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Giorno: 18 Giugno 2021

La “Transizione” ecologica non basta:
dobbiamo trasformare e reinventare un mondo ecologico

 

Sentire parlare dei progetti per la transizione ecologica mi lascia perplessa tanto quanto parlare della decrescita felice di Latouche e di Mercalli che sono, secondo me, due facce di un unico modello di organizzazione sociale che non pone al centro l’essere umano né come valore né come motivo dello sviluppo in quanto basate comunque sul mercato.
Sia la transizione ecologica sia la decrescita felice rimandano solo l’esaurimento delle risorse, non portano a una trasformazione di un modo di concepire la vita di un essere umano che si assume il compito di prendersi cura dell’ambiente e la responsabilità di renderlo un luogo dove la vita, pur nella sua complessità e difficoltà, prende gusto e bellezza.

Il concetto di ecologia non significa limitarsi ad un cambiamento superficiale o immediato, ma vuol dire acquisire la dimensione della complessità nella quale ogni elemento della realtà concorre allo sviluppo qualitativo di ogni altra parte.
Di conseguenza, acquisire la dimensione ecologica vuol dire riconoscere gli esseri umani come soggetti che vivono la vita come tempo per realizzare i propri sogni, e l’ambiente come spazio piacevole da condividere con coloro con i quali si trovano a vivere. Quindi, ogni attività umana dovrebbe essere finalizzata all’obiettivo di individuare e supportare la globalità delle strutture passando per la scuola, la ricerca, la conoscenza. E non limitandosi alla soddisfazione dei bisogni primari che risolvono la sopravvivenza ma non il futuro.

È assolutamente necessario ridurre lo spreco cambiando il modello di sviluppo in direzione del miglioramento della qualità della vita. Oggi, con le nuove tecnologie a disposizione, si potrebbero progettare fabbriche che garantiscano una produzione di oggetti in maniera flessibile e pianificabile, soprattutto se i prodotti sono di buona qualità e di durata almeno trentennale, perché il riciclo dei materiali non basta. Perché questo avvenga sarebbe necessario studiare una politica industriale creativa e davvero rivoluzionaria che prenda in considerazione l’uso delle risorse nel rispetto della terra, senza perdere di vista la salvaguardia del lavoro, che rimane un diritto inalienabile per tutti.

Cambiare i motori a scoppio con motori elettrici non è una trasformazione ecologica, ma solo uno specchio per le allodole, perché ciò che non si produce di scarto per il funzionamento della macchina, si produrrà nello smaltimento delle batterie o per la produzione dell’energia elettrica. Si continuerà comunque a produrre milioni di macchine che avranno bisogno di innumerevoli risorse per tutto il loro ciclo di vita.
Dovremmo usare la nostra fantasia per creare ciò che serve all’essere umano per vivere una vita qualitativamente degna e non, piuttosto, consumare per produrre per mantenere attive le industrie.

Oggi siamo ridotti a essere un ingranaggio di un sistema che noi stessi abbiamo creato, nel quale il lavoro umano deve costare il meno possibile, perché lo scopo non è la qualità della vita ma il ritorno finanziario. Inoltre, il nostro adeguamento al consumo rende impossibile qualsiasi condivisione se non una realtà disumanizzata e abitudinaria.
Questi due anni di pandemia hanno messo in evidenza quanto poco sappiamo del corpo umano, della natura, di noi stessi e di quanto ci circonda.  Se vogliamo cambiare veramente dobbiamo innanzitutto metterci in un atteggiamento di ascolto, di conoscenza, di ricerca, tenendo sempre presente le cose che in questi due anni ci sono mancate: la relazione con gli altri e con l’ambiente e la dimensione della libertà. Questi elementi faticosamente conquistati nel corso della storia, li abbiamo dispersi e vanificati come valori superflui negli ultimi trent’anni, mettendo al loro posto il consumo veloce delle emozioni e delle cose, come un necessario motore di una produzione che non trasforma niente in bellezza, ma che produce solo scarti e spazzatura.

Quando, agli inizi del primo lockdwon, abbiamo spalancato le finestre sulle strade deserte, ci siamo ricordati di quanto fosse bello stare insieme, stringersi le mani, prendere un caffè scambiando due chiacchere. Tutti abbiamo sperato che il dopo covid sarebbe stato diverso, abbiamo condiviso il piacere di vedere la natura tornare ad abitare in mezzo a noi. Abbiamo constatato che la natura è pronta a sostenere un nostro cambiamento di rotta se decidiamo di prendere la strada del rispetto, dell’utilizzo delle risorse e non dello spreco. Ma, finita l’emergenza, ce ne siamo prontamente dimenticati, travolti dalla necessità di tornare alla vita di prima, come se questa fosse stata di nostro gradimento e soddisfazione.
Per fare un passo avanti, e in questi mesi di chiusura ce ne siamo resi conto, dobbiamo trasformare l’intero il sistema educativo, formativo e informativo nell’intento di acquisire consapevolezza che il valore è l’essere umano e il suo ambiente nelle sue relazioni, mentre adesso è tutto fondato sulla competizione, sull’individuare l’errore, sul considerare l’altro come nemico.

L ‘accelerazione della ricerca sui vaccini di questo ultimo anno o poco più e la loro produzione in tempi inediti ha dimostrato che la condivisione della conoscenza, insieme all’obiettivo condiviso può accelerare il raggiungimento dei risultati. Perché non assumiamo questo modello, diffondendo la necessità di rendere attiva la Carta dei Diritti Umani che in pochissime realtà sono democraticamente esercitati? Sarebbe tempo di investire perché questi non rimangano solo enunciazioni su carta, ma siano pratica universale e corrente di tutte le società umane. In questo modo cadrebbero diffidenze e resistenze tra i diversi stati. Perché questo non avviene?  Forse perché le mafie, il mercato delle armi e della droga ne patirebbero?

Dovremmo investire il massimo delle risorse per la ricerca di base, perché la società deve cambiare e per questo cambiamento  è necessario investire in cultura, in strutture che possano supportare questo cambiamento di priorità di rapporti sia nell’organizzazione delle relazioni sociali sia del lavoro che diventerebbe finalmente ciò che dovrebbe essere: non solo sostentamento e necessità ma l’espressione della creatività di ciascuno nella costruzione di una realtà sempre più accogliente e sempre meno monotona.

La storia dimostra che se noi costruiamo accoglienza e bellezza, questo rimane per molte generazioni e migliora con il passare del tempo perché innesca un meccanismo di creatività positiva in chi ne gode. Dobbiamo dare un linguaggio a questa consapevolezza affinché si riconoscano queste azioni come valore, e perché ciò avvenga dobbiamo investire tutto ciò che possiamo nel creare occasioni formative e di scambio.

Dunque, c’è molto da trasformare e reinventare per costruire un mondo ecologico perché questo vuol dire proprio armonia fra le parti e gusto dell’incontro con l’altro. Il problema del futuro non sarà quindi la mancanza di lavoro, sarà piuttosto la difficoltà di rispondere a tanti interrogativi, di metterci alla prova nella nostra capacità di accoglienza dell’altro tanto da riuscire ad integrarci per risolvere le problematiche che via via ci si presenteranno.
Quando il mondo politico troverà il coraggio di riprendersi il suo spazio legittimo di lungimirante progettualità per una società migliore, più giusta e più democratica? Quando le università torneranno a essere i luoghi di una ricerca che investe sulla curiosità e sull’entusiasmo per la trasformazione del mondo? Diamo valore a queste doti che i giovani, se riconosciuti e supportati, hanno naturalmente.

CONTRO VERSO
Il marito afflitto

 

Il marito afflitto

Ci scherzo, ma è vita vissuta. Un uomo convocato al tribunale per i minorenni per rispondere delle violenze sulla moglie, che colpivano anche i bambini, mi spiegò che la colpa era di lei: ostinata, invece di fargli trovare il fiasco di vino sprecava i soldi per pagare le bollette.

Mi sento afflitto.
Come, paghi l’affitto
e non mi paghi il vino?
Ah, me tapino!

Compri i libri ai bambini
e per i miei bianchini
non resta niente?
Ora ti spacco un dente!

Paghi la luce
e io che sono il duce
ti dovrei ringraziare?
Mi potessero cecare!

Paghi anche il gas
e se ti rompo il nas
vai alla polizia?
Ma tu sei roba mia!

Calco il concetto,
voglio portarti a letto
e hai mal di testa:
ora ti faccio la festa.

Sono sincero,
se mi rifiuti davvero
io non ho fretta.
Ma tiro fuori l’accetta.

La violenza sulle donne è una forma di maltrattamento che riguarda i bambini, quando ce ne sono, e spesso è associata all’alcol o ad altre forme di alterazione – droghe, ad esempio – sebbene non creda sia tutta colpa delle sostanze. 
La risposta che il padre ha dato in udienza, l’ha data da sobrio.
Contrastare la violenza è anche insinuare il dubbio su quel tipo di giustificazione.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Alessandro Corazza: “L’ùltim śmèrgul”

 

Il progresso che avanza, l’avvento della meccanizzazione agricola, l’acquisto del trattore, i debiti…
L’autore tratteggia simbolicamente il cambiamento sociale della campagna con l’immagine delle mucche, ormai inutili, che caricate sul camion lasciano la stalla, assieme ai vitellini, con un ultimo lamento.
Sono usati nel testo termini desueti ma efficaci.
(Ciarìn)

L’ùltim śmèrgul

Int la prima pòsta dla stala dal “Visdòm”,
la Biśa e la Biónda, cumè donn,
ll latàva i so fió, nat su la pàja
custudìda coη cura int la purdgàja.
Uη léch, na scuazà, fòrsi uη baśìn,
ill mustràva l’amór pr’i so biśìn.
Drit, impalà, col didulón int al gilè,
al marcànt al li squadra par da dré:
“Ill jè dó bèli bèsti, ma purtròp…
ill bèsti…
al dì d’iηquó ill jè sémpr ad tròp!”
Źanón al tira fòrt uη graη suspìr:
“Ill jè igl’ùltmi dó dal nòstar tir.
Ill val, ill val tant òr, tant quant ill péśa…!
S’aη fus parché eη fat na bèla spéśa..!”
Dó ciàcar fati avśìn al mandariòl
e ill bèsti ill jè vaηzà sól int ill fòl.
Al càmioη l’è rivà li vérs ill dó,
l’à cargà su ill màdar coi so fió.
Tra ill stargarlìη sćiaηźà dla spónda vécia
as intravdéva ‘l muś coη la murdécia.
Dal buś, ach jéra un po’ più iη su,
a spuntàva un oć négar e blu.
La Biśa la zarcàva l’aria fina…
l’udór dal fén e dl’erba dla pradìna,
ad védr iηcóra l’ombra di filàr,
la fadiga dal pió e dal carźàr…!
Cargà sul càmion e ligà cò pié
dla Bionda as a vdéva sól al dadré.
Coη la ruźa dal càmion è śvanì
l’ùltim śmèrgul struzà e argaì.

L’ultimo muggito (traduzione dell’autore)
Nella prima posta della stalla del “Vis Domini”, / la Bisa e la Bionda, come donne, / allattavano i loro figli, nati sulla paglia / custodita con cura nella porticaglia. / Una leccata, una scodinzolata, forse un bacino, / mostravano l’amore per i loro vitellini. / Dritto, impalato, col pollice infilato nel gilè, / il mercante le squadra dal di dietro: / “Sono due belle mucche, ma purtroppo… / le mucche… / al giorno d’oggi, sono sempre di troppo!” / Giovannone tira forte un gran sospiro: / “Sono le ultime due del nostro tiro. (1) / Valgono, valgono tanto oro quanto pesano…! / Se non fosse perché abbiamo fatto una grossa spesa!” / Due chiacchiere fatte vicino al mandriolo (2) / e le mucche sono rimaste solo nelle favole. / Il camion è arrivato verso le due, / ha caricato le madri con i loro figli. / Tra le stecche scheggiate della vecchia sponda, / s’intravvedeva il muso con la mordacchia. / Dal buco, che era un po’ più in su, / spuntava un occhio nero e blù. / La Biśa cercava l’aria fine… / l’odore del fieno e dell’erba del prato di casa, / di vedere ancora l’ombra dei filari, / la fatica dell’aratro e del carreggiare…! / Caricate sul camion e legate all’incontrario, / della Bionda si vedeva solo il posteriore. / Con il rumore del camion è svanito, / l’ultimo muggito strozzato e rauco.

(1) Traino di buoi. (2) Recinto per vitellini.

Tratto da:
Alessandro Corazza, Sbarlum dla ment : barlumi della mente, Portomaggiore, Edizioni Arstudio C, 2011

Alessandro Corazza (Portomaggiore 1932)
Insegnante nella scuola primaria e nella secondaria. Impegnato da sempre nel volontariato. Ha pubblicato poesie giocose in Palio in maschera (1994). Studioso del territorio ha dato alle stampe La persistenza della memoria : censimento dei monumenti, cippi, lapidi, targhe e vie di interesse storico nel comune di Portomaggiore (2011) oltre a Fra… cronaca, storia, situazioni, fantasia, passato, narrazione, avvenimenti, racconto, accadimenti, invenzione… del mio paese (2017).

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Azienda Concato – foto di Marco Chiarini, 2021

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
Le pene di tre guerre (IX Parte)

Gli eremiti cristiani che fra il III e il IV secolo d.C. popolarono le grotte del deserto egiziano lo trovarono accogliente e favorevole alla longevità: il grande abate Antonio vi visse fino a 105 anni, otto in meno di Paolo di Tebe, che negli ultimi 60 anni si cibò solo del tozzo di pane che un corvo gli portava ogni giorno. Antonio sosteneva che “chi vive in solitudine sfugge alle pene di tre guerre: quella di ascoltare, quella di parlare e quella di vedere”.

Come un libro da sfogliare percorrendolo e da leggere calpestandolo, stando ben attenti a dove posare i piedi, in nessun altro luogo come nel deserto la superficie è il mondo, e sulla superficie del deserto libico egiziano è possibile studiare la storia del nostro passato imperialista e colonialista.

Molti popoli indigeni latinoamericani credono che il petrolio sia il sangue della terra. Chissà perché è a questo che sto pensando mentre percorro l’assolata e rettilinea strada che dal Cairo conduce ad Alessandria, affiancando per lunghi tratti il corso del Nilo.
Il contesto delle campagne nazionali promosse dal governo egiziano per contrastare l’avanzata del deserto che hanno offerto gratuitamente la terra a chi fosse intenzionato a coltivarla, qui evidenzia se stesso: alla mia destra, accanto alla riva del fiume, si susseguono frutteti e vivai; alla mia sinistra, a ridosso del ciglio della strada, incombe l’immensa aridità del deserto.

La strada davanti a me improvvisamente si perde in una superficie liquida e ho l’impressione di viaggiare in mezzo a una grande laguna, interrotta qua e là da qualche isola. L’illusione dell’acqua è così realistica che trarrebbe in inganno chiunque: mano a mano che proseguo si allontana e l’effetto visivo è quello di una marea che velocemente si ritira al mio avanzare.
Mi sono fermato per sgranchirmi le gambe, nell’aprire la portiera ho capito che l’aria condizionata dell’automobile è un vano concetto teorico e mentre cammino sotto un sole accecante, sento che la suola delle scarpe sprofonda e si appiccica su una crosta granulosa cosparsa di cristalli bianchi e conchiglie fossili.
Dopo pochi passi mi arresto e compio un giro completo su me stesso: la macchina sembra già lontana, la strada mai esistita, tutt’attorno a me nessun’altra presenza mentre vengo investito da una folata di un vento talmente caldo che sembra quello che è uscito poco fa dal cofano, appena l’ho aperto per tentare inutilmente di raffreddare il motore.

Paolo Caccia Dominioni: l’ultima battaglia del Samaritano del deserto

Ho raggiunto la depressione di Quattara, una regione sterile e salata che è diventata un deserto migliaia di anni fa, quando le acque del mare, lasciandosi dietro una spiaggia desolata, si sono lentamente ritirate più in là, proprio come hanno fatto le fate morgane che mi hanno accompagnato sin qui.
La depressione di Qattara costituisce il secondo punto più basso dell’Africa e occupa una regione del Deserto Libico dell’Egitto nordoccidentale che si estende per circa 18.000 km2. Circa un terzo della sua superficie è ricoperta da saline che ogni tanto si riempiono d’acqua e si presenta come un mosaico di oasi selvagge e disabitate disseminate tra laghi, boschetti, paludi e canneti.
Nella discesa verso il punto più basso, -133mt. al di sotto del livello del mare, attraverso il Passo del Cammello, si raggiunge la maggiore oasi nella depressione, quella di Moghra.
Frequentata da nomadi beduini in transito con le loro greggi solo come punto di sosta nei periodi di estrema siccità, sorge attorno a un lago permanente, le cui propaggini offrono alla vista una palude di alti e folti canneti cui succedono boschetti di palme e acacie.
Il sale, come molte altre cose nel deserto, giace al suolo, ed è solo da raccogliere, ma le saline possono essere pericolose perché la coltre superficiale può nascondere sabbie mobili non visibili in grado di sommergere persone, animali e automezzi.

Carri dell'Ariete ai margini della depressione di El Quattara
Carri dell’Ariete ai margini della depressione di El Quattara

Nella depressione di Quattara vi sono molte insidie di tal genere che durante la seconda guerra mondiale furono utilizzate come barriere strategiche invalicabili per la maggioranza dei veicoli militari e dei carri armati.
Le alte scogliere che la circondano e che con le loro scarpate rendono la depressione ancor più impraticabile, sono profondamente incise da trincee scavate nella roccia ed è qui, in un territorio di 3.500 chilometri quadrati, tuttora contaminato dalle mine e dagli ordigni inesplosi, che si è svolta la pietosa opera che ha portato alla costruzione del Sacrario Militare Italiano di El Alamein che comprende una Corte d’Onore, un Museo Storico e una piccola moschea con i resti di 232 caduti libici.

Per la costruzione del cimitero inglese, lunghe file di tombe tutte uguali scavate in terra ognuna con la propria lapide, vennero impiegati anche quarantesette prigionieri italiani, detenuti nel campo n.308 di Alessandria.
Al termine di quell’opera, durata quasi tre anni e iniziata immediatamente dopo la fine del conflitto, furono però solo in quarantaquattro a tornare dopo essersi guadagnati la libertà: tre di loro erano saltati sulle mine.

In occasione delle celebrazioni del cinquantenario della Battaglia di El Alamein occorse il 24 Ottobre 1992, venne posta questa lapide dal Commissario Generale per i Caduti di Guerra Italiani:

ALLA MEMORIA
DEL COLONNELLO DEL GENIO ALPINO
PAOLO CACCIA DOMINIONI
CONTE DI SILLAVENGO
NERVIANO (MI) 14 MAGGIO 1896
ROMA 12 AGOSTO 1992
GIA’ COMANDANTE DEL 31° BATTAGLIONE
GUASTATORI DEL GENIO
NELLE BATTAGLIE DI EL ALAMEIN,
VISSE QUI PER DODICI ANNI
ALLA RICERCA DEI CADUTI SPARSI
TRA LE SABBIE DEL DESERTO,
A MOLTI DIEDE UN NOME,
PER TUTTI PROGETTO’
E COSTRUI’ QUESTO SACRARIO
A TRAMANDARNE LE GESTA
A COLORO CHE SEGUIRANNO
INGEGNERE, ARCHITETTO,
SCRITTORE ED ARTISTA,
PIU’ VOLTE DECORATO AL V.M.
LASCIO’ MIRABILE TRACCIA DI SE’
IN OGNI SUA OPERA,
LA PATRIA LO ANNOVERA
FRA GLI UOMINI MIGLIORI
CHE L’HANNO SERVITA IN UNIFORME,
E GLI PORTERA’ PERENNE GRATITUDINE
INDICANDONE L’ESEMPIO
ALLE GENERAZIONI DI DOMANI.
IL SUO SPIRITO E’ QUI CON QUELLO
DEI SUOI ANTICHI COMPAGNI D’ARME,
AD ONORARE PER L’ETERNITA’
IL NOME D’ITALIA

Paolo Caccia Dominioni appartenne ad una straordinaria tipologia di guerrieri, fino a divenirne un raro simbolo. Nel corso della Prima Guerra Mondiale combatté prima tra i ‘volontari ciclisti’ poi come ufficiale del genio pontieri e infine in un reparto di lanciafiamme.
Trasferito a Tripoli, fu congedato nel 1920, si laureò in ingegneria in Italia e visse al Cairo. Data la sua conoscenza delle regioni nordafricane, nel 1930 fu richiamato nel corpo dei meharisti per effettuare esplorazioni e missioni in Libia.
Nel 1935 combatté nella Guerra d’Etiopia; dal 1942 la Seconda Guerra Mondiale.
Come Maggiore gli fu assegnato il comando del 30° Battaglione Guastatori Alpini, ma a El Alamein combatté a capo del 31esimo, che venne annientato.
Fu ferito e rimpatriato.
Un anno dopo ricostituì il 31° Battaglione dei Guastatori Alpini, erede dei reparti andati distrutti.
L’8 settembre 1945, giorno dell’armistizio, disertò, si unì alla Resistenza e venne condannato a morte per tradimento, ma si salvò e tornò in Egitto.

Esumazioni, disegno di Paolo Caccia Dominioni
Esumazioni, disegno di Paolo Caccia Dominioni

Qui, dal 1948 al 1962, si dedicò ininterrottamente alla ricerca delle salme insepolte dei caduti a El Alamein, percorrendo 30.000 chilometri nel corso di 355 ricognizioni che lo portarono a recuperare, riconoscere e raccogliere, ad uno ad uno, i resti dei suoi commilitoni e a creare il sacrario italiano con pochi finanziamenti pubblici, qualche aiuto e tanto lavoro volontario.
Guerriero fino in fondo: dopo aver combattuto in tante battaglie vinse la sua personale guerra contro il pericolo di dimenticare un immane sacrificio.

cimitero di guerra provvisorio El Alamein
Cimitero di guerra provvisorio El Alamein

 

Si guadagnò tre medaglie al valore militare e una Croce di Guerra, ma Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, il Sandgrafil Conte della Sabbia – come lo avevano soprannominato i generali tedeschi, verrà soprattutto ricordato come il ‘samaritano del deserto’, per la sua pietosa opera di infaticabile becchino in uno dei più grandi ed emblematici cimiteri e monumenti di guerra coloniale presenti sulla faccia della terra.

In copertina: disegno di Paolo Caccia Dominioni

Leggi la Prima Parte del reportage storico [Qui],

la II [Qui],

la III [Qui],

la IV [Qui],

la V [Qui],

la VI [Qui]

la VII [Qui]

la VIII [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Problemi ambientali, soluzioni sociali:
un dossier per agire

da: Pressenza – redazione Italia

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università Autonoma di Barcellona, e che ha per titolo “Problemi ambientali, scelte sociali”.

Siamo abituati a pensare che la questione climatica e più in generale quella ambientale richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro. Per cominciare la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa a livello mondiale, L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione Europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero  è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.  Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi. Ma  contemporaneamente mancano di servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e di trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. Ed arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.  Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la propria vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata ed utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto ad una famiglia costretta ad utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno,  è  fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica,   tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a  ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale. Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco, coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni  eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni  e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro Nuovo Modello di Sviluppo

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OIM e UNHCR condannano il respingimento di migranti e rifugiati in Libia

da: UNHCR, 17.06.2021

L’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, confermano che oltre 270 migranti e rifugiati sono stati consegnati alla Guardia Costiera libica dalla nave “Vos Triton”, battente bandiera di Gibilterra.

La “Vos Triton” aveva soccorso i migranti e rifugiati in acque internazionali lo scorso lunedì, 14 giugno. Il 15 giugno la Guardia Costiera libica li ha riportati indietro nel porto di Tripoli, dove sono stati mandati in detenzione dalle autorità locali.

OIM e UNHCR ribadiscono che nessuno dovrebbe essere riportato in Libia dopo essere stato salvato in mare. Secondo il Diritto Marittimo internazionale, le persone salvate devono essere fatte sbarcare in un porto sicuro.

Il personale dell’OIM e dell’UNHCR è presente in Libia per fornire assistenza umanitaria salvavita. Tuttavia, le due organizzazioni ribadiscono che mancano le condizioni di base per garantire la sicurezza e la protezione dei migranti e dei rifugiati soccorsi dopo lo sbarco; pertanto, la Libia non può essere considerata un porto sicuro.

In assenza di meccanismi di sbarco prevedibili, chi opera soccorsi in mare non dovrebbe essere obbligato a riportare rifugiati e migranti in luoghi non sicuri.

La Guardia Costiera libica ha riportato più di 13.000 persone in Libia quest’anno, un numero che ha già superato il totale di tutti i migranti e rifugiati intercettati in mare e riportati indietro nel corso dell’intero 2020. Altre centinaia di persone sono morti in mare.

Le continue partenze dalla Libia evidenziano come sia necessario istituire un meccanismo prevedibile di sbarco lungo la rotta del Mediterraneo centrale, con effetto immediato e nel pieno rispetto dei principi e degli standard internazionali sui diritti umani.

I migranti e i rifugiati riportati in Libia spesso si ritrovano in condizioni inumane e possono essere esposti ad abusi ed estorsioni. Altri scompaiono e sono irreperibili e si teme che alcuni possano essere stati incanalati in reti di traffico di esseri umani.

Le organizzazioni chiedono anche la fine della detenzione arbitraria in Libia, attraverso l’istituzione di un processo di revisione giudiziaria, e sostengono la necessità di trovare alternative alla detenzione e di rimettere immediatamente in libertà i più vulnerabili.