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Quest’anno vi vogliamo raccontare il Premio Estense visto da dentro. Una vera coccola per i nostri affezionati lettori. Proprio così, vi raccontiamo la 58° edizione del premio da (co)protagonisti della decisione sul vincitore dell’Aquila d’oro consegnata sabato 24 settembre al Teatro Comunale di Ferrara: per il primo anno sono parte della giuria dei lettori. Un onore che mi ha reso felice per la ricchezza dell’esperienza ma, soprattutto, orgogliosa del privilegio di far parte di quel gruppo ristretto che ha potuto dibattere con una giuria tecnica di grande prestigio intellettuale. Una ricchezza che ci si porta dentro.

Nella nostra città, il Premio Estense è un’istituzione da oltre 50 anni, ricordo quando al liceo sognavo di parteciparvi come spettatore elitario. Mai avrei immaginato che un giorno avrei potuto essere dalla parte di chi quei libri li avrebbe letti e votati. La vita sa riservare belle sorprese. In realtà questo prezioso riconoscimento è ormai diventato noto e prestigioso anche a livello nazionale. Nel tempo si è sempre di più contraddistinto per il suo livello e la qualità dei partecipanti. Senza contare che da 18 anni viene presentato da una bravissima giornalista, Cesara Bonamici, ormai affezionata e gentile padrona di casa.

La quartina finalista del premio quest’anno è stata selezionata fra ben 45 opere, un bell’impegno per la giuria tecnica composta da 10 grandi firme del giornalismo: Giacomo Bedeschi, Michele Brambilla, Luigi Contu, Tiziana Ferrario, Paolo Garimberti, Jas Gawronski, Giordano Bruno Guerri, Laura Laurenzi, Agnese Pini, Venanzio Postiglione.

A contendersi il titolo di eccellenza nel e del giornalismo italiano, Mirella Serri con Claretta l’hitleriana. Storia della donna che non morì per amore di Mussolini (Longanesi), Dacia Maraini, con La scuola ci salverà (Solferino), Maurizio Molinari, con Il campo di battaglia. Perché il Grande Gioco passa per l’Italia (La nave di Teseo) e Marzio Breda, con Capi senza Stato. I presidenti della Grande Crisi italiana (Marsilio).

Quartina finalista a Palazzo Crema, foto Valerio Pazzi

Ammetto, e quindi vi svelo, che fino quasi all’ultimo ho tifato e votato per Mirella Serri, poi alla quinta votazione ho dovuto cedere, dando vita a quello che una brillante giovane giurata (mi scuserà se non ne ricordo il nome) ha definito come il necessario terzo polo che doveva avere – e ha avuto – un ruolo decisivo nella decisione finale.

Inizialmente si pensava a un duello tutto al femminile. A fronteggiarsi, infatti, nelle preferenze di entrambe le giurie, Mirella Serri e Dacia Maraini, che parevano le favorite. Sembrava fatta, ma poi l’acceso dibattito, i vari punti di vista e il pronostico si ribalta. Non si deve votare il tema o la personalità, si dice fra i giurati, ma il lavoro giornalistico. Qualcuno deve essere disposto a convergere verso i due che, a un certo punto, hanno più voti, Marzio Breda e Dacia Maraini. Un bel testa a testa. Deduco che sul primo siano convogliate le preferenze che erano di Molinari, ma non solo. E si arriva al verdetto. A sorpresa, il quirinalista Breda, con il suo Capi senza Stato. I presidenti della Grande Crisi italiana, si aggiudica il prestigioso riconoscimento.

Ma veniamo ai libri, a ritroso. Tutti meritevoli di lettura e attenzione.

Il testo di Mirella Serri è un’autentica scoperta. Rigore storico (Mirella è docente di letteratura italiana contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, oltre che collaboratrice de La Stampa, di Rai Storia e di Rai Cultura), profonda analisi e conoscenza di documenti inediti e notizie ricavate dalle lettere e dai diari di Claretta Petacci, con questo libro assistiamo a una rilettura non convenzionale di uno dei simboli del Novecento femminile, all’interno di uno dei capitoli più controversi della nostra storia recente. Claretta non è più la donna che si immola per amore di un uomo, come ci è stata sempre presentata: anche Sandro Pertini, il valoroso comandante partigiano che aveva ordinato l’esecuzione di Benito Mussolini, divenuto poi presidente della Repubblica italiana, negli anni ‘80 condannò l’uccisione di Claretta, sostenendo che era stata una donna coraggiosa e generosa. Il ruolo di vittima immolata sull’altare dell’amore è stato a lungo uno stereotipo che oggi non regge più, quasi un’attenuante alle colpe del fascismo e al ruolo che una donna poteva avere in quel mondo fatto di gerarchi corrotti parte della casta (ricorda qualcosa…).

Mirella Serri, foto Valerio Pazzi

In queste pagine della Serri, che si leggono come un romanzo, Clarice, detta Claretta, viene dipinta non come una sciocca o una delle numerose mantenute di Stato ma anche e soprattutto come un’abile e astuta calcolatrice. Una vera arrivista alla ricerca di privilegi per sé e la propria famiglia con l’ambizione, nella fase finale del regime, di porsi come intermediaria con i vertici del Terzo Reich, fino a voler arrivare a Adolf Hitler. La protagonista non è più personaggio ma diventa persona, ritratta nella sua quotidianità fatta di arrivismo, opulenza e privilegi ma anche di violenza fisica e morale, come quella che i gerarchi, e lo stesso Duce, perpetuavano su compagne, mogli e amanti. Tradimenti e schiaffi, calci di stivali e percosse, tutto taciuto e accettato. Mirella, a fianco di ogni gerarca, apre una parentesi per ricordarne la fine (giustiziato dopo il processo di Norimberga, suicida…): le interessa mettere a confronto la loro vita “normale” fatta di pranzi, cene e passeggiate con quella sconosciuta e sotterranea in cui lavoravano a orrendi misfatti. In tale ambiente Claretta sopravvive con cinismo, spietatezza, avidità e ambizione, attratta e, in fondo, innamorata del suo potente amante, sopportandone i tradimenti continui (ho più corna di un cesto di lumache, dice) ma determinata a ricavarne ogni sorta di vantaggio. Fortemente antisemita, per sé stessa e la sua famiglia si dedica al malaffare, dal traffico d’oro e di petrolio fino ai soldi presi dagli ebrei a cui concedeva certificati di arianità, presunto passepartout per la salvezza.

Clara certamente non andava condannata a morte, con una fine indegna anche del peggior criminale (a dirlo sono in molti), ma andava sottoposta a un regolare processo per le sue responsabilità: non tanto, e solo, per gli imbrogli da lei gestiti fin dalla metà degli anni Trenta ma soprattutto perché Clara a Salò, tramite l’ambasciatore plenipotenziario Rahn, fu la “portavoce degli interessi di Hitler presso Mussolini”, come fu esplicitato dagli stessi partigiani. Al Duce stanco, qui isolato e spiato dai nazisti, lei continuava a suggerire di affidarsi all’amico Hitler per la salvezza. Quando invece sarebbe stato tradimento. Un prezioso e interessante documento storico che si legge d’un fiato.

“Tu sei odiata al pari di me e forse più di me… Fatti dimenticare” – Benito Mussolini

La scuola ci salverà, di Dacia Maraini, è, invece, un libro, per la precisione una raccolta di articoli e racconti pubblicati negli anni principalmente sul Corriere della Sera (poco o nulla è cambiato, paiono scritti oggi), che aiuta a capire la scuola italiana, ma soprattutto a spazzare via molti luoghi comuni.

Secondo questo scrittrice vero patrimonio nazionale, la scuola, soprattutto nei momenti di crisi, può fare la differenza, la scuola che è un diritto e non un dovere. La scuola che deve formare e aiutare a crescere, non un’azienda che produce tecnocrati perfetti ma un luogo che forgia i cittadini di domani. Queste pagine sono un vero messaggio d’amore nei confronti della cultura e dei giovani e invitano a riflettere, nelle storie di chi, in Africa, vuole andare a scuola ma non può e allora decide di andarsene.

La scuola in Italia è fatta di tanti insegnanti mal retribuiti (i meno pagati d’Europa) ma fortemente motivati e con una Missione, quella di educare, trasmettere valori e conoscenza. Perché solo sapendo si può capire e crescere nella tolleranza e accettazione dell’altro.

Dacia Maraini, foto Valerio Pazzi

Sono ottimista”, dice la scrittrice in un’intervista, “perché vado continuamente nelle scuole e vedo che tanti presidi e insegnanti si danno da fare con coraggio e generosità. Suppliscono all’assenza dello Stato che finora ha sempre tagliato e mai investito in questo settore strategico per la crescita di un Paese che si vuole definire civile”.

La scuola è sacra, una sacralità fatta di disciplina, di rispetto per i professori ancora prima da parte dei genitori che degli alunni, di reverenza per un percorso che non deve produrre nulla ma solo formare dei cittadini responsabili, rispettosi e consapevoli, con la mente aperta e sempre critica. Per arrivare a pensare sempre con la propria testa, “confrontandosi coi grandi pensatori del passato e con la Storia nella sua complessità”.

Sulla scuola, quindi, si deve investire, basta essere la Cenerentola di ogni piano a breve, medio o lungo termine. Con coscienza del suo ruolo, in pura meritocrazia. Perché nessuno resti indietro o sia costretto ad andarsene all’estero in cerca di meglio.

Messaggio d’amore ma anche di speranza e richiesta di aiuto. Da portare sempre con sé.

“Gli insegnanti lavorano con il futuro e il futuro è misterioso, a volte buio come le notti senza luna. Ma chi crede nel futuro è capace di attendere che dietro quelle nuvole rispunti la luce, ed è quello di cui ha bisogno la scuola in questo momento”.

Maurizio Molinari, nel suo Il campo di battaglia. Perché il Grande Gioco passa per l’Italia, ci parla della storica – e da noi italiani sottovalutata – importanza strategica del nostro paese sullo scenario geopolitico mondiale. L’Italia è oggi più che mai è un “campo di battaglia” e di sfida per tutto l’Occidente e il direttore di Repubblica, grande esperto di politica internazionale, ce ne spiega le ragioni profonde dalle radici lontane.

L’Italia, è la tesi del libro, è la cartina di tornasole della capacità delle democrazie occidentali di adattarsi alle trasformazioni del XXI secolo. Dal ruolo che ricopre nel tentativo della Russia di conquistare accesso al Mediterraneo (questo spiega il legame con i passati interventi militari russi in Georgia, Siria, Libia e Mali così come l’interesse a incalzare NATO e Unione Europea lungo il loro fianco sud. “Perché chi controlla lo Stivale”, dice Molinari, “domina gran parte dello scacchiere del “Mediterraneo allargato”, … il prepotente ritorno della Storia che riposiziona l’Italia nel bel mezzo del palcoscenico geostrategico globale”), fino a quello trainante ricoperto in momento di pandemia (primo Stato europeo a dovervi fronteggiare). Senza tralasciare l’importanza che il nostro paese può avere nel dibattito sui cambiamenti climatici e nella transizione ecologica. “L’Italia è in grado di essere protagonista dell’Agenda Verde della Commissione Europea perché il suo territorio fisico ne fa una piattaforma naturale per lo sviluppo di energie alternative – eolico, solare, idrico, sottomarino – e perché c’è un grande sostegno pubblico a premiare tali politiche. Ciò che manca è invece un piano governativo per lo sviluppo di una nuova generazione di infrastrutture capaci di proteggere la popolazione, che in gran parte si trova a vivere lungo le coste e dunque è più esposta ai rischi che ciò comporta. Serve anche un potenziamento dell’istruzione nelle scuole sui cambiamenti climatici affinché ognuno sappia che cosa implicano per noi tutti”. In tutto questo siamo terreno di scontro, il campo di battaglia su cui si giocano molte vitali partite.

“Il Grande Gioco attraversa la nostra Penisola, assegnandoci un ruolo strategico che supera spesso anche la nostra percezione”.

Infine, eccoci al vincitore, il Quirinalista Marzio Breda, autore de Capi senza Stato. I presidenti della Grande Crisi italiana. Trentadue anni passati al Corriere della Sera, seguendo le vicende e gli avvicendamenti al Quirinale. Cinque presidenti (Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella), tutti diversi, con i quali, dice l’autore, “sono riuscito a stabilire un rapporto che andava oltre a quello che c’è tra il giornalista e la sua principale fonte. Il presidente, appunto”. “Per fortuna ho ottenuto la loro fiducia (in qualche caso anche l’amicizia)”, continua, “e ho cercato di farne un uso responsabile. Vale a dire che, quando mi veniva chiesta riservatezza, la garantivo, offrendo comunque ai lettori la genesi delle loro scelte con cognizione di causa. Senza faziosità o storture”. Tanti i retroscena e gli aneddoti di questa convivenza di autentica fiducia.

Marzio Breda, foto Valerio Pazzi

Equilibristi accorti o benevoli arbitri, notai o interventisti decisi. Molti sono gli “stili di regia” che i Presidenti della Repubblica hanno adottato negli ultimi decenni, (co)stretti fra fronti esterni e interni complessi. Ciascuno a suo modo ha affrontato la grande crisi italiana, con ruoli che si sono evoluti, allargando o restringendo le maglie delle prerogative della presidenza. Sono 19 gli articoli della Costituzione dedicati al presidente della Repubblica. Secondo i costituenti i capi dello Stato devono essere rappresentanti dell’unità nazionale e garanti della Costituzione, oltre a officiare i riti repubblicani (sciogliere le Camere, nominare i presidenti del Consiglio, promulgare le leggi). Un ruolo ‘notarile’ di scelte compiute comunque dal sistema dei partiti, rimasto tale e fermo fino ai primi anni Novanta, quando Mani Pulite fece tabula rasa dei partiti, scenario anticipato da Cossiga. È con lui che comincia la metamorfosi dei presidenti: il Quirinale diventa la camera di compensazione delle crisi, un centro di neutralità e tutela. Un interventismo giustificato dal potere non scritto di mediazione sottinteso alla carica. Rievocando Carlo Esposito, padre del costituzionalismo liberale, il quale sosteneva che quando il sistema si inceppa, il capo dello Stato diventa legittimamente ‘il motore di riserva’ della Repubblica. Questo spiega tutto, inclusa la spinta a trasformarsi in ‘presidenti governanti’. Il recente Mattarella docet.

Marzio Breda, vincitore, foto cortesia Premio Estense

“Siamo allo svuotamento della politica, alla rottura di un equilibrio storico”.

Eccoci al passaggio finale della cerimonia, non per questo meno empatico ed emozionante, fra gli applausi: il 38° “Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione” assegnato a Giovanna Botteri. Notissima al grande pubblico (e da esso molto amata), di lei diremo solo che ha una laurea in Filosofia, un dottorato in Storia del cinema alla Sorbona, una grande passione per il giornalismo con gli inizi sulla carta stampata e l’approdo in Rai, che è stata per 13 anni corrispondente di guerra, da Sarajevo all’Iraq, prima di andare negli Stati Uniti, in Cina e oggi in Francia. Con un empatico discorso sulla sua esperienza di vita da giornalista (la Cina che estrania e la guerra che puzza), conclude: “umiliato da decenni di servilismo, nei confronti del potere politico e delle lobby, il giornalismo ha in questo preciso momento storico un’opportunità unica: tornare a essere credibile agli occhi delle persone. In gioco c’è la democrazia”. Un esempio per tutti.

Mirella Serri, Marzio Breda e Dacia Maraini, foto Valerio Pazzi

La scelta del vincitore del premio Granzotto è stata fatta dalla giuria presieduta da Gian Luigi Zaina, presidente della Fondazione Premio Estense e composta da sette industriali (Marco Arletti, Gianna Bigliardi, Nicola Lamacchia, Gianluca Loffredo, Andrea Panizza, Rudi Ricci Mingani, Paolo Saini), sentito il parere della Giuria Tecnica. Istituito nel 1985 in memoria di Gianni Granzotto, presidente per venti anni delle giurie dell’Estense, il riconoscimento viene conferito a chi, operando nel campo dell’informazione, si sia particolarmente distinto per correttezza, impegno e professionalità.

Foto in evidenza, Giovanna Botteri e Marzio Breda, cortesia Premio Estense

Per rivedere i momenti salienti del Premio Estense 2022 

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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