali, travolti sotto il peso insopportabile delle accuse, poi scagionati al termine dei processi.

Se poi l’altra categoria di cittadini ecclesiali, oltre ai consacrati, è quella dei laici, dai quali attendersi una ventata di aria nuova dove ristagna un’atmosfera a dir poco plumbea, non si possono trascurare le analisi di chi, con tutto lo spirito costruttivo che si vuole, ha intitolato libri come ‘Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano‘ (2008). In questa riflessione, per esempio, Fulvio De Giorgi fa impietosamente notare che, per ordini partiti dalle alte sfere gerarchiche, per lunghi decenni i paradigmi conciliari della mediazione (Azione cattolica e cattolicesimo democratico) e del paradosso (la linea Roncalli-Dossetti), sono stati sacrificati per dare mano libera al paradigma movimentista della presenza (Comunione e liberazione): al posto del dialogo con la modernità si è dato fiato e spazio all’eterno ritorno del mito della conquista.
Il risultato è, almeno così sembra, che in queste condizioni fare appello al laicato è un po’ come infierire sulla Croce Rossa.

L’impressione, quindi, è che nella tempesta degli abusi sessuali, su cui esperti come Faggioli dicono che si sta solo iniziando a levare il coperchio, lo stesso papa Francesco corra il serio rischio di essere tremendamente solo nel suo pur eroico tragitto.
Da solo, perché ormai è impossibile rimetterci il coperchio: significherebbe andare incontro a una sconfitta tutta consumata sul piano dell’incoerenza, del testacoda.
Da solo, inoltre, perché questa sfida epocale avviene con un corpo ecclesiale a sua volta risultato di un modello formativo (l’età costantiniana, come l’ha chiamata Alberigo, il paradigma tridentino, come l’ha definito Paolo Prodi, o l’età piana di Fulvio De Giorgi), giunto storicamente al capolinea e con un cattolicesimo che tuttora si porta dentro le tossine di un clericalismo invasivo (da leggere la riflessione di Hervé Legrand su Il Regno 2/2019), che al più gli ha concesso ospitalità nella Chiesa, mai cittadinanza.
Non a caso papa Bergoglio, in un’analisi lucidissima, è arrivato a indicare nel clericalismo la radice deviante che in proiezione ha prodotto il disastro drammatico degli abusi, ancora da misurare in tutta la sua estensione.

E tornano alla mente le parole che l’allora cardinale Joseph Ratzinger pronunciò alla nona stazione della famosa via crucis del 2005, al posto di un esausto Giovanni Paolo II ormai al termine dei suoi giorni terreni: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa”. Lo stesso Benedetto XVI, che nel 2013 rassegnò le sue clamorose dimissioni.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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