«La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi» (Sal 118, 22-23).
Ho pensato che in questo versetto del salterio si compendia e ricapitola tutta la meraviglia racchiusa tra le pagine del vangelo, come tesoro nascosto, perla preziosa più di tutte.
Del resto è proprio questo versetto del salmo che Gesù stesso – stando a tutti i vangeli sinottici − cita a commento della propria drammatica vicenda, narrata dalla parabola dei vignaioli omicidi, come metafora dell’inaudita e impensabile meraviglia operata da Dio nella “vita scartata” del profeta di Nazareth.
La morte trafitta dalla vita. Fu questa la sorpresa dapprima tutta interiore del centurione romano che sotto la croce, colpito da quella morte che inconsapevolmente lui stesso stava trafiggendo con la lancia, non riuscì a trattenersi professando parole di stupita meraviglia.
La parola della fede che improvvisa svelava l’identità inaudita del crocifisso: «Davvero costui era figlio di Dio». Un avverbio di valore assertivo, quel “davvero”, che racchiudeva, nel luogo del cranio, un’esplosione di stupore: la meraviglia testimoniale della fede di un pagano per ciò che i suoi occhi stavano contemplando in quell’umanità crocifissa: la presenza di Dio.
Una meraviglia non dissimile a quella degli increduli pastori di Betlemme, di fronte alla visione degli angeli che annunciavano la nascita di Gesù all’inizio del Vangelo.
Stupore e gioia grande, la loro, che si ritrova pure nei discepoli e discepole sorpresi da non credere e stupefatti da quella meraviglia accaduta loro il mattino di Pasqua al levar del sole alla fine del vangelo. La pietra scartata del sepolcro è diventata pietra d’angolo, inizio di una nuova storia.
Ma il vero è che meraviglia e stupore affiorano lungo tutti i vangeli, ad ogni manifestarsi della identità nascosta in Gesù, della forza che usciva da lui (exousia): quella che si specchia nel suo agire taumaturgico in grado di ribaltare le sorti umane irrimediabilmente perdute:
«I presenti furono presi da stupore e dicevano: “Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?”»; «e le folle, prese da stupore, dicevano: “‘Non si è mai vista una cosa simile in Israele!”»; «e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”». «Lo stupore infatti aveva invaso lui, Pietro e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto».
Meraviglia e stupore – quest’ultima parola traduce il greco extasis, ‘tirato fuori di sé per l’accaduto’ – intrecciano entrambi anche l’agire di Dio in favore del suo popolo. Le opere meravigliose da lui compiute ordiscono come un filo rosso tutta la storia della salvezza, dalle storie dei Patriarchi a quella storia dell’Esodo sino ai Profeti.
Meraviglie tutte cantate e testimoniante con 37 ricorrenze nel libro dei salmi. La meraviglia narrata nel salmo 126, 1 è per un sogno impossibile che si realizza: «Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare»; «Siamo stati liberati come un passero dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati» (Sal 124, 7).
Meravigliarsi è un verbo che viene usato per accentuare il valore di ciò che è accaduto; per focalizzare tutta l’attenzione su eventi inattesi, insperati, inimmaginabili. Nella Bibbia è l’epifania di Dio, il suo manifestarsi nell’operare che suscita uno stupore incredibile.
Come ogni manifestazione del sacro, così il manifestarsi di Dio nella storia, suscita ad un tempo inquietudine e meraviglia, timore e gioia, stupore e incredulità. La sua epifania attrae e respinge al contempo.
Mysterium tremendum et fascinas è il sacro, così pure il manifestarsi del Santo al suo popolo. Pensiamo al racconto del Roveto e alla rivelazione al Sinai, nonché alle fitte tenebre in pieno meriggio e il terremoto sconvolgente con cui Matteo descrive la morte e la risurrezione di Gesù.
Ma anche il verbo greco thaumàzein − la cui radice si ricollega a vedere, contemplare lo spazio aperto dell’agire di Dio che si apre un varco nello spazio ristretto dell’uomo − traduce il nostro stupirsi, strabiliare, sbilanciarsi oltre sé perdendo in certo modo l’equilibrio.
Un termine, thaumàzein, che nei vangeli esprime due atteggiamenti diversi, ma entrambi connessi alla fenomenologia del sacro. Da un lato, un aspetto critico, dubitativo, quasi una non accettazione derivante dall’incomprensione, dalla durezza di cuore, dalla chiusura di fronte all’evidenza dell’accaduto, dalla mala fede: Gesù si meravigliava della loro incredulità e ostinazione.
Dall’altro lato esprime invece un osservare con meraviglia la fede presente e vivissima dove sembrava non ci fosse: la meraviglia di Gesù di fronte alla fede del centurione (“non ho trovato in Israele una fede così”) o della donna cananea: «davvero, grande è la tua fede» (di nuovo ritroviamo l’avverbio di chi resta grandemente sorpreso).
Così come nell’antichità la meraviglia era l’inizio della filosofia, la condizione per chi avesse il desiderio di conoscere e diventare amico della sapienza, parimenti lo stupore introduce nella fede, la precorre, è per essa angelo nunziante di una fedeltà che muta le sorti: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo… una meraviglia ai nostri occhi».
Per questo, non posso non meravigliami ogni volta del vangelo quando le sue parole diventano parole per me, che mi parlano ancora e mi rialzano sulla via: «sorpresa di un amore», al modo di un seme che all’improvviso germoglia tra pietra e pietra, di una stella alpina nel crepaccio oscuro di una roccia, o di vite in pianto che recisa dei suoi rami per quella povertà diviene feconda di una moltitudine di frutti.
Praticare la meraviglia dentro questo «immenso non sapere» che è sempre il vangelo, come pure dentro lo sprofondo oscuro e luminoso della nostra vita tra la gente, diventa un esercizio della libertà che si affida. Chiamati a praticare la meraviglia nella forma di una con-versatio, un andare verso tutto ciò che è abitato dallo spirito: «alberi, animali e il cuore umano».
Non finirò mai di meravigliami di quel vangelo nascosto dentro le persone che incontro tutti i giorni, ed anche in quelle che “incontro” nei libri da loro scritti. È stato così anche questa volta aprendo il libro ancora odoroso di stampa di Chandra Candiani [Qui], Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi animali e il cuore dell’uomo, (Einaudi Torino 2021).
Ci rammenta la Candiani che «gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire… perché sanno abbandonarsi, conoscono e insegnano una fiducia primaria e radicale» (ivi, 11).
Mi sono detto così che lo stesso accade con il vangelo: ti insegna l’attesa confidente dimorando nel non sapere; ti invoglia a non chiudere le sue pagine, a non pensarlo finito quando hai terminato la lettura e non hai trovato niente, perché il sapere Gesù Cristo e la sua amicizia è una vita che si conosce e ti meraviglia solo condividendola, intrecciandoti ad essa; un amore da vivere che resta sempre «un immenso non sapere».
L’invito della Candiani è quello allora di praticare la meraviglia, una buona pratica pure del credere e dell’amare. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi è come entrare così attraverso l’evangelica porta stretta che dischiude alla vita ancora nascosta, alla parola ancora silenziosa, al gesto immobile, alla pietra non ancora riscattata.
«Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere, a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora.
La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra. Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre più piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura» (ivi, 9).
La poetessa Hadewijch di Anversa [Qui], visionaria e maestra spirituale vissuta nel ducato di Brabante del XIII secolo, è stata una delle voci più appassionate della letteratura e lingua neerlandese parlata in Olanda e nel Belgio settentrionale.
Racconta che una volta, sentendo un sermone che gli dissero essere scritto da Agostino, si infiammò talmente tanto interiormente che le sembrò come se il mondo intero dovesse essere incendiato dalla stessa fiamma che sentiva ardere in lei, e tutta presa da questa meraviglia di amore esclamò: «L’amore è tutto».
È proprio questa la chiave di lettura più propizia con cui accingersi alla lettura dei suoi Canti di amore, proposti per la prima volta in una integrale traduzione italiana. È «la splendida voce di una donna libera», scrive Chiara Frugoni [Qui].
Una mistica che percorreva la “via di mezzo” ricorda poi Francesca Barresi nell’introduzione: «Tra la fine del dell’XI e XIII secolo… avvenne allora un fatto inedito: alcune di quelle (donne) che non riuscivano ad essere accolte in istituti regolari scelsero di esprimere la propria religiosità al di fuori dei modelli fino ad allora noti, affermando la propria libertà d’esistenza sociale e religiosa pur non essendo né mogli né monache.
Queste donne, che senza prendere voti o ricevere alcuna consacrazione si dedicarono alla preghiera, all’apostolato, alle opere assistenziali, nei documenti ufficiali e in altri testi del tempo vengono chiamate mulieres religiosae, dette “beghine” nelle lingue volgari…
Socialmente non classificabili come laiche né ecclesiasticamente riconosciute come religiose, queste donne manifestano il desiderio di condurre una vita mixta, conciliare cioè vita attiva e contemplativa, unendo nella propria quotidianità il lavoro di assistenza al prossimo ad un’intensa attività di preghiera e contemplazione» (Canti, CED, Bologna 2022, 25).
Precisa ancora la Frugoni nella prefazione che «Hadewijch, in quanto beghina, anzi, magistra di beghine, fu una mistica che compì un passo ulteriore, perché non ebbe un marito, ma nemmeno scelse l’isolamento del chiostro, dove le monache, pur conducendo singolarmente una vita di astinenza e di preghiera, erano pur sempre donne custodite da uomini, obbligate ad avere vasti possedimenti e persone che lavorassero per loro per assicurarne il mantenimento.
In quanto beghina, Hadewijch si mantiene con il lavoro delle sue mani: è, dunque, una donna che non ha un marito, né ha sopra di sé un vescovo o un sacerdote a cui debba dare conto, o un confessore che traduca le sue parole, le sue visioni mistiche, nel latino della Chiesa, condizionato da una concezione maschile e misogina della donna. Hadewijch è completamente libera e libera è la sua voce, che può esprimersi con la più grande autonomia» (ivi, 7).
Sua è l’espressione «meravigliosa meraviglia» e «incomprensibile meraviglia» è l’amore: «Quando Amore eguaglia a sé gli amanti,/ e si dà all’amore con amore,/ non so come – rimane indicibile/ e anche incomprensibile,/ perché nulla esiste di simile -/ come Amore abbracci l’amato» (ivi, 142).
Viaggerà lontano chi vuole portare a compimento l’amore:
– per la sua vasta immensità, sulle sue più alte altezze,
nel suo fondo più profondo –
esplorandone le vie in ogni tempesta,
fino a conoscere la meravigliosa meraviglia
che è: attraversare la distesa selvaggia,
continuare a camminare e mai fermarsi,
sorvolare le altezze e scalarle,
nuotare attraverso l’abisso
per ricevervi l’amore, tutto l’amore.
(ivi, 144).
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