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La storia con la ‘S’ maiuscola è quella scritta nei libri di scuola, nei saggi e nelle interpretazioni dei grandi storici, quella dei cosiddetti ‘fatti oggettivi’ e delle cosiddette ‘cesure storiche’: 476, caduta dell’Impero Romano e fine della storia antica; 1492, scoperta dell’America, fine del Medioevo e inizio dell’epoca moderna. Ma un impero può cadere in un anno? Può da un anno all’altro cambiare il modo di pensare se stessi e il mondo? Chi quegli anni li ha vissuti si è reso conto di vivere la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra? È qui che entra in gioco la storia con la ‘s’ minuscola, cioè le esperienze e i pensieri dei singoli che hanno vissuto in quei concitati e confusi periodi storici. Spesso queste tante ‘s’torie si ritrovano nei diari che per un motivo o per un altro sopravvivono ai loro autori e vengono conservati in archivi e musei, oppure vengono pubblicati.

Nei giorni scorsi al Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara è stata presentata proprio una di queste testimonianze, il libro dal titolo “Giulio Supino. Diario di una guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzioni e Resistenza”, curato da Michele Sarfatti (Firenze, Aska, 2014).
Figlio di Igino Benvenuto Supino, famoso pittore e studioso fiorentino di Storia dell’arte, Giulio sceglie le materie scientifiche e si laurea a Bologna prima in Ingegneria civile (1921) e poi in Matematica (1923). Sempre a Bologna, dopo aver servito come ufficiale di artiglieria nella I Guerra mondiale, inizia la sua carriera universitaria che deve però lasciare a causa delle sue origini ebraiche. Proprio dal 1938, anno delle leggi razziali, inizia a tenere questo diario che, in origine, non è destinato alla pubblicazione, ma “non è nemmeno un diario intimo”, dice Sarfatti: “è il diario della vita che accade, mentre lui stesso la vive”. Per questo nel diario leggiamo la storia nel suo farsi, prima dell’interpretazione storica, gli eventi e gli effetti sul vivere quotidiano, l’incertezza e le ipotesi per quello che potrà succedere. Ma a colpire è soprattutto il modo in cui tutto ciò viene narrato. Ad esempio, riportando ciò che viene a sapere degli arresti di ottobre a Ferrara e dell’eccidio del Castello di novembre 1943, scrive: “fucilati per modo di dire, perché sono stati assassinati per la strada”. Un altro passo sorprendente è quello riguardante il periodo successivo il 25 luglio quando, sottolinea Sarfatti, “si tenta di capire la natura del nuovo governo, che non è più fascista, ma non per questo si può dire che si antifascista”. Nel diario sono contenute alcune riflessioni sull’abolizione delle leggi razziali: per Supino è necessario che il governo italiano le abroghi autonomamente e non come condizione dell’armistizio perché “gli ebrei italiani non devono apparire protetti inglesi o americani, ma liberi italiani”, in altre parole è la comunità di appartenenza che deve garantire i diritti, se questi diventano una concessione fatta per intercessione di altri, in futuro sarà facile revocare di nuovo tale concessione. L’unico accenno alle difficili condizioni e ai pericoli costanti di una “clandestinità doppia”, come antifascista e come ebreo, è quello dell’11 agosto 1944: “Manuela (così chiamavano in famiglia la figlia Valentina, ndr) è salva!”.
Ascoltando la presentazione di Michele Sarfatti, mi sono tornate le parole di James Edward Young in “Writing and rewriting the Holocaust. Narrative and the consequences of interpretation”: analizzando i diari e delle memorie della Shoah l’autore sottolinea che chi scrive queste testimonianze, nella maggior parte dei casi, desidera preservare nella narrazione quella discontinuità che conferisce agli eventi narrati il loro carattere violento, quel senso di disorientamento che sta provando o ha provato ed il suo legame personale con gli eventi. Questa discontinuità è la stessa che esiste fra il titolo di questo scritto, “Diario di una guerra che non ho combattuto”, pensato da lui stesso in un momento successivo alla redazione, e le parole di introduzione: “voglio raccontare come ho visto una guerra che non si doveva fare”.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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