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Chiedo scusa se torno ad occuparmi di autobus. Ma è un puro caso che proprio in questi giorni un’amica m’abbia raccontato d’averne preso uno, convinta di avere ancora una corsa sul suo abbonamento. Si sbagliava la poverina. Perché il controllore all’esibizione del “titolo di viaggio” le ha inflitto una multa di 88 euro. Sì, ottantotto euro. Cinquantotto volte il costo del biglietto!
Ho scoperto che le sanzioni sono regolamentate dall’art. 40 della legge regionale n. 30 del 1998, che prevede, oltre al pagamento del biglietto, una penale che va da 40 a 150 volte il costo della corsa. Non è però dato sapere con quali criteri, se non quelli personali del controllore, si decida se quaranta o centocinquanta. Per cui le ragioni della multa pagata, corrispondente a cinquantotto volte il costo del biglietto, anziché un’altra cifra compresa tra 40 e 150, sono nella mente di chi l’ha inflitta o forse riportate a verbale.
Ma la questione non è questa. Mi viene invece da pensare che il nostro Paese è da diverso tempo malato di “accanimento terapeutico”. Un accanimento spersonalizzato che non guarda in faccia a nessuno e che non sente ragioni, che ha finito per produrre, oltre al rigetto, effetti tragici, se pensiamo a quei piccoli imprenditori che si sono tolti la vita perché non in grado di saldare i propri conti con Equitalia.
Un Paese esasperato dal baratro della spesa pubblica e del suo debito e, che per questo, si è incattivito contro i suoi cittadini, si è fatto sempre più sospettoso e malfidente, con tasse che crescono, con sanzioni che anziché sancire puntano a rimpinguare le varie casse pubbliche in rosso, che fa pagare gli oneri di un mal digerito stato sociale a chiunque contravvenga, a prescindere dalle ragioni o dalle abitudini.
Un Paese dove le amministrazioni pubbliche possono rinviare ‘sine die’ il pagamento dei loro creditori. Ma se è il cittadino a sgarrare, non dico non c’è perdono, che sarebbe davvero troppo, non c’è proprio tolleranza, la normale, civile, umana tolleranza.
Quando il sistema di controllo assume i connotati di un sistema offensivo della persona e del cittadino non siamo più di fronte alla volontà di garantire il rispetto della legge, la convivenza civile, la giustizia sociale, ma di fronte al sopruso sociale. Lo Stato e la sua burocrazia divengono il Leviatano di Hobbes che divora i suoi cittadini, lo Stato assoluto che tutto sottomette a sé.
Insomma si ha l’impressione ormai di vivere in un Paese dove “lo Stato è stato” nel senso del participio passato del verbo essere.
Forse gli ottantotto euro che la mia amica dovrà pagare serviranno ai bilanci dell’Acft, a migliorare il servizio, certo hanno peggiorato però il suo rapporto con il pubblico, come l’eccesso nelle sanzioni e nelle imposte peggiora il nostro rapporto con lo Stato e le amministrazioni locali, perché anziché sentirsi cittadini ci si sente sudditi, non ci si sente più parte di una comunità condivisa, ci si rinchiude nel proprio particolare, ci si rifugia, per difendersi, nel proprio individualismo. Come negare che tutto ciò ha fornito e fornisce ossigeno alla demagogia populista e ha alimentato l’affermarsi delle ricette neoliberiste in tutti questi anni.
Il rapporto tra Stato e cittadino è ancora una questione estremamente attuale e centrale della nostra democrazia.
Noi vorremo uno Stato e amministrazioni pubbliche capaci di costruire cittadinanza, non il proliferare di individualismi, come invece ci sembra che da diversi anni sia andato sempre più accadendo nel nostro Paese.
C’è differenza tra cittadino e individuo. Il cittadino si sente parte di una polis e ha a cuore il bene comune, l’individuo si sente separato dagli altri, punta ai suoi interessi personali. Le politiche liberiste, le politiche dell’austerità hanno generato il tramonto del cittadino a favore dell’individuo che cerca di difendersi dalla comunità, anziché partecipare e contribuire al suo sviluppo.
Questo è il prezzo che ognuno di noi sta pagando alla crisi, e sanzioni come quelle dell’Actf, ma anche tutte le altre, aiuteranno forse a risanare i bilanci, ma certo aggravano le patologie di cui ormai la nostra convivenza e la nostra democrazia da tempo soffrono.
Forse è il caso di aprire una seria riflessione a partire dalla nostra Actf, non certo per eliminare le sanzioni a chi contravviene, ma per porre modalità e limiti che non le rendano vessatorie.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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