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Abbiamo una Stella in quel di Ferrara, che brilla di luce propria, e che non tutti conoscono. Fortunatamente, per una volta, non vale però il nemo propheta in patria.

Perché la sua città ne ha scoperto, riconosciuto, compreso e valorizzato il talento.

Questa Stella oggi illumina, con le sue immagini, una rotonda, uno spazio che fende il cielo, da cui si vede il cielo blu. Una cornice per gli astri più luminosi, dalla quale passano timidamente i raggi della luna, la nostra Rotonda Foschini che sa di magia. Un luogo pieno di fascino e quasi nascosto, un piccolo cortile nicchia dalla forma ovale, dedicato all’architetto, accademico e scrittore Antonio Foschini, uno dei due progettisti del Teatro Comunale. Una piccola porta per l’infinito. Polvere di stelle.

Antico passaggio di carrozze da Corso Martiri della Libertà a Corso Giovecca, oggi questo luogo ci fa transitare verso le nuvole e i sogni. E allora, pufff …abracadabra …

La bacchetta di Mago Merlino potrebbe avere fatto comparire, come d’incanto, dodici grandi fotografie che ci portano nella storia del teatro. Quella vera.

Scatti del nostro Marco Caselli Nirmal, che, come il Signore di Firenze, oserei definire il Magnifico, lasciatemene la licenza (pensando, ovviamente, non al senso originario dell’appellativo di Lorenzo legato alla sua massima carica di Gonfaloniere di Giustizia ma al suo raffinato gusto per le arti e la bellezza).

Questi volti, che non necessitano di parole, arrivano dritto al cuore su un’elegante carrozza trainata da cavalli bianchi direttamente dall’archivio fotografico della Fondazione del Teatro Comunale ”Claudio Abbado”, dodici ritratti fotografici opera di Caselli Nirmal. Per la precisione, dodici trovano posto alla Rotonda, altri sei si affacciano sospesi e mobili sotto le arcate del portico, ad accogliere gli spettatori all’entrata del Teatro. Re e Imperatori. Gigantografie, di nome e di fatto. Grandi i volti, grandi i nomi: protagonisti della regia teatrale del Novecento e dei primi decenni di questo secolo. L’avanguardia, la tempesta e l’impeto. Il Genio e la sregolatezza.

Le rughe di quei visi parlano, sono esperienza, sapienza, conoscenza, espressioni di tempi che furono. Sono Arte.

Tadeusz Kantor, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Peter Stein, Robert Wilson, Peter Brook, Lindsay Kemp, Luca Ronconi, Egisto Marcucci, Marco Martinelli, Leo De Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Dario Fo, Carlo Cecchi, Mario Martone, Toni Servillo, Daniele Abbado e Moni Ovadia.

Testa all’insù, sguardi che si perdono, ammiriamo en plein-air autentici giganti del rinnovamento teatrale, personalità straordinarie ed eclettiche, diverse l’una dall’altra, accomunate dall’autore e dall’occasione della ripresa: la presenza a Ferrara per spettacoli memorabili o incontri con il pubblico. Quelli che si ricordano.

Una galleria all’aperto nel cuore del teatro, ideata da Giuseppina Benassati, per rendere visibile su scala urbana una piccola, importante, porzione del patrimonio fotografico che, conservato dall’istituzione all’interno dei propri spazi (non a caso, la mostra era stata inaugurata, il 26 novembre scorso, al termine del convegno internazionale La fotografia di teatro: attualità e potenzialità degli archivi fotografici), riconquista un rapporto diretto con la città attraverso i sembianti di uomini illustri.

Non un pantheon allestito con immagini stereotipate, ma un vivido susseguirsi di volti ognuno dei quali si dà, grazie alla capacità interpretativa del fotografo, come vera e propria entelechia, una sorta di essenza intesa come assoluta singolarità, per usare la felice definizione del ritratto fotografico proposta da Leonardo Sciascia.

Marco Caselli Nirmal

E Caselli Nirmal, ferrarese classe 1957, architetto che ha collaborato con la designer Nanda Vigo e poi fotografo dal 1977, è ormai divenuto massima espressione del rapporto fotografia-teatro, nelle sue caratteristiche di evento e di spazio scenico. Un talento che ci affascina. Testimone di quell’essere in atto che è la fotografia.

Le sue immagini accompagnano gli spettacoli teatrali da lungo tempo.

Ci sono i colori, i volti, i salti, i movimenti, i piccoli gesti, le luci e le ombre, abilmente colti e fermati nei loro attimi più significativi e intensi a farci ritrovare nelle dimensioni del sogno e della fantasia. Con la libertà di sentire ciò che si vuole.

Nella Rotonda, pertanto, ci si muove godendo la vista di una sorta di ”galleria di uomini illustri”, molti dei quali scomparsi, che della tradizionale iconografia mantiene, e solo parzialmente, la sequenza dell’allestimento: ritratti verticali giustapposti entro nicchie, delimitazioni spaziali volutamente adottate in antitesi a personalità che del teatro hanno sovvertito, dilatato, rifondato spazi e rapporti.

Spesso si tratta di volti con lo sguardo rivolto verso il basso, a rammentarci quanto il teatro ci guardi e ci ri-guardi e la visione attenta ne sia una delle componenti essenziali. ”E quando gli uomini scelgono di vedere, quell’attimo è grandioso, luminoso nella tenebra del conformismo, dell’indifferenza, dei ruoli, delle funzioni. Quell’attimo c’è e si sente. Le immagini che continuano a vivere nel tempo sono costruite intorno a quell’attimo e la loro vita continuerà fino a quando ci saranno occhi a guardarle” (Leonardo Sciascia, Sulla fotografia). “Entelechia”, dunque, scriveva Sciascia: il ritratto fotografico è “come un consegnarsi a mano altrui: al destino, alla morte, a Dio. E all’ignoto sé stesso”. I piani di pensiero si incastrano, si sovrappongono, diventano una superficie unica.  Partendo dall’aneddoto riportato da Roland Barthes che aveva ritrovato l’intero di quello che sua madre morta era stata, in una foto che la ritraeva bambina, Sciascia osservava: c’erano in quell’immagine “il presente di quando la fotografia è stata fatta, il futuro che è diventato passato, il tutto che la morte ha concluso”. Su un cartoncino sbiadito, un “sortilegio di contrazione del tempo, sul punto della dissolvenza e dell’oblio: e appunto perciò investito da un estremo fulgore. Qui giunti, niente è precluso. Nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso nulla ne è più lontano”. Lo scatto che imprigiona un istante si traduce in “una guerra contro il tempo: non illustre, umile e quotidiana piuttosto”.

E quelle vite che ci osservano sono lì, quasi a tenersi per mano in un amorevole girotondo che la passione per l’arte tiene unite saldamente, ci saranno sempre.

Con una piccola provocazione che vuole essere un gentile invito: attendiamo i volti di altrettanto illustri artiste donne.

 

LE FOTO ESPOSTE ALLA ROTONDA FOSCHINI

LUCA RONCONI

 Nato l’8 marzo 1933 a Susa, in Tunisia, si diploma all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma nel 1953 ed esordisce come attore in Tre quarti di luna con la regia di Luigi Squarzina. Attore in spettacoli di Orazio Costa, Giorgio De Lullo e Michelangelo Antonioni, inizia nel 1963 a lavorare come regista con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volontè. Ma è la straordinaria messa in scena nel 1969 dell’Orlando Furioso di Ariosto, nella riduzione di Edoardo Sanguineti, a portarlo al successo internazionale.

Nel corso degli anni collabora con diverse istituzioni teatrali: dal 1975 al 1977 è Direttore della Sezione Teatro alla Biennale di Venezia e tra il 1977 e il 1979 fonda e dirige il Laboratorio di progettazione teatrale di Prato.

Dal 1989 al 1994 è direttore del Teatro Stabile di Torino, nel 1994 è nominato direttore del Teatro di Roma, e, dal 1999 al 2010, è direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano.

Ha diretto anche le versioni televisive di alcuni dei suoi spettacoli più importanti ed è stato curatore e allestitore di mostre.

Ha ottenuto prestigiosi premi e riconoscimenti, fra i quali il Premio Antonio Feltrinelli per la Regia teatrale, dall’Accademia Nazionale dei Lincei (2008), e ha ricevuto lauree honoris causa dalle Università di Bologna (1999), Perugia (2003), Urbino (2006) e Venezia (2012). Nell’ambito della Biennale Teatro di Venezia, nel 2012 ha ritirato il Leone d’Oro alla Carriera, mentre nel 2013, in occasione dei suoi ottant’anni, il Sindaco di Milano gli ha consegnato il Sigillo della Città.

Muore il 21 febbraio 2015 a Milano.

ROBERT WILSON

Regista, scenografo e attore, nasce a Waco, in Texas, il 4 ottobre 1941. Studia economia aziendale ad Austin, ma abbandona i corsi nel 1962, per trasferirsi a New York dove si iscrive ad architettura e progettazione di interni al Pratt Institute di Brooklyn: qui consegue il Bachelor of Fine Arts. In quegli anni vede gli spettacoli di Martha Graham, Merce Cunnigham e Alwin Nikolais: è con quest’ultimo e il suo gruppo che nasce una collaborazione e Wilson disegna le scene per Junk Dances e Landscape (1964). Mentre studia, lavora con i bambini handicappati e mette a punto le sue prime opere, tra cui un cortometraggio cinematografico astratto, Slant (1963).

La svolta arriva nel 1966, con The King of Spain che l’artista considera come il suo primo vero spettacolo da cui inizia a elaborare quella suggestiva visione dello spazio e del tempo teatrale che diventerà la sua inconfondibile cifra stilistica. Quello stesso anno la Brooklyn Academy of Music gli commissiona un’opera, The Life and Times of Sigmund Freud, mentre del 1970 è Deafman Glance, “opera del silenzio” costruita davanti agli occhi di un sordomuto: questo spettacolo rende il regista texano noto in tutto il mondo e il clamore si rinnova due anni più tardi con un’altra rappresentazione-evento, Ka Mountain and Guardenia Terrace, che si svolge per 7 giorni e 7 notti sulle 7 montagne attorno a Shiraz-Persepoli. Nel 1973 produce The Life and Times of Joseph Stalin, nuova opera del silenzio di dodici ore, rappresentata in diverse parti del mondo, mentre nel 1976 collabora con il compositore Philip Glass alla scrittura di Einstein on the Beach, una delle opere più influenti del secondo dopoguerra.

In seguito, lavora nei teatri europei di prosa e lirici e all’inizio degli anni Ottanta risale d’altra parte uno dei suoi progetti più ambiziosi the CIVIL warS: a tree is best measured when it is down, affresco epico creato con un gruppo di artisti internazionali e concepito come opera centrale delle Olympic Arts Festival del 1984. Negli ultimi anni, si sta dedicando sempre più al Watermill Center, laboratorio da lui fondato nel 1992 che svolge attività didattica, produttiva e archivistica.

È un autore a tutto campo la cui opera ha percorso e a tratti guidato l’avanguardia teatrale. Wilson non affronta le contraddizioni del nostro tempo in modo diretto, attraverso una narrazione convenzionale, ma costruisce una struttura di rimandi visivi e uditivi che agiscono sull’interiorità dello spettatore.

TADEUSZ KANTOR

Pittore e regista teatrale polacco, nasce a Wielopole (Cracovia) il 6 aprile 1915. Iscrittosi nel 1939 all’Accademia di Belle Arti di Cracovia (dove insegnerà trent’anni dopo) per studiare pittura e scenografia, frequenta i laboratori sperimentali di Jerzy Grotowski, ma lo affascina soprattutto l’incontro con Konstantin Sergeevič Stanislavskij.

Iniziata la carriera come scenografo, nel 1945 lavora al Teatro Stary di Cracovia, dove porta avanti l’attività di regista e di pittore.

Nel 1955 presenta il gruppo Cricot 2, da lui fondato e diretto per interpretare la propria denuncia, espressa nei numerosi manifesti pubblicati in un ventennio e dedicati, tra gli altri, all’Arte informale (1960), agli Imballaggi (1962), al Teatro zero (1963), al Teatro degli avvenimenti (1968), al Teatro della morte (1975), all’Antiesposizione popolare (1979).

Ha ricevuto premi e riconoscimenti sia come pittore che come regista: il premio di pittura alla Biennale di San Paolo (1967), il premio Marzotto per la pittura (1968), il Gran premio Teatro delle nazioni di Caracas (1978), la croce dell’Ordine Polonia Restituta (1982) e la Legion d’Onore francese (1986).

La sua arte è stata definita informale, la sua pittura metaforica in quanto caratterizzata da un’attenzione particolare al movimento, al cromatismo, alle forme che aiutano la definizione dei caratteri. Le sue scene cinetiche, in continua trasformazione in quanto partecipi dell’azione, sono il risultato di un tipo di ricerca tecnica sull’organizzazione dello spazio per combattere ogni forma di routine teatrale, ogni cliché di recitazione; sono realizzate di preferenza in stazioni, ospizi, scuole, caffè, e hanno per protagonisti gli oggetti quotidiani, la cui simbologia intende significare lo stato transitorio ed effimero della vita. Per questo predilige l’uso della materia bruta (argilla, fango) e dell’oggetto povero che, semplicemente, ”è”, senza che l’artista intervenga a imporgli la sua volontà di espressione e interpretazione.

Muore a Cracovia il 6 dicembre 1990.

CARMELO BENE

Nasce il 1° settembre 1937 a Campi Salentina (Lecce), dove i genitori hanno in gestione un tabacchificio di proprietà della famiglia Reale.

Trascorre infanzia e adolescenza fra Campi e Lecce, compiendo gli studi classici presso la scuola degli scolopi e poi dei gesuiti, prima di partire ventenne per Roma dove, per la famiglia, avrebbe dovuto laurearsi in giurisprudenza; invece, contemporaneamente, si iscrive alla scuola di recitazione Pietro Scharoff e ai corsi per attore dell’Accademia d’arte drammatica, che, insofferente, abbandona prima del diploma, per iniziare in autonomia la sua originale e fortunata carriera artistica.

Dal 1959 porta avanti per oltre quarant’anni un’intensa attività. Lungo è elenco delle sue opere: più di 60 spettacoli teatrali, 9 fra corti e lungometraggi cinematografici, 25 edizioni televisive e una ventina di registrazioni radiofoniche.

Rifiutando i riconoscimenti al suo talento, si è sempre definito un genio (“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: Opere con l’Autografia di un ritratto) per dichiarare la necessità e la libertà del suo agire artistico: un’azione e una riflessione che intendeva liberare l’attore dalla sua stessa scena e il teatro dai suoi limiti e dai suoi stessi modi.

Tra avversari e detrattori, il successo lo porta nei maggiori teatri italiani, fino alle vette del teatro alla Scala di Milano. Fra i suoi ammiratori e interlocutori, oltre ai migliori critici teatrali italiani (Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, Giuseppe Bertolucci, Franco Quadri, Goffredo Fofi…), vanno citati personaggi come Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Eugenio Montale, nonché in Francia Jacques Lacan, Michel Foucault e gli amici Jean-Paul Manganaro (suo traduttore) e Gilles Deleuze.

Le due autobiografie sono le fonti più autorevoli: Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es) e Vita di Carmelo Bene. Da esse si evince che l’artista abbia sempre consciamente perseguito e inconsapevolmente realizzato un’assoluta fusione fra arte e vita: l’’arte grande’ e la ‘vita breve’ di un attore, tanto discusso quanto importante e forse il più imponente del teatro italiano del Novecento.

“Contro la Rappresentazione” è stato il suo slogan costante: la chiave del suo manifesto culturale e il senso del suo progetto artistico. E l’Attore fuori dalla Rappresentazione è stato il suo obiettivo e infine, il suo capolavoro: “E non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera si è capolavoro”.

Lo spettacolo che segna il debutto d’attore è una rappresentazione del Caligola di Albert Camus, in scena a Genova nel 1959; il primo spettacolo in cui appare come attore e regista è un Concerto Majakovskij tenuto a Bologna nel 1960. Da subito la sua proposta spettacolare è duplice: alle messe in scena di testi drammatici o letterari – rielaborati o ideati e comunque sempre ‘riscritti’ – si alternano ‘concerti d’attore’, basati sui testi lirici o epici dei più grandi poeti.

Fra la fine degli anni Cinquanta e il 1967 partecipa al movimento delle cosiddette ‘cantine romane’. Fonda e dirige un primo teatro laboratorio situato a Roma, in Trastevere, a piazza S. Cosimato, per allestire più tardi un teatro intitolato al suo nome in un fondo di via del Divino Amore. In quelle sedi, prova e replica i suoi primi spettacoli, alcuni dei quali vedranno riedizioni più complesse e riallestimenti meno precari su palcoscenici sempre più importanti. Ma per la sua prima vera tournée in Italia organizzata dall’Ente teatrale italiano (ETI), deve attendere il successo della sua seconda edizione di Pinocchio del 1966.

Cristo 63 è lo spettacolo di un primo ‘scandalo’ che dà origine alla sua fama di imprevedibile e irriducibile provocatore, in particolare, legata alla leggenda dell’attore che avrebbe orinato in faccia a un critico e poi replicato il gesto in altre occasioni. Come provocatore, celebre rimarrà il suo intervento al Maurizio Costanzo Show del 27 giugno 1994, intitolato Uno contro tutti.

Inaugurato dall’attività cinematografica, il secondo periodo artistico (1967-1980) è caratterizzato dall’esplorazione e dallo sfruttamento di altri mezzi e linguaggi come, in particolare, la radiofonia ma anche la televisione e le prime edizioni discografiche. In questo periodo infatti produce tutti i suoi film, cinque edizioni televisive dei suoi spettacoli e 13 interventi e opere radiofoniche.

Il ritorno in teatro è segnato dal nuovo allestimento di Nostra Signora dei Turchi (1973), per proseguire con stagioni dominate da riscritture del repertorio shakespeariano: una serie di “Shakespeare secondo Bene”.

Arriva la Francia, Parigi. La cultura e la letteratura francese erano sempre stati riferimenti privilegiati; e però il cinema che crea  i presupposti di una ammirazione da parte del pubblico e della critica transalpina, poi cresciuta con il teatro e tramutata in relazione stabile. Nel 1977 porta a Parigi il suo Romeo e Giulietta, nonché il S.A.D.E., ed è un trionfo. Vi torna nel 1999 con il suo Macbeth Horror Suite e in quell’occasione, con una Lectura Dantis all’Odéon, ringrazia per la nomina a chevalier de l’art et de la culture, un riconoscimento della sua arte ma anche un certificato di adozione.

L’ultima fase del lavoro di Bene (1980-2002) inizia con le due più grandi manifestazioni spettacolari della sua carriera: il Manfred, opera di Byron e Schumann che, con il debutto alla Scala di Milano il 1° ottobre 1981, sancisce il suo ingresso nel mondo della musica; quindi, la Lectura Dantis, eseguita a Bologna il 31 luglio 1981 che decreta la definitiva confusione tra teatro e poesia, attore e poeta.

Da qui l’elenco delle sue opere è infinito. L’ultimo appuntamento con il pubblico avviene con una Lectura Dantis al Castello di Otranto, il 5 settembre 2001.

Muore il 16 marzo 2002 nella sua casa di Roma.

PETER STEIN

Nato a Berlino il 1º ottobre 1937, è un regista teatrale tedesco, oltre che attore teatrale e regista d’opera lirica.

Vive l’infanzia in piena epoca nazista. Suo padre Herbert è direttore della fabbrica di Alfred Teves, una industria di motocicli che è stata adibita dal regime alla costruzione di componenti automobilistiche. Herbert comanda 250.000 lavoratori forzati. Ma, nonostante ciò, aderisce clandestinamente alla Bekennende Kirche (Chiesa confessante), un gruppo di resistenza. Questi eventi hanno un profondo effetto sulla formazione e sulla vita di Stein. Comincia a lavorare a Monaco dietro le quinte come tecnico, guadagnando a ruoli sempre più importanti. A trent’anni, nel 1967, debutta come regista. Impegnato politicamente, continua a dirigere pièce “anarchiche” e liriche come Discorso sul Vietnam di Peter Weiss (1968), Nella giungla delle città di Bertolt Brecht, e Torquato Tasso di Goethe.

Nel 1970 fonda il collettivo teatrale della Schaubühne am Halleschen di Berlino Ovest, che guida fino al 1985. Il gruppo realizza messinscene trasgressive che stravolgono la struttura dello spazio teatrale e scenico. Oltre a “riscrivere” testi classici antichi e moderni, allestisce nuovi spettacoli che esplorano linguaggi e temi imbarazzanti per il senso comune dell’epoca.

Tra le opere più significative di quel periodo Peer Gynt di Henrik Ibsen (1971), Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist (1972), I villeggianti di Maksim Gor’kij (1974), Orestea di Eschilo (1980), riallestita in lingua russa a Mosca nel 1994 con la Compagnia dell’Armata Rossa. Quest’ultimo è il capolavoro in cui il regista abolisce la scena, sostituita dal muro del Palazzo, collocando il coro in mezzo agli spettatori seduti su gradini.

Nel suo incontro con Anton Čechov, del quale propone Tre sorelle (1984), Il giardino dei ciliegi (1989 e 1996) e Zio Vania (nel 1996 al Teatro Argentina di Roma), rivela una inesplorata comicità nella tragedia dell’autore russo.

Dal 1992 al 1997 dirige la sezione prosa del Festival di Salisburgo.

Vive ormai da anni in Italia (ha sposato l’attrice Maddalena Crippa) ed è stato insignito di numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali l’onorificenza francese di Commandeur de l’Ordre des Arts et Lettres et Chevalier de la Légion D’Honneur. Nel 2011 riceve il Premio Europa per il teatro, a San Pietroburgo.

È considerato tra i più importanti artefici del teatro tedesco ed europeo della seconda metà del Novecento.

EGISTO MARCUCCI

Attore e regista italiano, è nato a Firenze, 25 dicembre 1932.

Diplomatosi nel 1961 alla Civica scuola del Piccolo Teatro di Milano, svolge qui le prime esperienze come attore. Dal 1963 al 1967 è scritturato a Trieste dal locale Teatro Stabile. Tra le sue prime interpretazioni l’Egmont di Goethe con la regia di Luchino Visconti per il Maggio Musicale Fiorentino del 1967.

Nel 1969, fonda il Gruppo della Rocca, con il quale nel 1972 passa alla regia con Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare. Dal 1978 al 1981 insegna alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova. Nel periodo 1983-1985 è direttore artistico dell’Ater-Ert (Associazione dei teatri dell’Emilia-Romagna).

Fra le sue regie più significative si ricordano: Il mandato (1976) e Il suicida (1978) di Nikolaj Ėrdman; La donna serpente di Carlo Gozzi (1979 e 1995); Il vampiro di San Pietroburgo di Suchovo-Kobylin (1984); La lezione di Ionesco (1986 e 1996); La coscienza di Zeno di Tullio Kezich da Italo Svevo; Il silenzio delle sirene di Giorgio Albertazzi; La marchesa di O… dalla novella di Heinrich von Kleist (1990); La famiglia Mastinu di Alberto Savinio (1990); Stadelmann di Claudio Magris e Il suo nome di Alberto Savinio (1991); Dyskolos di Menandro (1995); Le sedie (1997) di Ionesco; Una burla riuscita da Italo Svevo (1998).

Ha curato la regia di opere liriche, tra cui L’italiana in Algeri (1981) e Il turco in Italia (1982) di Gioacchino Rossini.

Muore a Milano, il 18 gennaio 2016.

EUGENIO BARBA

Regista e teorico teatrale italiano, nasce a Brindisi il 29 ottobre 1936. Emigrato in Norvegia, si trasferisce a Varsavia dove nel 1962 diventa assistente di Jerzy Grotowski. L’influsso dell’esperienza polacca lo porta a fondare al suo ritorno a Oslo nel 1964 l’Odin Teatret. Trasferisce poi il suo teatro-laboratorio a Holstebro in Danimarca. Gli spettacoli dell’Odin Teatret non sono basati sulla messa in scena di un’opera ma sul confronto con un testo o una problematica e sul montaggio del materiale elaborato dall’attore in vista di una ricerca introspettiva ed espressiva collettiva.

Fra il 1974 e il 1975 l’Odin Teatret realizza, in Italia, esperienze antropologiche di scambi con le culture locali del Salento e della Barbagia.

Tra i suoi spettacoli si ricordano: Talabot, 1988; Itsi Bitsi, 1991; Kaosmos, 1993; Mythos, 1998; Andersen’s Dream, 2005. Tra gli scritti teorici: Alla ricerca del teatro perduto, 1965; Théâtre et Révolution, 1970; Il libro dell’Odin, 1975; Il corpo dilatato, 1985; Teatro: solitudine, mestiere, rivolta, 1996; L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, 1996.

GIORGIO BARBERIO CORSETTI

Nato a Roma l’11 gennaio 1951, è uno dei rappresentanti più significativi del teatro in Italia, nelle vesti di regista, autore e attore.

La sua avventura professionale inizia nel 1976 con la fondazione, insieme ad Alessandra Vanzi e Marco Solari, della compagnia “La Gaia Scienza”, che prende il nome dal saggio di regia con cui egli, appena l’anno precedente, si era diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.

Successo e attenzione della critica lo portano sciogliere il gruppo nel 1984, dopo l’esperienza solista di Animali sorpresi distratti, e a fondarne uno con il suo nome.

Inizia la strada della sperimentazione del video in collaborazione con Studio Azzurro, realizzando tra gli altri Prologo a Diario segreto contraffatto (1985), Correva come un lungo segno bianco (1986) e La camera astratta (1987), cui va un premio Ubu per il video-teatro.

Dal 1988, inizia una riflessione sull’opera di Kafka che lo conduce alla messinscena di una trilogia di racconti brevi: Descrizione di una battaglia (1988), Di notte (1988), Durante la costruzione della muraglia cinese (1989), lo confermano uno dei maggiori talenti della scena italiana e l’interesse della critica gli procura un premio Idi per la regia del successivo Il legno dei violini, di cui è anche autore.

Nel 1993 inizia un ampio lavoro di rilettura del Faust goethiano, il cui primo risultato è Mefistofele, studi, schizzi e disegni per un Faust privato (1995), ma che soprattutto si conclude con un Faust (1995) che segna la maturità del regista nell’utilizzo sperimentale del video: anche interprete, monta i monitor su alcuni carrelli che percorrono lo spazio scenico, rimandando l’immagine degli stessi protagonisti e chiamandoli a dialogare con essa.

Nella continua ricerca attraverso le diverse manifestazioni artistiche, inoltre sperimenta l’incontro con l’opera lirica che, avvenuto nel 1999 (Maria di Rohan di Gaetano Donizzetti) continua a al più recente allestimento di Tosca per l’edizione 2005 del Maggio Musicale Fiorentino.

Gli viene assegnata la direzione della Sezione Teatro della Biennale di Venezia, dal 1999 al 2002, senza rinunciare a collaborazioni internazionali prestigiose e a dirigere progetti del calibro di Graal (2000), Woyzeck (2001), Le metamorfosi da Ovidio (2002 / 2003), Paradiso (2004), Argonauti (2005).

LINDSAY KEMP

Nato sull’Isola scozzese di Lewis e Harris il 3 maggio 1938 e cresciuto nel nord dell’Inghilterra, orfano di padre, disperso in mare nel 1940, sin dall’infanzia s’innamora della danza, del teatro, del cinema, nonostante l’opposizione della madre.

Terminati gli studi al Bradford College of Arts, si trasferisce a Londra dove frequenta la scuola del Ballet Rambert, quindi si perfeziona con Sigurd Leeder, Charles Wiedman, Marcel Marceau e tanti altri. Particolarmente significativa per Kemp è l’esperienza formativa con Marceau che gli ha “dato le mani”, giocando con le parole per indicare sia l’effettiva importanza delle mani nell’arte mimica e nella sua personale interpretazione di essa.

Lavora in varie compagnie di danza, teatro, teatro-danza, cabaret, musical, mimo, coreografa perfino spogliarelli, fino a formare nel 1962 la sua prima compagnia, la The Lindsay Kemp Dance Mime Company.

Verso la fine degli anni sessanta continua a sviluppare la propria sintesi fra diversi linguaggi teatrali privilegiando un approccio personale e innovativo alla danza e al teatro, così nel 1968-1969 nasce la prima produzione di Flowers… una pantomima per Jean Gênet, liberamente tratto da Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet.

Precursore di un genere di danza onirico, ricco di contenuti e ispirazione, al limite dell’acrobatico e forte di effetti spettacolari ancorché ottenuti in modo semplice attraverso l’uso sapiente della musica e delle luci, ha reinventato l’arte del mimo e ha influenzato molte compagnie

Fra gli anni Settanta e Ottanta lascia un segno indelebile: con la sua messa in scena dei concerti The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del suo allievo David Bowie, una pietra miliare nel genere dell’opera rock, quindi producendo le sue opere più significative e conosciute e con il citato Flowers, Sogno di una notte di mezza estate, liberamente tratto da Shakespeare, Salomè da Oscar Wilde.

Negli anni ’90 continuano i successi della Linsay Kemp Company: Onnagata CenerentolaVariété. Nel 1993 Kate Bush, che ha cominciato la sua carriera come allieva di Kemp, lo ospita nel video musicale prodotto per il lancio del suo LP The Red Shoes. Nel 1995 esordisce nella regia lirica con una versione de Il barbiere di Siviglia che affascina il pubblico e conquista la critica.

Dal 2005 al 2012 interpreta il ruolo della fata Carabosse ne La bella addormentata del Balletto del Sud con le coreografie di Fredy Franzutti, la collaborazione continua con l’interpretazione del mago Koščej ne L’Uccello di Fuoco dal 2007 al 2010.

Dal 2009 inizia la collaborazione con la danzatrice Daniela Maccari, inizialmente chiamata a curare le coreografie dello spettacolo Cinderella. Nasce un rapporto di destinato a durare sino alla scomparsa di Kemp. Daniela Maccari diverrà la sua prima ballerina, coreografa e collaboratrice costante.

Nel 2015, lAccademia di belle arti di Brera consegna all’artista il Diploma accademico di II livello honoris causa in Arti multimediali interattive e performative.

Muore il 25 agosto 2018 a Livorno.

LEO DE BERARDINIS

Nasce a Gioj Cilento il 3 gennaio 1940, ma cresce a Foggia.

Tra il 1959 e il 1960 frequenta a Roma il Centro universitario teatrale e nel 1962 debutta con la compagnia di Carlo Quartucci, recitando le opere di Beckett Finale di partita e Aspettando Godot.

Nel 1965, inizia il lungo sodalizio artistico con Perla Peragallo, attori e registi di numerose messinscene teatrali e cineteatrali, la prima delle quali è La faticosa messinscena dell’ Amleto di Shakespeare (1967) e Sir and Lady Macbeth (1968) . Quando nel 1981 si conclude il sodalizio con Perla, ritorna a Roma, dove inizia una serie di lavori teatrali che segneranno il passaggio dal “teatro del non-finito” al “teatro dell’improvvisazione”.

Nel 1983 si trasferisce a Bologna e inizia una nuova collaborazione artistica con la Cooperativa Nuova Scena – Teatro Testoni / Interaction. Continua i suoi studi su Shakespeare e nasce la ricerca sugli spettacoli Assolo che porta alla creazione di messinscene come Dante Alighieri – studi e variazioni, con la quale vince il Premio UBU come miglior attore dell’anno nel 1984, e Il Ritorno, riflessi da Omero- Joyce.

Nel 1987 realizza Novecento e Mille, un’opera che racchiude in sé studi sperimentali sul teatro e sugli autori più svariati, da Pasolini a Beckett, fino a PirandelloNello stesso anno lascia la “Nuova scena” e fonda il “Teatro di Leo”, diventandone direttore artistico ed organizzativo: qui non solo produce spettacoli teatrali, ma crea laboratori di ricerca e organizza giornate di studio sul teatro, convegni e rassegne teatrali. Fra gli spettacoli teatrali prodotti nel “Teatro di Leo” ci sono DelirioL’uomo capovoltoMachbethNovecento e Mille e Il fiore nel deserto, tratto dall’opera di Giacomo Leopardi.

Nel 1989, produce, in collaborazione con “Teatri Uniti di Napoli” e il “Festival dei due mondi di Spoleto”, Ha da passà ‘a nuttata, tratto dall’opera di Eduardo De Filippo; l’allestimento ottiene il Premio UBU come miglior spettacolo dell’anno, mentre lui vince il Premio IDI come miglior attore e il Premio per la carriera da parte dell’Associazione Nazionale dei critici.

Nel 1990 “Il Teatro di Leo” trova, a Bologna, un suo spazio scenico chiamato “Lo spazio della memoria” e in questo ambito nascono molti laboratori di ricerca, come quello sulla scrittura scenica, in collaborazione con l’Università di Bologna.

Nel 1991 riceve il Premio Eduardo, il Premio Giuseppe Fava, in riconoscimento del carattere civile e politico del suo teatro, e il Premio Città di Pontecagnano, per la sua arte attoriale. Nel 1992, egli ottiene anche il Premio UBU Speciale, “per la coerenza e la necessità del suo teatro”.

Dal 1994 al 1999, è direttore artistico del “Festival di teatro di Santarcangelo”. Sempre in questo periodo dirige il Teatro San Leonardo di Bologna e cura, per il “Teatro sperimentale” di Spoleto, la regia del Don Giovanni di Mozart.

Il 4 maggio 2001, la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Bologna gli conferisce la Laurea ad honorem.

Muore a Roma il 18 settembre 2008. Alla sua memoria, nel 2015, è stato dedicato un teatro-auditorium a Vallo della Lucania.

MARCO MARTINELLI

Drammaturgo e regista teatrale, nasce a Reggio nell’Emilia, il 14 agosto 1956.

Nel 1983 fonda, con la moglie Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, il Teatro delle Albe e nel 1991 è nominato direttore artistico di Ravenna Teatro, “Teatro Stabile di Innovazione”.

Nel 1999, inventa il “Cantiere Orlando”, ricognizione nell’universo dei poemi cavallereschi rinascimentali.

Nel 2005 firma la regia dello spettacolo La Mano, “de profundis rock”, nel 2007 è in Senegal, dove lavora insieme a Ermanna Montanari e Mandiaye N’Diaye a una nuova “messa in vita” de I Polacchi. Lo spettacolo Ubu buur debutta nel cuore della savana, nel villaggio di Diol Kadd, con un coro di Palotini senegalesi. Ubu buur viene presentato in prima europea al Festival des Francophonies en Limousin (Francia), che lo ha anche coprodotto, in prima nazionale al Teatro Festival Italia di Napoli e a VIE Scena Contemporanea Festival di Modena, nell’autunno 2007.

Nel 2008 cura la regia di Rosvita, lettura-concerto di Ermanna Montanari e di Stranieri di Antonio Tarantino. Nel 2009 firma la regia e le luci di Ouverture Alcina, spettacolo che riscuote un grande successo di pubblico e critica in occasione delle numerose recite in varie città del mondo: da New York a Mosca nell’ambito del Festival internazionale “Stanislavskij Season”, da Tunisi a Berlino e Limoges.

Nel 2010, le Albe si immergono nell’opera di Molière e, nello stesso anno, debutta Rumore di acque, testo e regia di Marco Martinelli, un monologo capace di trasfigurare in grottesca e malinconica poesia la cronaca tragica dei barconi alla deriva nel Mediterraneo. Lo spettacolo ottiene il patrocinio di Amnesty International.

Nel 2012 debutta PANTANI, testo e regia di Marco Martinelli, che vede impegnata tutta la compagnia, con il quale Martinelli vince il Premio Ubu 2013 come “migliore novità italiana (o ricerca drammaturgica)”.

Nel 2014 scrive e dirige Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, ideato con Ermanna Montanari, spettacolo sulla leader birmana premio Nobel per la pace nel 1991. Ne dirigerà un film omonimo (il suo primo film), nel 2016.

Nel 2017 sempre con Ermanna Montanari firma l’ideazione, la direzione artistica e la regia di INFERNO Chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri prodotto da Ravenna Festival in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

Nel 2018 scrive e mette in scena – con Ermanna Montanari – Va pensiero, affresco corale capace di far luce sulla corruzione mafiosa in Emilia-Romagna. Saluti da Brescello (di Marco Martinelli) ne costituisce il prologo, in forma di dialogo tra le statue di Peppone e Don Camillo nella piazza di Brescello. Per questi due lavori viene conferito a lui e a Montanari il Premio Articolo 21 e della Federazione Nazionale Stampa Italiana

Nell’autunno 2019 esce il suo secondo film, The Sky over Kibera, che racconta la “messa in vita” della Divina Commedia nell’immenso slum nel cuore di Nairobi con 150 bambini e adolescenti delle scuole locali in relazione alla Fondazione AVSI.

Il 20 novembre 2021 in Prima nazionale per FilmMaker Festival a Milano presenta la pellicola fedeli d’Amore e nello stesso anno Ulisse XXVI, un cortometraggio centrato sul XXVI canto dell’Inferno di Dante recitato da Ermanna Montanari.

Cura anche la regia assieme alla Montanari di Pasolinacci e Pasolini, racconto personale del maestro, “faro” di riferimento fin dall’adolescenza negli anni Settanta.

È fondatore, con Maurizio Lupinelli, della non-scuola, esperienza teatrale all’interno delle scuole superiori di Ravenna nata nel 1991 e tuttora in atto, che coinvolge ogni anno oltre 400 giovani.

PETER BROOK

Regista teatrale e cinematografico inglese nasce a Londra il 21 marzo 1925.

Il padre, nato in Lettonia da una famiglia di piccoli negozianti, emigrò giovanissimo, nel 1907, a Parigi per motivi politici, seguito dalla ragazza che sarebbe diventata di lì a poco sua moglie, Ida Janson. Entrambi si laurearono in Scienze alla Sorbona, per trasferirsi poi a Liegi e a Londra dove iniziarono a lavorare per l’industria bellica. Presero la cittadinanza inglese, e l’originale cognome Bryk, già trasformato in Francia in Brouck, divenne definitivamente Brook.

Peter passa la sua infanzia con i genitori e il fratello maggiore Alexis, in un clima familiare abituato a una mentalità liberale e scientifica, ricco di interessi culturali, tanto che si avvicina presto alla letteratura, al teatro e al cinema. Grazie alla passione del padre per i viaggi, conosce le principali capitali europee.

Studia al Gresham’s School ed alla Università di Oxford, dove si laurea, ma e il suo incontro col teatro è casuale. Esordisce giovanissimo nella regia teatrale con il Doctor Faustus di Marlowe (1943), imponendosi come acuto interprete del teatro di William Shakespeare.

Dopo essersi affermato in Gran Bretagna, diventa noto nel resto dell’Europa grazie al tour del Tito Andronico nel 1955. Il suo interesse per Shakespeare è tale che l’artista è annoverato tra i maggiori interpreti – per mezzo delle sue regìe – del drammaturgo inglese. Mise in scena con successo anche le cosiddette opere minori di Shakespeare.

Muore a Parigi il 2 luglio 2022. 

Tutte le immagini sono di Marco Caselli Nirmal.

MARCO CASELLI NIRMAL

Collabora con i maggiori artisti italiani e internazionali oltre che con teatri, centri d’arte contemporanea, rassegne e premi, orchestre, case discografiche, compagnie teatrali e di danza, centri di produzione teatrale, festival musicali e teatrali in Italia e all’estero. 

Nel 1981 avvia una significativa collaborazione con Paolo Natali, etnomusicologo e vicedirettore del Teatro Comunale di Ferrara, con il quale allestisce la mostra documentaria dedicata a Béla Bartók; collaborazione che continua fino alla scomparsa prematura di Natali, nel 1986.

Dal 1990 è stato fotografo ufficiale del maestro Claudio Abbado in numerose tournée concertistiche. Sua la documentazione fotografica del nuovo Auditorium del Parco di Renzo Piano, sorto all’interno del parco del Forte spagnolo a L’Aquila, da un’idea di Claudio Abbado, inaugurato nel 2012

Nel corso di oltre quaranta anni di attività, ha raccolto e organizzato un archivio fotografico poderoso, che raccoglie una memoria teatrale che spazia fra i diversi generi dello spettacolo dal vivo, comprendendo le maggiori esperienze artistiche di fine Novecento e del nuovo millennio: dal Living Theatre a Tadeusz Kantor, da Claudio Abbado a John Cage, da Luca Ronconi a Nekrosius, da Marco Paolini a Umberto Orsini, da Roberto Benigni a William Forsythe, Fabrizio Gifuni, Babilonia Teatro, Socìetas Raffaello Sanzio, Pina Bausch, Marina Abramovic, Sasha Waltz. Un archivio che raccoglie la documentazione fotografica di circa 10.000 spettacoli per un totale di circa un milione scatti.

Svolge occasionalmente attività di formazione, ha collaborato con il Dipartimento di Architettura e Analisi della Città/UNIROMA, Facoltà di Magistero Università di Siena, Brookes University di Oxford, facoltà di Architettura.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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