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Gaza: le ferite invisibili della guerra

Gaza : le ferite invisibili della guerra

Quando è in gioco la sopravvivenza fisica non ci si può soffermare troppo sul dolore psicologico. Siamo fatti così.

Si piange di fronte alla morte del proprio bambino, di un familiare, di un vicino, ma si deve andare avanti. Quando la fame, la sete, le ferite del corpo chiedono urgenza non c’è tempo per interrogarsi sull’anima. Si deve vivere.

Ma, dopo, quando la tragedia vissuta sembra superata, quando ci sentiamo in salvo, proprio allora la mente ha il tempo di ripercorrere e capire ciò che si è vissuto.
Ogni trauma lascia un segno: ferite che si possono rimarginare e lasciano cicatrici, ferite che rimangono aperte, ferite che non si vogliono vedere ma che, quando il controllo vigile si allenta, ripropongono la paura.

Il trauma della guerra è sempre esistito anche quando non aveva nome. I reduci delle guerre, dopo che si erano contati i morti e i feriti e si tentava di ricostruire il tessuto civile, sono stati i soggetti, loro malgrado, delle pionieristiche ricerche scientifiche, neurologiche e psichiatriche che cercavano di capire perchè e quali segni rimanevano inchiodati nella psiche.

Durante e dopo la prima guerra mondiale migliaia di soldati riportarono gravi disturbi mentali, ma non fu subito evidente che la causa fosse aver partecipato alla guerra, perché non si pensava potesse essere un fattore scatenante una psicopatologia. Si coniò allora la definizione hell shock (espressione inglese traducibile in italiano come “shock da granate“). La cura per “gli scemi di guerra”: il manicomio.

Poi lo strazio immane della seconda guerra mondiale. Questa volta la condizione dei soldati fu chiamata collasso psichiatrico“, “stanchezza da combattimento” o “nevrosi da guerra”. L‘olocausto, la bomba atomica ci hanno fatto capire che il trauma è anche un trauma collettivo: segna profondamente la memoria storica e culturale e influenza la politica, la società e la cultura. Abbiamo anche capito che il trauma è transgenerazionale: gli effetti possono essere trasmessi anche alle generazioni successive, attraverso meccanismi epigenetici e dinamiche familiari, influenzando la loro identità, i loro comportamenti e le loro capacità di affrontare le sfide della vita

Forse il trauma da guerra più studiato o più famoso, perchè ha originato proteste in tutto il mondo ed è raccontato nelle canzoni e nel cinema è stato il problema sociale americano dei reduci del Vietnam. Molti veterani del Vietnam tornati a casa da anni, ancora erano afflitti da torpore emotivo, instabilità, flashback e rabbia.

Nel 1972 lo psichiatra Chaim Shatan coniò il termine “Sindrome post-Vietnam”.

Nel mondo le guerre non si contano più, continuano più o meno conosciute e il trauma si ripete e si amplifica.

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS)

Oggi si parla di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS), nel 1980 la definizione divenne una diagnosi formale nella terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Dodici anni dopo, è stata adottata anche nella Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

La DPTS è una complessa sintomatologia che, generalmente, emerge mesi dopo i fatti che ne sono la causa e tende a ripresentarsi o intensificarsi nel tempo, diventando una costante nella vita di chi ne soffre. Si tratta di segnali fisici, psicologici e mentali che interferiscono pesantemente con la sfera privata e sociale, portando spesso allo sviluppo di altri disturbi psichiatrici concomitanti, ansia, depressione, isolamento, fobie – le più varie -, disturbi del sonno e della concentrazione, abuso di farmaci, cibo, alcol o altre sostanze.

In maniera molto generica perchè si parli di DPTS, occorre l’esposizione a un evento traumatico che minaccia la vita o l’integrità fisica di una persona, sé stessi o altri, ed una reazione di paura intensa, impotenza o orrore. Questa reazione emotiva, assolutamente comprensibile nell’accadere dell’evento, si sviluppa come disturbo psichiatrico in seguito. Post, appunto, e gli effetti non è detto che si vedano a breve distanza, ma possono rimanere latenti nella mente risvegliandosi, alle volte improvvisamente, senza segnali premonitori.

Chi ne soffre vive in balia di ricordi intrusivi dell’evento traumatico, flashback, incubi. Manifesta involontariamente risposte reattive psicologiche a stimoli che ricordano il trauma, è in preda ad una apparente inspiegabile irritabilità, ipervigilanza, difficoltà di concentrazione, problemi del sonno, risposte esagerate alla sorpresa.

Ci si difende evitando costantemente stimoli associati al trauma, come luoghi, persone o situazioni ma il prezzo è una vita condizionata e comunque incerta perchè non si può avere il controllo su ogni cosa.

Dopo l’evento traumatico della guerra si determinano inoltre alterazioni del pensiero, come convinzioni negative su sé stessi o sul mondo, e dell’umore come distacco emotivo, anedonia, depressione.

Se elenchiamo le cause che possono portare alla sindrome da stress post-traumatico ci accorgiamo che sono tante ma sono sempre eventi che causano uno shock profondo. Oltre fatti tragici che coinvolgono tante persone, oltre le guerre e i genocidi di cui stiamo parlando, ci sono le catastrofi naturali, grossi incidenti automobilistici, navali, aerei, incendi eccetera. Spesso, però, il trauma nasce da drammi isolati, individuali, vissuti in prima persona o ai quali si è solo assistito violenze, come pestaggi e aggressioni, stupri, tentati imicidi, rapine; oppure traumi fisici gravi, inclusi parti drammatici o malattie importanti.

Se il DPTS può colpire ogni persona esposta ad un evento traumatico pensiamo agli effetti imponderabili e devastanti quando il trauma lo vive un bambino, quando predomina l’innocenza, la dipendenza e l’inesperienza della vita, quando non si sono elaborati strumenti per capire uno scenario di guerra, quando le difese psichiche sono le più primitive.

I bambini di Gaza

Pensiamo, oggi, ai bambini di Gaza, ma il discorso sarebbe equivalente e angosciante riferito a tutti i bambini che hanno vissuto o vivono la guerra.

Lo scenario di Gaza mette insieme tutte le tragiche eventualità elencate precedentemente come singole cause e ciò senza soluzione di continuità. A Gaza i bambini vivono quotidianamente tutti i drammi possibili, crescono, se non muoiono, avendo intorno costantemente questo drammatico contesto. Sono vittime e testimoni. Si aggiunge adesso la fame, la sete.

Per molti bambini e bambine sono venuti meno quei fattori protettivi che aiutano a superare il trauma perchè i traumi sono ripetuti, perchè le campagne militari e le azioni di guerra sono ininterrotte; perchè viene meno il sostegno familiare e il supporto sociale. Bambini e adolescenti sono fatti a pezzi oltre che dalle bombe e dai droni, da lutti, malattie, perdita della casa, del gioco, del diritto allo studio, della salute, della necessità di crescere in uno spazio protetto.

Si può capire come lo stress generato dalla paura che si è provata in un dato momento (l’esplosione di una bomba, la minaccia di un soldato armato) è terrore vero e proprio, paralisi o impotenza. Effetti che purtroppo non possono essere superati solo con l’esaurirsi del trauma. Questo, infatti, permane nascosto o mimetizzato nella psiche e si svela dopo un po’ di tempo. Se non riconosciuto e affrontato si radica, si cronicizza e diventa disabilità, disadattamento o una vera malattia psichiatrica.

Tutti i sopravvissuti a qualsiasi trauma, la Shoà, per prima lo insegna, non sono più quelli di prima.

Le voci dei bambini (Fonte Unicef,)

Ghazal, 14 anni proviene da Khuza’ah, nella città orientale di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. È stata costretta ad abbandonare la sua casa con il resto della famiglia il giorno dopo essere stati bombardati. Non è la prima volta che accade: nel 2014 Ghazal è stata costretta a lasciare casa e a vivere da sfollata per 2 anni.

Non sopporto più di vivere così, non posso vivere rifugiandomi in una scuola, non posso accettare che questo diventi normale per noi” ha detto. Non voglio che nessuno mi chieda della mia infanzia, io non ho avuto un’infanzia, vivo nel terrore”.

Karim, 15 anni. Nel cuore della devastazione di Tal al-Hawa, a Gaza, Karim osserva il suo quartiere distrutto, tenendo in braccio il suo gatto.
Non lascerei mai Karaz tra le macerie. Lei è l’unica amica che mi sia rimasta, mi prenderò cura di lei” dice. Anche lui fa parte delle centinaia di migliaia di persone sfollate all’interno della Striscia.

Wafaa Jundiah, di Gaza, trasporta boccioni di plastica vuoti per riempirli di acqua potabile per la giornata. Ho perso la mia casa e i miei due fratelli. Vorrei tornare a casa nostra, anche se le possibilità che torneremo indietro sono poche. Non saremo mai più interi, tutti stanno perdendo i propri cari”.

Salwa Elyan, 8 anni, abbraccia delle bottiglie vuote Da grande vorrei fare l’infermiera. Spero che la guerra finisca subito. Amo tutti i bambini, non voglio che muoiano come noi.

Le testimonianze di alcune delle donne e madri

Da Save the children: testimonianze di alcune delle donne, madri che sono parte dello staff e si trovano a Gaza con le loro famiglie.

Samar è madre di tre bambini, tutti hanno meno di sette anni e il più piccolo ne ha solo due.

“Mentre scrivo questo messaggio, mio figlio sta dormendo sulle mie ginocchia, non riesco a lasciarlo solo perché è sempre spaventato. Il mio cuore va a coloro che hanno perso i loro cari e le loro case… Anche noi stiamo aspettando il nostro turno. Viviamo nella costante paura dell’ignoto e le nostre condizioni di vita sono molto difficili (…) Non abbiamo accesso all’acqua potabile e il cibo scarseggia. Non sappiamo nemmeno come faremo a provvedere ai bisogni dei nostri figli. La situazione peggiora di giorno in giorno, perché siamo costretti a comprare la farina a un prezzo quattro volte superiore a quello normale e diventa sempre più difficile trovarla. Abbiamo perso le nostre case e tutti i nostri beni; non sappiamo dove andare. Mi spezza il cuore vedere i bambini affamati e mi sento impotente sapendo di non poter provvedere ai loro bisogni. Lavarsi è diventato un lusso e so che i miei colleghi sfollati nei rifugi pubblici soffrono ancora di più”.

Raida è madre di tre figli, tutti hanno meno di 16 anni, il più piccolo ne ha nove:

Oggi mia figlia mi ha chiesto delle persone che partono attraverso il valico di Rafah. Le ho spiegato che hanno la cittadinanza di altri Paesi. È corsa a prendere il suo salvadanaio, che conteneva 50 shekel (12 dollari), e mi ha pregato di comprarle una cittadinanza. La situazione è molto difficile. Sono esausta”. 

Razan, è nonna di 2 bambini con meno di sei anni. Lavora nel nostro team e ha viaggiato fuori Gaza prima del 7 ottobre e non può tornare dalla sua famiglia:

“Parlo con mia figlia e mi dice che i suoi figli non riescono più a sopportarlo. Urlano in continuazione. Che Dio dia a tutti la pazienza. La situazione è davvero insopportabile. I bambini si esprimono urlando. Anche mia figlia ha paura, vuole che i suoi figli restino accanto a lei. Ha paura che ci sia un attacco aereo mentre loro sono lontani da lei. Ma le ho detto di non limitarli e di cercare di stare sempre con loro. Le ho detto di abbracciali, di parlare e giocare con loro. E se Dio vuole, questa situazione finirà bene”.

La gravità e la durata del trauma, così come la vulnerabilità individuale, possono influenzare lo sviluppo del disturbo. Pensiamo allora all’intera storia del popolo palestinese, dobbiamo partire da molto, molto lontano e arriviamo a questi due ultimi anni di guerra a Gaza, pensiamo alla fragilità dei bambini in età evolutiva che per uno sviluppo sano avrebbero bisogno di una base sicura, circondati da adulti che offrono uno spazio certo, affidabile ma che, invece, a loro volta sono traumatizzati, insicuri e vulnerabili, o non ci sono perchè morti.

Pensiamo alla impossibilità di un bambino di immaginare che non ci sono risposte ai suoi bisogni, che esista la fame, la sete, l’abbandono, non ci sia una casa, che il suo corpo possa essere martoriato.

Vogliamo che questi bambini sopravvivano ma, pur fiduciosi della forza della resilienza che rende capaci di affrontare l’imponderato, cosa ne sarà delle ferite, non solo quelle che il corpo richiama: mutilazioni, disabilità permanenti, la fame, la sete, il dolore, ma le lacerazioni di una crescita senza la protezione dei genitori, della casa, la perdità incolmabile di sentirsi non umani, reietti, rifiuti.

Non si può perdere tempo

Per loro dobbiamo pensare a interventi urgenti adesso, durante e dopo la guerra, per aiutarli a tollerare, integrare, elaborare il loro dolore invisibile. Per recuperare quello che resta della loro infanzia, del loro diritto di giocare, essere amati, avere fiducia nel mondo e nella possibilità di un futuro.

Non si può perdere tempo, perchè, come abbiamo detto, il trauma sperimentato nell’adesso, dopo verrà incapsulato nel profondo della mente, esso, più o meno latente, potrà essere risvegliato e avere un impatto significativo sulla vita futura di adulti. Persone intrappolate dalle conseguenze negative sulla salute mentale e fisica, minate nelle relazioni interpersonali e il senso di sé.

Perdendo anche solo una labile parvenza di routine che per i bambini è contenimento, stabilità e smarrendo anche il valore della propria identità, potrebbe generarsi ulteriore stress e turbamento.  

Conosciamo dalla letteratura più recente sull’infanzia abusata come nasca nei bambini una visione distorta del mondo. Ciò può portare a credersi responsabili per l’evento traumatico, alimentando sintomi depressivi come colpa, vergogna, bassa autostima e persino idee suicide, ma anche disregolazone emotiva, problemi cognitivi, sentimenti e comportamenti di rabbia.

Lo sviluppo nell’età evolutiva è un processo dinamico e complesso che coinvolge diverse aree di crescita. È un processo influenzato da fattori biologici, ambientali e relazionali.

Un bambino palestinese già nella fase prenatale incontra molti problemi. Le madri malnutrite, impaurite, che non hanno accesso agli ospedali avranno figli partoriti prematuramente, sotto peso, maggiormente vulnerabili anche nello sviluppo fisico, cognitivo ed emotivo. Queste madri senza cibo, non potranno nutrire i loro neonati al seno, aspetto che non è solo legato all’allattamento in sè ma alla compromissione dello stabilirsi della prima fondamentale esperienza relazionale di fiducia e senso di sicurezza.

Anche successivamente alla nascita, la crescita fisica, affettiva, relazionale sarà dominata dalle condizioni ambientali in cui stanno crescendo.

Lo sviluppo emotivo e relazionale in un contesto inadeguato può alterare la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, stabilire relazioni significative con gli altri e comprendere i sentimenti altrui. Limita lo sviluppo delle competenze sociali, le interazioni con i pari e dal momento che la scuola e la comunità in generale hanno un impatto sullo sviluppo del bambino, pensiamo agli effetti nefasti quando queste realtà sono state brutalmente interrotte, compromesse, distrutte. 

Non vogliamo tralasciare l’importanza dei fattori individuali ma, quanto il temperamento, le predisposizioni genetiche saranno influenzate, modificate dalle esperienze individuali in un contesto di guerra, povertà, disintegrazione?

Giotto, La strage degli innocenti, cappella degli Scrovegni

I risutati di uno studio Needs Study: Impact of War in Gaza on Children with Vulnerabilities and Families, condotto dalla Community Training Centre for Crisis Management (CTCCM) di Gaza non lascia dubbi:

il 79% dei bambini di Gaza soffre di incubi

l’87% di loro ha una forte paura;

il 38% riferisce di aver fatto la pipì a letto

il 49% dei genitori assistiti ha dichiarato che le loro figlie/i loro figli credevano che sarebbero morte/i in guerra;

il 96% dei bambini di Gaza ha sentito che la morte era imminente.

In parole povere, ogni singolo bambino di Gaza sente che sta per morire.

https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fpoterealpopolo.org%2Fpalestina-gaza-2025%2F&psig=AOvVaw0-EMZqBFVtJJqBJrWMgQB9&ust=1755427703188000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CAMQjB1qFwoTCLjcytOUj48DFQAAAAAdAAAAABAT

Per tutto questo, diventa fondamentale monitorare lo sviluppo dei bambini allo scopo di individuare precocemente eventuali difficoltà, regressioni a fasi di sviluppo precedenti o ritardi evolutivi. Un intervento tempestivo può fare la differenza nel garantire la salvaguardia o la ripresa di un sano sviluppo. Per fare ciò occorre creare spazi in cui i bambini non siano lasciati a se stessi ma possano riprendere almeno una parvenza di vita normale. Diventa urgente l’aiuto immediato ma anche duraturo nel tempo per creare un senso di comunità dove ci sia la possibilità di essere al riparo per salvarsi la vita, di giocare, di esprimersi.

Sono già in azione molte ONG che si occupano dell’infanzia e degli adolescenti, (quelle più conosciute Unicef, Save the children) ma anche tutte le altre hanno sempre un’attenzione particolare verso i piccoli non solo per gli aspetti strettamente sanitari.

In sostegno all’infanzia di Gaza, in prima linea c’è anche *Solidarietà/Al-Najdah*

Logo dell’associazione Al-Najdah

Al-Najdah è un’associazione di donne di sinistra. È finanziata dalle associazioni di palestinesi e arabi della diaspora in giro per il mondo.
Opera nel campo dell’educazione, della difesa dei diritti delle donne, la protezione dell’infanzia, con corsi scolastici e un giardino di infanzia per accudire gli or
fani. Un impegno dal basso, senza condizionamenti e con una forte autonomia. Malgrado tutti i danni subiti, l’associazione ha mantenuto i suoi programmi adattandoli alle nuove situazioni, secondo le potenzialità e disponibilità, partendo dalla realtà della guerra entro la quale i bisogni sono aumentati a causa del genocidio in corso.

Tra le iniziative realizzate vi è la distribuzione dell’acqua potabile tramite un autobotte regalata da un’associazione di sostegno di palestinesi negli USA.Un altro servizio è la fornitura di pasti caldi alle famiglie di sfollati. Recentemente sono state ricostruite le sedi e la strutture operative in tende e capannoni di listelli di legno e plastica. Ma oltre la salvezza del corpo si lavora anche per la salvaguardia della salute mentale. Le Sedi e le strutture stanno lavorando per corsi, laboratori, lezioni, spazi di produzione di manufatti di cucitura e ricami e soprattutto sale gioco per bambini. Attività che occupano centinaia di volontari.

L’ associazione ha dato il via anche ad un progetto di adozione a distanza di bambini e bambine di Gaza.

La campagna Al-Najdah si chiama “Ore Felici per i Bambini di Gaza” tutte le informazioni al link https://www.anbamed.it/2025/03/03/al-najdah-soccorso-sociale-malgrado-le-ferite-in-sostegno-dellinfanzia-a-gaza/

Per essere realisti bisogna riflettere e agire affinché non sia negato il diritto all’infanzia, alla socializzazione, al gioco e all’educazione, non sia danneggiato lo sviluppo e, nel lungo periodo, non sia compromesso il futuro stesso di bambini e adolescenti e quello delle società in cui vivranno, sia in tempi di pace che di guerra”
[
Maurizio Bonati, Il cronico trauma della guerra, Il Pensiero scientifco editore, 2024]

girotondo dei bimbi palestinesi

In copertina: Trauma-e-ptsd-corso-psicologia-gratuito-istituto-beck

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Giovanna Tonioli

Giovanna Tonioli da molto tempo si occupa di Dipendenze Patologiche nel servizio pubblico. A lungo, come educatrice, ha pensato di fare uno dei mestieri più belli perchè coraggioso, avventuroso, “stupefacente” come le storie delle persone. Il battesimo lo deve a Marco Cavallo e, sull’onda del pensiero della Psichiatria Democratica, le piace abbattere le porte chiuse e lottare contro tutte le forme di stigma; è testimone delle più svariate umanità. Si è laureata in Psicologia clinica, si è specializzata presso l’Istituto di Psicoterapia Espressiva di Bologna ed è socia di Art Therapy italiana. Lavora a Ferrara. L’incontro con l’arte terapia è stata una svolta importante sia personale che professionale – ma Marco Cavallo lo sapeva già – e così come libero professionista svolge l’attività di Psicoterapeuta Espressiva, dove l’arte, la creatività e l’estetica si sposano con la psicoanalisi, le neuroscienze, la mente con il cuore delle persone. Una terra di mezzo, uno spazio transizionale in cui le parole possono incontrarsi con tutte le forme espressive, il rigore con la curiosità e il gioco, la disciplina con l’immaginazione. Giovanna è anche un mezzo (e sottolinea “mezzo”) soprano, una sfocata fotografa, un’artista naif. Vive in provincia di Ferrara, precisamente alla Cuccia, una piccola casa in uno sperduto borgo di campagna, con i suoi cani che nel tempo si avvicendano, ma che, sempre, sono a loro modo grandi maestri di vita.

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