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Poesia: l’umano della fede

Il bagliore di un atto eroico
Che strana illuminazione
La lenta miccia del Possibile è accesa
Dall’Immaginazione

(Emily Dickinson, F1686)  [Qui]

Atto eroico è quello del poeta. Fulmineo bagliore è il coraggio di osare la parola, far uscire dall’oscurità dell’umano tra le tante spente parole del “Possibile” e accenderne una, per l’illuminarsi dell’immaginazione.

La fede è pure un atto eroico: osare la fiducia, l’atto di una libertà che esce da sé stessa, si affida e si mette nelle mani di qualcun altro. E in questo gesto si accende un bagliore che illumina il possibile irreale: l’immagine di un volto, tra volti velati e muti, che va rivelandosi nella parola, rendendolo un fondamento su cui immaginare la speranza, una via aperta verso un’ulteriorità di futuro.

Si legge nella lettera agli Ebrei «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede… Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava».

Dove si incontrano la fede e la poesia? Nell’immaginazione.

Ha scritto il gesuita irlandese Michael Paul Gallagher: «L’immaginazione è la zona in cui la fede religiosa e la creatività artistica si incontrano. Gli artisti sono sempre stati titubanti nei confronti dell’astrazione. Essi sono attratti dal dramma concreto della vita e si specializzano nel parlare al nostro livello di coscienza intuitiva: così essi infliggono un colpo basso alla nostra ragione.

Risvegliano lo stupore e lo trasformano in saggezza. Affrontano il dolore andando oltre, nel profondo. L’intera area che l’arte risveglia è quella di cui la religione ha più bisogno e che spesso non riesce a raggiungere» (La poesia umana della fede, Paoline, Milano 2004, 14).

Come la poesia è mediatrice tra la natura e l’uomo, e l’umanizza, e l’uomo a sua volta non resta chiuso su sé stesso ma continua a restare aperto agli universi di senso possibili, così la fede è luogo di incontro tra la parola di Dio e la parola umana generative ed accrescitive del loro dialogo e della loro alleanza.

Nello spazio della fede avviene uno scambio, una comunicazione di ciò che è proprio a ciascuno, scambio di linguaggi, di immagini esistenziali che vanno formandosi; una sequenza di parole e silenzi, immagini ed eventi che, richiamandosi e illuminandosi a vicenda, aprono a nuove storie.

Così l’invisibile Dio si umanizza nella storia e nel volto del Cristo e diventa Figlio dell’uomo, e l’uomo viene innalzato dal Cristo per avere parte alla sua storia, alla sua stessa eredità, quella ritrovata della sua immagine e somiglianza. Egli diventa figlio di Dio.

L’immaginazione apre alla fede l’orizzonte del dialogo

Per Gallagher l’immaginazione è dialogica, apre ai rapporti interpersonali, dischiude nuove prospettive di senso, porta le relazioni tra le persone e i gruppi umani più in profondità, nel reale, manifestando un’ulteriorità, un di più possibile al già dato:

«Le vere battaglie della vita avvengono all’interno dell’immaginazione umana. Come ci vediamo? Che cosa speriamo? Qual è il senso delle cose? Le risposte più profonde, sia positive che negative, stanno nel come immaginiamo le nostre vite. E non solamente nel come le pensiamo.

È su questo livello che troviamo le àncore della saggezza, oppure che soffriamo per la dispersione e la vacuità. La fede è una forma di immaginazione (il che non vuol dire che sia immaginaria). La fede assume molte forme, non solo quelle della religione ufficiale.

È un linguaggio che esprime fiducia e senso. Essa cerca di esprimere sé stessa in una qualche forma di appartenenza e impegno. Ma più di tutto, essa forma ed è formata dalla nostra immaginazione» (ivi, 17).

Scrive ancora Gallagher: «L’immaginazione è la chiave della speranza. La poesia di Dio è una chiamata per nuove espressioni. Perché Dio non parla con una prosa noiosa, con messaggi moralistici, rituali che si ripetono meccanicamente, ma con un amore immaginativo che spicca il volo, mediante eventi che, sorprendendoti, ti liberano e che spaziano dall’esodo alla risurrezione. Per rinnovare la freschezza abbiamo bisogno di immergerci più a fondo» (ivi, 19).

Mi sovviene una melodia, le cui note sfavillano immagini, quelle di un canto liturgico domenicale: «Ti rialzerò, ti solleverò/ Su ali d’aquila ti reggerò/ Sulla brezza dell’alba ti farò brillare/ Come il sole, così nelle mie mani vivrai».

Anche Dio allora come un poeta inventa il suo linguaggio, fa risplendere come un bagliore dalle parole le sue immagini, fino a diventare le sue stesse opere; egli dispiega le sue immagini con le nostre per immaginare e vivere la sua storia intrecciata alle nostre storie.

Così ogni credente “inventa” la sua fede, l’immagina e poi la vive e così egli diventa la sua stessa fede intrecciata ad altre fedi al modo di un puzzle.

È questa la fede con cui ciascuno crede. Fides qua, la chiamano i teologi, quella che dà forma singolare e immaginazione creativa ai contenuti stessi posti all’origine e a fondamento della fede creduta, “fides quae”.

Senza immaginazione nel linguaggio religioso, come nella prassi del credere, gli stessi contenuti e verità della fede rimarrebbero inesorabilmente muti, mortificati e mortificanti, senza vita, incapaci di far vivere e rigenerare la fede: verità come sementi non seminate.

Per Gaston Bachelard [Qui] vi è una tessitura fitta tra la parola e l’immaginazione; in essa si esprime tutta la forza della parola, che a sua volta genera nuova immaginazione. Parole e immagini sono intimamente connesse tra loro.

La parola sta al seme come l’albero sta all’immaginazione: «L’immaginazione è un albero. Possiede le virtù integranti dell’albero, è radice e ramo, vive tra terra e cielo, vive nella terra e nel vento. L’albero immaginato appare gradualmente come l’albero cosmologico, l’albero che riassume un universo, che fa un universo» (G. Bachelard, La terra e il riposo. Le immagini dell’intimità, Red, Como 1994, 257).

La stessa metafora del frassino, albero cosmico, ritorna in una poesia di Gerard Manley Hopkins [Qui]che riconosceva risplendere la gloria di Dio, la sua abissale capacità inventiva e immaginativa, dalla inesauribilità delle immagini del mondo:

Nessuna cosa di quante vedono i miei occhi, vagando
per il mondo,
è un tale latte alla mente, né le sospira tanta profonda
poesia,
come un albero i cui rami erompono nel cielo.
Fa che siano frassini: o in giorno di dicembre raccolti
come vele, si aprano
pigri, e rinnovino i nidi al sommo del cielo.
(Poesie di Gerard Manley Hopkins, Guanda Parma 1952, 137)

Pensiamo allora alla predicazione. Molte delle nostre omelie sono espresse con parole scontate, routinieres, mancanti di quell’immaginazione che entra dentro alla vita e la tira fuori, illuminata e illuminante come accade ad ogni parola dei profeti ed in ogni parabola del vangelo.

Pensiamo anche a quella predicazione silenziosa fatta solo dalle immagini affrescate nella abbazia di Pomposa, che hanno nutrito la fede di tanti. Senza immaginazione le radici spirituali del nostro credere restano aride, distanti dal vangelo; le sue parole non devono tanto trovarsi nell’omelia quanto piuttosto uscir fuori dalla vita di chi lo annuncia.

Il grande catechista e vescovo Cirillo di Gerusalemme diceva: “L’uomo è un essere capace di immaginare e che va immaginato”. Per questo, quando la nostra immagine resta povera, non riusciamo ad immaginare noi e neppure gli altri e diventiamo incapaci di immaginare Dio manifestato nel Figlio.

S’accende l’immaginazione

E se si accende l’immaginazione è possibile che ci accada di vedere con gli occhi del poeta, riflessa nei “diecimila luoghi e nei tratti dei volti umani”, l’immagine di Colui che «ogni cosa mortale fa una e una medesima cosa: conclama quell’essere interiore che in ognuno alberga; si attua, corre le sue vie, parla, scandisce, grida».

È l’immagine dell’invisibile Dio, in quella del Figlio amato. «Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,8).

Dico di più: il giusto fa giustizia; a cuore ha la grazia:
questo ‘ingrazia’ ogni sua via; attua allo sguardo di Dio
ciò che nello sguardo di Dio egli è: Cristo,
Cristo agisce in diecimila luoghi,
diletto in membra, amabile in occhi non suoi,
diletto al Padre sui tratti dei volti umani.
(Poesie di Gerard Manley Hopkins, Guanda, Parma 1952, 99).

Lo specchio e la lampada

Lo specchio e la lampada è il titolo di un libro di Meyer H. Abrams [Qui] (il Mulino, Bologna 1976) sulla teoria romantica e le sue correnti letterarie. Nel romanticismo egli vede una svolta dello spirito poetico nell’occidente.

Egli infatti afferma che prima dei poeti romantici la poesia era vista platonicamente come uno specchio che rifletteva il mondo, qualcosa proveniente dall’esterno: una mimesis, una rappresentazione, specchio riflettente la realtà, imitazione della natura come sorgente di ispirazione dello spirito poetico.

A determinare una svolta fu il movimento romantico che principiò a considerare la poesia come una lampada che dall’interno del poeta rischiara l’oscurità esterna: una rappresentazione dello spirito poetico diretta e incarnata in lui. Nel poeta c’è come una luce, una capacità propria di vedere oltre, perché la dimora della poesia è celata nel mondo infinito e interiore della sua immaginazione.

Scrive nelle sue lettere John Keats [Qui]: «La mia immaginazione è un monastero, e io ne sono il monaco… Io non sono sicuro di niente, se non della Santità degli affetti del Cuore, e della verità dell’Immaginazione – quel che l’Immaginazione coglie come Bellezza deve essere verità – che esistesse prima o no – perché ho delle Passioni la stessa idea che ho dell’Amore: che sono tutte, al massimo della loro intensità, creatrici di Bellezza pura…

L’Immaginazione potrebbe essere paragonata al sogno di Adamo – si svegliò e trovò che era vero. Per Keats l’immaginazione è una facoltà noetica conosce e opera in virtù di un “affetto del cuore” – è “una passione”. (Lettere sulla poesia, Ebook, Mondadori, Milano 2005, 270; 86).

La metafora dello specchio e della lampada come passaggio dall’imitazione all’espressione creativa in poesia si può riferire anche alla comprensione della fede.

Essa si presta a indicare non solo la sua forma recettiva, riflessiva, illuminata dalla parola dell’altro, ma pure testimoniale, sorgiva, luogo non solo della recezione di una rivelazione, ma pure espressione illuminante, creativa, corrispondente e testimoniale che si origina dall’affetto e passione del cuore per quella Parola ricevuta.

Per attestare la ragionevolezza della fede di fronte all’illuminismo – come del resto fu la reazione romantica – la riflessione teologica sulla fede si era sbilanciata sulla ragione, trascurando il fatto che la fede nella sua forma esistenziale è affezione. Si compie nel vissuto del credente non già dunque l’intellectus fidei, ma l’affectus fidei, che dischiude alla pratica di un’intelligenza costruttrice di relazioni mosse dall’amore: l’intellectus amoris.

Anche se non priva di problematicità, l’intuizione del romanticismo circa l’immaginazione, quando non costituisce una riduzione dell’affettività all’attimo, alla pura sensazione, a un’emotività irrazionale, a un godimento estetizzante al limite del narcisismo, diventa fondamentale anche per lo sviluppo e la maturazione di una mentalità e prassi di fede.

Poesia, cercata con occhi di pianto

Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.
Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinata la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il più dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.
(Antonia Pozzi [Qui], Preghiera alla poesia, in Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 163).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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