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Andrea De Rossi, terza linea della squadra italiana di rugby che partecipò da capitano alla Coppa del Mondo del 2003, una volta disse: “Nel rugby la fortuna non conta. Contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di lottare.”
Forse i dittatori militari, in Argentina a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, hanno deciso di ammazzare diciassette giocatori della squadra di rugby de La Plata proprio perché quei ragazzi sapevano resistere lottando con il fisico, il cuore e l’intelligenza.
L’unico sopravvissuto, Raul Barandiaran Tombolini, capitano di quella squadra, racconta: “Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’Università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi e fare politica fu una scelta naturale.»
O forse li hanno assassinati perché quei ragazzi sapevano osservare la realtà, dentro e fuori dal campo di rugby e, avendo frequentato la scuola e l’Università pubblica, non avevano imparato le lezioni di remissività incluse nel pacchetto degli istituti privati religiosi.
Oppure li hanno eliminati perché il regime pensava che, essendo Ernesto Che Guevara il rugbista argentino più famoso, quella squadra non potesse essere altro che un covo di rivoluzionari che si ispirava a lui.

Era il 24 marzo 1976 quando il controllo dell’Argentina fu assunto da una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti.
Controllo significò, tra le altre cose, lo scioglimento dei partiti politici e del Parlamento, l’annullamento di tutte le attività politiche e sindacali, il controllo della Corte di Giustizia, la censura, l’abolizione della libertà di stampa e di espressione.
La dittatura militare avviò il cosiddetto “Proceso de reorganización nacional” che prevedeva l’instaurazione di un sistema economico neoliberista e l’allontanamento della “minaccia comunista” anche attraverso il rapimento e l’uccisione di tutti gli oppositori politici.
Fu il maggior genocidio nella storia del Paese: 30 mila desaparecidos e 500 bambini rubati, secondo le madri di Plaza de Mayo, circa 8 mila morti ammazzati secondo lo stesso Videla.
Dopo il fallimento della dittatura e la rovinosa guerra delle Falkland, il 15 dicembre 1983 il nuovo presidente Raul Alfonsin istituì la Comisiòn Nacional sobre la Desapariciòn de Personas che aveva come obiettivo quello di chiarire i fatti successi durante il regime militare.

Le conclusioni a cui giunse la Commissione, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, possono essere riassunte con queste parole riportate nel capitolo conclusioni del Nunca Mas: “È possibile affermare che – contrariamente a quanto sostenuto dagli esecutori di questo piano sinistro – non si perseguì solamente i membri di organizzazioni terroriste, ma si contano a migliaia le vittime che non ebbero mai alcun rapporto con tale attività e che tuttavia furono oggetto di orrendi supplizi per la loro ferma opposizione alla dittatura, per le loro lotte sindacali o studentesche, per essere intellettuali che criticavano il terrorismo di stato, o, semplicemente, per essere familiari o amici di qualcuno considerato sovversivo.“

Era un venerdì santo quando il gruppo paramilitare della Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina) rapì Hernan Francisco Roca detto “Mono“, il mediano di mischia, mentre era a casa del padre.
Lo avevano confuso con Marcelo, suo fratello che era militante tra i Montoneros.
Dopo qualche giorno il corpo di Hernan fu trovato con le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati e ventuno colpi di arma da fuoco nel corpo che gli avevano sbriciolato le ossa.
La domenica successiva al ritrovamento del cadavere di “Mono” era prevista una partita; i giocatori dello Champagnat, per solidarietà, proposero un rinvio ma i compagni del “Mono” vollero giocare ugualmente.
Il capitano del La Plata Rugby Club chiese ed ottenne un minuto di silenzio in memoria del mediano ucciso.
Scrive Claudio Fava nel suo libro “Mar del Plata“, in cui narra la storia della squadra “desaparecida“:
“… perché un minuto passa lento come la vita, come la morte è lento, avanza piano, segna il passo, canta strofe tutte uguali, un minuto è un rumore di secondi che non s’incontrano mai. Invece finiscono, l’arbitro fischia e allora succede quello che nessuno immagina, però succede che in campo nessuno si muove, in tribuna nessuno si siede, restano tutti immobili, rigidi, le braccia lungo i fianchi, la palla dimenticata a terra, tutti ad aspettare che il tempo cammini ancora un po’ perché un minuto è poco, poco per il Mono, poco per quella morte di merda, filo di ferro attorno ai polsi, la canna di una pistola che spinge sulla nuca […]
No, un minuto non basta, ne serve un altro, e un altro ancora, e intanto tutti fermi, incatenati, impegnati a dilatare quel tempo, a renderlo lungo come la vita che toccava al Mono e che invece gli hanno strappato, aveva 17 anni, figli di puttana, 17 anni, pensate che ci basti un minuto?
Ne passano cinque. Poi sei.
Tanto nessuno ha fretta di fare, nessuno ha fretta di dimenticare.
Otto minuti. Nove. Dieci. Dieci minuti durò quel silenzio”.
Ma dieci minuti di silenzio furono un affronto troppo grande per la dittatura e i militari non perdonarono quel gesto di sfida.
Lo cita alla lettera Ernesto Sabato, scrivendo che il fatto era stato definito dal regime: “di grave provocazione da tenere nella considerazione dovuta“.

Da quel momento l’accanimento sui “canarios” (i ragazzi di La Plata avevano la maglia gialla) fu minuzioso, anche per la fama con cui la squadra veniva chiamata: “Escuela de guerrilleros”.
Gli stessi giocatori di La Plata si presero beffa anche di quella definizione e la trasformarono in “Eserjito revolucionario del cisne”, cioè “Esercito rivoluzionario della burla”.
Dopo Hernan Roca detto “Mono” toccò al mediano d’apertura Otilio Pascua che venne trovato mesi dopo in un fiume, con i segni delle torture e mani e piedi legati.
La lista dei giocatori del La Plata Rugby Club ammazzati o scomparsi diventò via via tragicamente lunga: Santiago Sánchez Viamonte, Mariano Montequín, Pablo Balut, Jorge Moura, Rodolfo Axat,Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Marcelo Bettini, Abel Vigo Comas, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo del Rivero, Enrique Sierra, Julio Álvarez, Hugo Lavalle.
A dispetto di tutto ciò, la squadra guidata dal burbero allenatore Hugo Passarella, continuava a vincere nonostante mettesse in campo i giocatori provenienti dalle squadre giovanili.
Continuava a vincere di fronte allo sguardo nero dei generali schierati in tribuna perché nel rugby, come nella vita, contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di resistere lottando.

Claudio Fava, in uno dei suoi viaggi in Argentina, ha letto gli articoli di Gustavo Veiga, giornalista del periodico Pagina 12, ed il capitolo del libro “Deporte, desaparecidos e dictatura” dedicato a quei giocatori di rugby che hanno pagato un prezzo altissimo,  rispetto a sportivi di altre discipline.
Così ha scelto di dare un’anima a quegli articoli e di scrivere “Mar Del Plata” in cui racconta, in maniera semplice ma appassionante, la storia di quella squadra di rugby “desaparecida”, riuscendo inoltre, anche attraverso scene epiche, a renderla poeticamente potente. Ne ha tratto un libro di cui consiglio calorosamente la lettura.

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Mauro Presini

È maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero“. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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