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4 luglio 1917
Le donne della Val Bisenzio marciano contro la guerra e per il pane

Nel 1917 l’Italia era già in guerra da due anni. L’economia del paese risente del massiccio invio di uomini al fronte, così nelle fabbriche vanno le donne rimaste in patria. Intanto il paese è soffocato da una feroce carestia, i viveri vengono razionati, il grano e il pane scarseggiano, tanto che il governo è costretto ad alzare i prezzi del pane giorno dopo giorno. Se nel 1914 una famiglia di cinque persone spende per nutrirsi 20 lire e 84 centesimi, tre anni più tardi, per le stesse necessità, servono 39 lire e 50 centesimi. La crescente inflazione erode i salari, specialmente quelli dei nuclei familiari a reddito fisso, e il razionamento del pane porta i cittadini rimasti in patria a insorgere.

Nel luglio del ’17 la società civile, i giovanissimi e le donne scendono in strada organizzando oltre 500 manifestazioni contro la guerra e per il pane.
A queste rivendicazioni si legano anche la lotta contro l’inasprimento di una legislazione liberticida e per il miglioramento delle condizioni di lavoro, ovviamente peggiorate ulteriormente in periodo di guerra.

In un paese già allo stremo, la goccia che fa traboccare il vaso arriva a fine giugno, quando vengono chiamati al fronte i ragazzi del 1899, ragazzi che all’epoca avevano solo diciotto anni. Le prime a muoversi sono le operaie delle fabbriche. Avevano visto morire i propri padri e fratelli ed ora non hanno intenzione di veder morire anche i propri figli.

Le donne dei piccoli comuni della Val Bisenzio, un’area a nord di Prato, sono tra le più coinvolte. Questa Valle, caratterizzata dalla presenza di numerose fabbriche legate alla produzione tessile, è tra le zone più colpite dalla carestia, dalla mancanza di pane. Molte delle aziende presenti sul territorio nel corso del conflitto lavorano esclusivamente per l’esercito, arrivando a produrre milioni di metri di panno grigio-verde.

I movimenti di protesta in realtà erano già cominciati anni addietro. Già nel 1915 numerosi scioperi e manifestazioni bloccano le produzioni tessili della Val Bisenzio. A capo di questo movimento c’era la socialista e capo della lega sindacale laniera di Vaiano Teresa Meroni.  A seguito delle proteste, il governo decide di trasformare le quattro maggiori fabbriche dell’area in ‘ausiliarie’, ossia indispensabili ai fini bellici.
Questo significava la ‘militarizzazione’ delle maestranze e ritmi produttivi insostenibili. Si arrivava a lavorare fino a tredici, quattordici ore al giorno.

A metà del 1917 però la protesta riesplode, e questa volta lo fa con tutta la sua forza. Preoccupate ed arrabbiate per l’arruolamento dei giovanissimi e per le requisizioni forzate del grano, stremate da lavoro ed inflazione, le donne della valle si mobilitano in massa.
Le proteste cominciano nel borgo montano di Lucciana, mosse da contadine e mezzadre, seguono quelle di Vernio che chiedono una divisione più equa del grano, non in base al reddito. Solo successivamente è la volta delle operaie di Vaiano e di tutti gli altri comuni della bassa valle, che a partire da questo stesso giorno, il 4 luglio 1917, entrano tutti insieme in sciopero.

I carabinieri non riescono ad arginare la folla di migliaia di donne inferocite; persino l’arrivo dei cavalleggeri da Prato non è sufficiente a fermare la rivolta.
Dopo giorni di lotta, il 6 luglio le donne aggirano il blocco dei militari e si mettono in marcia attraverso i campi lungo il fiume Bisenzio, in direzione di Prato. Il corteo delle operaie in sciopero si ingrossa chilometro dopo chilometro, paese dopo paese, ed entra nella città di Prato. Le donne invitano tutti a partecipare, chiedendo agli esercenti di chiudere le botteghe e abbassare le serrande.
La marcia delle donne della Val Bisenzio giunge finalmente sotto il municipio di Prato, dove avvengono numerosi scontri con la polizia, e tante scioperanti vengono arrestate.
Lo sciopero termina pochi giorni dopo, il 9 luglio 1917, e viene seguito da una dura repressione. Ciò nonostante alcune delle rivendicazioni di quei giorni verranno accolte dalle autorità.

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Filippo Mellara

Abito a San Lazzaro (BO) e sono uno studente universitario di scienze della comunicazione. Impegnato socialmente nel cercare di creare un futuro migliore, più equo e giusto per tutti. Viaggiatore nel mondo fisico e spirituale, ritengo che la ricerca del sé sia anche la ricerca del NOI. Cresciuto tra Stato e Rivoluzione e Bertolt Brecht.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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