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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Da wikipedia: Il bikini moderno è stato inventato dal sarto francese Louis Réard a Parigi nel 1946 (introdotto ufficialmente il 5 luglio). Il nome richiama l’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, nel quale negli stessi anni gli Stati Uniti conducevano test nucleari: Reard riteneva che l’introduzione del nuovo tipo di costume avrebbe avuto effetti esplosivi e dirompenti.

In fondo un po’ di cattivo gusto o quanto meno superficialità da parte dell’inventore del bikini a mio parere ci fu tutto. Certo, business is business in ogni cosa, ma ripensando all’attenzione di Trump verso i bambini siriani mi viene da pensare alla mancata attenzione ai bambini dei nativi americani, oppure ai bambini iracheni che hanno sofferto le conseguenze degli embargo durante il periodo di Saddam e, dopo, di quelli libici e passando per tanti altri fino ai bambini delle isole Marshall, Bikini in particolare. Alla fine della riflessione concludo che i bambini non si aiutano con le bombe.
Qualche tempo fa ho intervistato il professor Cesaratto e ricordo il suo commento rispetto all’imperialismo Usa. Il contesto era economico e lui ne vedeva l’aspetto superiore rispetto a quello tedesco. Perché gli Usa importano e quindi migliorano le condizioni commerciali di chi produce e senza di loro non avrebbero dove vendere. Rispetto alla Germania, che usa la sua superiorità tecnologica e manifatturiera solo per esportare, la bilancia della giustizia commerciale pende a favore degli americani. È un ragionamento che non mi convince, forse perché non riesco proprio a concepire la supremazia del business sulla vita delle persone.
Ma business is business ci hanno insegnato gli anglosassoni, quelli che quando risplende la cultura ritornano barbari, e i magazzini devono essere vuotati per essere rinnovati. In modo da far lavorare le industrie che a loro volta assumono e fanno girare l’economia.
Certo il settore della guerra favorisce in maniera esponenziale i vertici piuttosto che le masse, ma questo è un dettaglio e comunque le bombe vanno rinnovate perché in ogni caso sono a scadenza, esattamente come la farina e lo yougurt in frigo, quindi piuttosto che distruggerle in laboratorio almeno se ne testa l’efficacia e ben vengano un po’ di bambini a cui addebitare il merito dei lanci.
Fu business anche per Bikini e molto in grande. I bambini di quel paradiso si trovarono parte di un gioco e di affari più grandi di loro, un affare da bombe atomiche e all’idrogeno. Bikini diventò un poligono militare in barba a quel paradiso terrestre che era.
Il tutto inizia il 10 febbraio 1946, quando il commodoro Ben H. Wyatt, inviato dalla Marina Usa alle isole Marshall, sbarca nell’atollo, e alla fine della funzione religiosa del pomeriggio comunica lo svolgimento dei test nucleari Able e Baker nella laguna. Wyatt si appella al loro senso di responsabilità per mettere fine alle guerre nel mondo e i 167 bikiniani, vissuti sempre al di fuori delle vicende del mondo, improvvisamente venivano a conoscenza che avrebbero dovuto assumersi i mali di tutti sulle loro piccole spalle, con la promessa che avrebbero fatto ritorno non appena terminati i test. Palese bugia, ovviamente!
Furono dunque trasferiti sull’ atollo di Rongerik a 200 km di distanza, isole aride e piccole e senza possibilità di dar loro sostentamento e data l’impossibilità di riportarli a Bikini a causa della radioattività furono dopo un po’ trasportati nell’isola di Kili. La situazione non fu molto diversa anche perché da pescatori dovettero inventarsi agricoltori.
La caparbietà dei bikiniani rimasti a Kili fu premiata un paio di decenni più tardi. In seguito alla chiusura del poligono militare, nel 1968 il presidente Lyndon B. Johnson annunciò che gli Stati Uniti erano impegnati in un piano di bonifica dell’atollo, per permettere agli abitanti di farvi finalmente ritorno. Nel 1974 un centinaio di persone tornò a popolare Bikini, la cui laguna nel frattempo si era arricchita di decine di navi affondate e di un gigantesco cratere. Di diametro superiore ai 2 chilometri e profondità pari a 76 metri, questa cicatrice risaliva al programma “Castle Bravo” del 1954, quando era stata fatta esplodere la prima bomba all’idrogeno della storia. L’isola fu poi di nuovo abbandonata.
La zona era ancora radioattiva e i morti o ammalati per tumore alla tiroide si susseguivano. I bikiniani, quelli che vi avevano fatto ritorno e non erano emigrati altrove ben presto si accorsero che rimanere su quell’isola sarebbe stata la loro fine e dei loro bambini, che erano esattamente piccoli e fragili come i bambini siriani, iracheni, libici e americani.
E li vicino c’era anche un’altra isola, quella di Rongelap che non fu evacuata prima dei test, esposta al fall-out e quindi anch’essi pagarono un grave tributo in termini di cancro alla tiroide. Provarono a ritornarvi nel 1957 e fecero anch’essi da cavie agli scienziati che studiavano gli effetti dell’esposizione alle radiazioni.
Chiesero poi di essere trasferiti, ma la loro richiesta di aiuto fu captata solo da Greenpeace che arrivò con la nave “Rainbow Warrior” nel 1985 e con l’operazione “Exodus” trasportò la popolazione locale colpita dalle radiazioni di quei test nucleari, condotti dagli Stati Uniti tra il 1948 e il 1956 per salvare il mondo, nell’isola di Mejato a 180 Km di distanza.
Questa è solo un po’ di storia, nient’altro. Una cura per la malattia della memoria breve di cui siamo affetti e che dovrebbe portare al rifiuto sistematico delle bombe giustificate in nome dei bambini. Provengano esse da Trump, Obama o Clinton o Putin o Erdogan assomigliano sempre stranamente a quelle di Hitler e hanno gli stessi effetti sui bambini siriani, iracheni, bikiniani e persino sui bambini del Mali bombardato dai francesi nel 2013.

Fonti: wikipedia, greenpeace, national geographic

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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