Skip to main content

Giorno: 24 Ottobre 2020

Regione: Coronavirus. L’aggiornamento al 24 ottobre: Regione: Coronavirus. L’aggiornamento al 24 ottobre: ancora record di tamponi, 17.612. I nuovi positivi sono 1.180, di cui 619 asintomatici

Coronavirus. L’aggiornamento: ancora record di tamponi, 17.612. I nuovi positivi sono 1.180, di cui 619 asintomatici da screening regionali e attività di contact tracing. 238 le persone già in isolamento al momento del tampone

Effettuati anche 2.256 test sierologici. Oltre il 94% dei casi attivi con sintomi lievi in isolamento a casa. Dieci nuovi decessi

Bologna – Dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus, in Emilia-Romagna si sono registrati 45.542 casi di positività, 1.180 in più rispetto a ieri, su un totale di 17.612 tamponi eseguiti nelle ultime 24 ore.

Dei nuovi positivi, sono 619 gli asintomatici individuati nell’ambito delle attività di contact tracing e screening regionali.

Prosegue l’attività di controllo e prevenzione: complessivamente 238 persone (tra i nuovi positivi) erano già in isolamento al momento dell’esecuzione del tampone e 250 sono state individuate nell’ambito di focolai già noti.

L’età media dei nuovi positivi di oggi è 43,8 anni.

Sui 619 asintomatici, 214 sono stati individuati grazie all’attività di contact tracing, 24 attraverso i test per le categorie a rischio introdotti dalla Regione, 5 per screening sierologico, 9 con i test pre-ricovero. Per 367 casi è ancora in corso l’indagine epidemiologica.

La provincia con più contagi è quella di Bologna (348), a seguire Piacenza (173), Reggio Emilia (160), Modena (123), Rimini (100), Ferrara (60), Ravenna (54), Parma (52), il territorio di Forlì (45), quello di Imola (34) e l’area di Cesena (31).

Questi i dati – accertati alle ore 12 di oggi sulla base delle richieste istituzionali – relativi all’andamento dell’epidemia in regione.

tamponi effettuati sono stati 17.612, per un totale di 1.466.807. A questi si aggiungono anche 2.256 test sierologici.

casi attivi, cioè il numero di malati effettivi, a oggi sono 13.642 (1.131 in più di quelli registrati ieri). Di questi, le persone in isolamento a casa, ovvero quelle con sintomi lievi che non richiedono cure ospedaliere o risultano prive di sintomi, sono complessivamente 12.830 (+1.062 rispetto a ieri), il 94,04% dei casi attivi.

Purtroppo, si registrano 10 nuovi decessi: 4 nella provincia di Modena (tre donne di 95, 92 e 87 anni e un uomo di 82), 2 in quella di Ferrara (una donna di 87 anni e un uomo di 86), 2 in quella di Reggio Emilia (una donna di 90 anni e un uomo di 78), 1 in quella di Parma (un uomo di 80 anni) e 1 in quella di Bologna (un uomo di 84 anni).

Sono 3 i nuovi pazienti in terapia intensiva, che diventano 89 in tutto il territorio regionale, mentre sono 723(+66 da ieri) quelli ricoverati negli altri reparti Covid.

Sul territorio, le 89 persone ricoverate in terapia intensiva sono così distribuite: 6 a Piacenza (-1 rispetto ieri), 8 a Parma (invariatorispetto a ieri), 3 a Reggio Emilia (invariato rispetto a ieri), 9 a Modena (+1 rispetto a ieri ), 39 a Bologna (-1 in più di ieri), 2 a Imola (invariato rispetto a ieri), 5 a Ferrara (1 in più rispetto a ieri), 4 a Ravenna (+2 rispetto a ieri), 4 a Forlì (invariato rispetto a ieri), 2 a Cesena ( invariato rispetto a ieri) e 7 a Rimini (+1 rispetto a ieri).

Le persone complessivamente guarite salgono a 27.343 (+39 rispetto a ieri).

Questi i nuovi casi di positività sul territorio, che si riferiscono non alla provincia di residenza, ma a quella in cui è stata fatta la diagnosi: 6.133 a Piacenza (+173, di cui 61 sintomatici), 5.093 a Parma (+52, di cui 35 sintomatici), 7.059 a Reggio Emilia (+160, di cui 55 sintomatici), 6.231 a Modena (+123, di cui 73 sintomatici), 8.589 a Bologna (+348, di cui 144 sintomatici), 830 casi a Imola (+34, di cui 23 sintomatici), 2.136 a Ferrara (+60, di cui 27 sintomatici); 2.313 a Ravenna (+54, di cui 33 sintomatici), 1.993 a Forlì (+45, di cui 34 sintomatici), 1.505 a Cesena (+31, di cui 21 sintomatici) e 3.660 a Rimini (+100, di cui 55 sintomatici)./CL

Teatro Comunale: nuovi orari biglietteria a partire dal 26 ottobre

da: Ufficio stampa Teatro Comunale

Al fine di evitare il rischio di assembramento in ottemperanza alle norme di sicurezza per l’emergenza sanitaria, da lunedì 26 ottobre la biglietteria del Teatro Comunale di Ferrara seguirà i seguenti orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 10 alle 12, solo per prenotazioni telefoniche con pagamento immediato tramite carta di credito; dalle ore 16 alle 19.30 apertura al pubblico (senza prenotazioni telefoniche). Sabato dalle ore 10 alle 12 e dalle 16 alle 19.30 apertura al pubblico (no prenotazioni telefoniche). Domenica e festivi chiuso.
Nei giorni di spettacolo, la biglietteria chiuderà alle ore 19.30.  Il ritiro e l’acquisto dei biglietti sarà possibile quindi solo ed esclusivamente fino alle 19.30 di ogni giorno (ad esclusione della domenica).

Acquisto on line sempre attivo al sito www.teatrocomunaleferrara.it.

La scelta di modificare gli orari e le modalità di acquisto è dettata dalla volontà di evitare il rischio di assembramento in ottemperanza alle norme di sicurezza per l’emergenza sanitaria.

Cinema Boldini LITTLE JOE – lunedì 26 ottobre

da: Ufficio stampa Arci Ferrara

LITTLE JOE, regia di Jessica Hausner

(Austria, Gran Bretagna, Germania, 2019 – 105′)

Lunedì 26 ottobre alle ore 21.00 il Cinema Boldini proietterà LITTLE JOE di Jessica Hausner, premio a Cannes per la straordinaria protagonista Emily Beecham.

Il film racconta di Alice, madre single e biologa fitogenetista che lavora in una società chiamata Planthouse, dedita allo sviluppo di nuove specie vegetali. Ha creato un fiore molto speciale, di colore rosso vermiglio e notevole non solo per la sua bellezza, ma anche per il suo valore terapeutico. Se viene mantenuta alla temperatura ideale, nutrita in maniera corretta e le si parla regolarmente, la pianta ha il potere di rendere felice il suo proprietario. Infrangendo il regolamento aziendale, Alice porta a casa un esemplare e lo regala al figlio adolescente, Joe. La pianta viene battezzata “Little Joe”, ma, mentre cresce, in Alice nasce il sospetto che la sua creatura non sia così innocua come suggerisce il suo nome e che sia in grado di manipolare la mente umana.

La regista austriaca Jessica Hausner, alla prima esperienza in Concorso a Cannes 2019 dopo aver presentato al Certain Regard i precedenti Lovely Rita, Hotel e Amour fou (mentre con Lourdes era stata in concorso a Venezia), ha girato a Londra una fantasia distopica capace di riflettere la paura contemporanea per la disumanizzazione e la fine dei sentimenti.

Come un film di fantascienza anni ’50, Little Joe costruisce lentamente, in maniera fredda e compassata, una situazione di progressiva paranoia, lasciando la protagonista sempre più sola nel tentativo di impedire la silenziosa mutazione a opera della pianta geneticamente modificata.
Alla sperimentazione originale della trama, si aggiungono altri elementi sperimentali come le riprese e la fotografia vintage, e una colonna sonora minimale realizzata da Teiji Ito negli anni ’40, oggi perfetta nell’atmosfera di metafora universale del film.

INFO:
Da quest’anno sarà possibile acquistare i biglietti online su → 
webtic.it a tariffa intera o unica, mentre alla cassa del cinema sarà possibile come in precedenza usufruire delle riduzioni sul costo d’ingresso esibendo la tessera Arci, il badge universitario o il documento di identità.

La platea ha sedute numerate e i posti vengono assegnati al momento dell’acquisto del biglietto. Il sistema aggiorna ad ogni acquisto la disponibilità dei posti per consentire il distanziamento degli spettatori secondo le norme in vigore. Gli spettatori dovranno tassativamente accomodarsi nei posti assegnati.

Si consiglia, ove possibile, di effettuare l’acquisto attraverso la piattaforma e di esibire il biglietto in versione digitale all’ingresso del cinema.

La scadenza degli abbonamenti della stagione 2019/2020 è stata prorogata al 31/12/2020. Sarà invece possibile acquistare al cinema i nuovi abbonamenti per la stagione 2020/2021 (abbonamenti interi e abbonamenti ridotti per i soci arci).

Per informazioni: www.cinemaboldini.it – www.arciferrara.org
Tel. Cinema (sera) – 0532.247050

BUONI SPESA AD OSTACOLI
Arriva il nuovo bando del Comune di Ferrara

Proviamo a ricapitolare.
Questa primavera, durante la durissima prima emergenza, la vicenda dei Buoni Spesa a Ferrara ha occupato la cronaca dei media locali e sbarcando anche su quelli nazionali. Da subito sono stati criticati i criteri, le modalità, le precedenze, le esclusioni, la non trasparenza con cui Il Comune di Ferrara aveva gestito l’assegnazione dei Buoni. Davanti a una vasta mobilitazione cittadina partita dal basso, la difesa della Giunta è apparsa capziosa, impacciata. Soprattutto non convincente. Da notare tra l’altro che dopo la chiusura dei termini erano avanzati 30.000 Euro e una lunga fila di esclusi.

Si arriva così all’ordinanza del 30 aprile 2020 – confermata anche in sede di reclamo – con la quale il Tribunale di Ferrara ha dichiarato discriminatoria la Delibera del Comune che limitava l’accesso ai Buoni Spesa destinati al sostegno delle famiglie colpite dall’emergenza COVID ai soli stranieri in possesso del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, escludendo quindi i titolari di un permesso ordinario per famiglia o lavoro, i titolari di protezione internazionale, i richiedenti asilo.

La stessa ordinanza  ordina al sindaco Alan Fabbri di “riformulare i criteri e le modalità di assegnazione”, rimuovendo le clausole relative alla durata del permesso di soggiorno e alla residenza e consentendo la presentazione di nuove domande per chi presentava (all’epoca del lockdown) “i requisiti relativi alla condizione di disagio economico e alla domiciliazione nel territorio comunale”.  Il Comune di Ferrara è anche tenuto a pagare le spese legali degli stranieri che avevano fatto ricorso. E veniamo ad oggi .

Il Comune di Ferrara ha dovuto avviare un nuovo bando. Si direbbe però molto di mala voglia

Provare per credere:
Il sito del Comune di Ferrara ha un banner blu in homepage che porta a una pagina dedicata ai Buoni Spesa. Chiunque cliccherebbe quello. Peccato che si arrivi alla pagina del vecchio bando per la distribuzione dei buoni, difatti c’è scritto che la scadenza è il 24 di aprile. https://servizi.comune.fe.it/9568/emergenza-coronavirus-buoni-spesa
Nonostante l’imponente servizio stampa del Comune, nessuno si è preso la briga di cancellarlo.

E il nuovo bando? Per trovarlo nel sito del Comune bisogna impegnarsi parecchio. Invece di metterlo in evidenza e renderlo facilmente raggiungibile, bisogna scorrere tutta la catena dalla homepage. Alla fine ne trovate notizia in un angolino. Ecco il link: https://servizi.comune.fe.it/9693/nuove-domande-buoni-spesa

Tutto a posto? Nemmeno per sogno. Nel nuovo bando si ritrovano alcuni vizi – chiamiamoli errori – del primo. Proprio come in primavera, anche questa volta la richiesta si potrà fare solo telefonicamente, senza possibilità di verificare ufficialmente la propria domanda. Tutti sanno quanti problemi e quante proteste aveva prodotto questa scelta. Eppure il Comune ha deciso di non tenerne conto.
Anche i tempi sono inspiegabilmente strettissimi. Si potrà chiamare solo dal 26 al 30 di ottobre.

SCHEI
Non è un paese per vecchi

Oggi ho accompagnato mio padre ultraottantenne in Posta e in farmacia. Mio padre non è più molto lucido, ma oggi ho avuto la certezza che, anche se lo fosse, sarebbe impazzito lo stesso. Sarebbe impazzito nel tentativo di fare operazioni banali, essenziali, d’ordine e non di concetto. Lo dico perchè sono impazzito io per lui. In Posta dovevamo svincolare una polizza scaduta. Soldi suoi. Era il terzo appuntamento per la stessa operazione. Le prime due volte era andata male, la prima per un documento scaduto da rinnovare, la seconda perchè non trovavamo l’originale di polizza. Oggi avevamo tutto, documento in ordine e originale di polizza. Perfino l’imbarazzata consulente gongolava, felice di poterci accontentare, finchè, verso la fine della procedura telematica, il computer le ha messo un blocco. “La polizza è in stato anomalo”, “non so cosa significhi”, “forse perchè è scaduta”. Ha chiesto assistenza al numero verde – gli impiegati della Posta per risolvere un problema devono fare lo stesso numero dei clienti, quello che ti presenta sei opzioni commerciali e, se riesci a schivarle tutte come in un percorso di guerra, arrivi a poter parlare con un operatore. La conclusione è stata che dobbiamo mandare una raccomandata ad una sede centrale per chiedere lo svincolo, perchè la polizza è “radicata” in un altra sede – alias, mio padre la stipulò in un altro ufficio, del luogo dove allora risiedeva. Dopo la risposta alla nostra raccomandata, dovremo tornare la quarta volta pregando il dio delle scartoffie. Però intanto mio padre firmava sopra un display e non sulla carta, vuoi mettere. Una figata, il progresso tecnologico. Tempo trascorso nel bugigattolo che violava ogni norma sul distanziamento, un’ora e mezza. Mio padre che soffre d’insonnia nel frattempo si era abbioccato, e ridestandosi ha commentato: “Grazie signorina, la prossima volta che non riesco a prendere sonno so cosa fare, vengo in Posta”.

Poi ci siamo avviati verso la farmacia. Dovevamo acquistare un nuovo farmaco per un problema che il geriatra gli aveva diagnosticato. Ci aveva raccomandato, il geriatra, di andare dal medico di famiglia col suo responso perchè è il medico di famiglia che può fare la ricetta per ritirare il farmaco. Ci aveva raccomandato anche, il geriatra, di presentarsi in farmacia, oltre che con la ricetta, anche con il piano terapeutico, così ci avrebbero dato più di una confezione, in modo da coprire almeno i primi due mesi di terapia. Allo sportello, la farmacista ci ha detto, dopo un’affannosa telefonata di conferma dei suoi dubbi, che non poteva darci lei la prima confezione del farmaco, ma che avremmo dovuto recarci alla farmacia ospedaliera. La risposta alla mia domanda di spiegazioni è stata “perchè è la procedura”. Mentre ci recavamo alla farmacia ospedaliera mio padre fantasticava di farsi tagliare l’alluce del piede destro, perchè camminarci sopra gli dava un dolore acuto, e ormai di strada ne avevamo fatta. Allo sportello della farmacia ospedaliera, una giovane farmacista ci ha detto che della ricetta del medico di famiglia non se ne faceva nulla; che poteva darci solo una confezione del farmaco, perchè il geriatra aveva redatto un piano terapeutico mancante di un codicillo essenziale per poter avere il diritto di ritirare almeno due confezioni, e che quindi avremmo dovuto tornare entro un mese alla farmacia ospedaliera per ritirare la seconda confezione, ed andare di nuovo dal geriatra per farci correggere dallo sbadato il piano terapeutico. La giovane farmacista si è prodigata con ardore didascalico nello spiegarci l’assenza di questo codicillo, mostrandoci un facsimile di piano terapeutico corretto, contenente il codicillo. Mi sono sentito di dirle che se due esercenti la professione sanitaria (tra cui uno specialista) non parlavano tra loro la stessa lingua, non poteva pretendere che la parlassi io. Quale, poi? Quella dello specialista o quella della farmacista?

Preciso che nessuna delle persone con cui siamo entrati in contatto si è mostrata maleducata. Tutte hanno ricordato a me come andava compilato il loro compitino, e se il compitino di ciascuno non dialogava con il compitino dell’altro non era un problema loro, era un problema mio e di mio padre.

Il film “Io, Daniel Blake” di Ken Loach racconta di un carpentiere vedovo di 59 anni che ha un infarto, in seguito al quale il medico lo dichiara inabile al lavoro. Il film lo mostra alle prese con la richiesta di disoccupazione, presentabile solo via internet, e con una chiamata per il ricorso dell’indennità per malattia. Daniel si trova senza alcuna fonte di reddito, fra il medico che gli vieta di tornare a lavorare, l’attesa di indennità per malattia in seguito all’infarto e la ricerca di un lavoro per avere il sussidio di disoccupazione. Daniel riceve una telefonata dove viene informato che è stato dichiarato abile al lavoro, e che quindi non ha diritto al sussidio di disoccupazione. Deve però rinunciare a un lavoro per cui aveva lasciato il curriculum, visto il divieto del medico a lavorare. All’ennesimo incontro al Job Center, Daniel decide di dare un ultimatum alla struttura, che gli ha negato il sussidio accusandolo di scarso impegno nel cercare una occupazione, ma che non gli fissa mai una data per il ricorso. Si piazza davanti al palazzo e scrive con la vernice spray sul muro del Job Center “Io, Daniel Blake, esigo una data per il mio ricorso prima di morire di fame”. Così facendo si guadagna la simpatia dei passanti e l’attenzione della stampa, nonchè un ammonimento dalla polizia. Daniel trova un avvocato che decide di assisterlo nel ricorso, che visto come si sono svolti i fatti ha molte probabilità di vincere. Poco prima dell’inizio del processo, Daniel va in bagno ma lì ha un altro infarto e muore.

Le pellicole di Ken Loach hanno questa capacità di farti sentire che non sei lo spettatore di un film, ma colui al quale prima o poi accadrà qualcosa di analogo a quello che è successo a Daniel Blake. Infatti quando una piccola o grande sfiga, o il semplice fatto di invecchiare, ti costringe a prendere contatto con la rete dei servizi alla persona, se sei da solo sei già morto. La peculiare brutalità della burocrazia contemporanea risiede nella capacità di farti impazzire dentro un labirinto creato proprio da quella tecnologia che dovrebbe risolverti i problemi. Come si può pensare che un ottantenne medio possa gestire i propri adempimenti iscrivendosi a piattaforme telematiche, o scaricando una app? Come si può pensare che una persona anziana possa accendere un proprio fascicolo telematico e accedervi attraverso uno username, una password e un otp che gli arriva sul telefonino? Come si può pensare che una persona anziana possa riuscire a dialogare con un numero verde che ti tiene in attesa per ore o che ti consente di parlare con un essere umano solo se riesci a sgattaiolare oltre la miriade di opzioni puramente commerciali che fanno da barriera al servizio di assistenza?

La cronaca personale con la quale ho esordito (e che non ho arricchito, per non annoiare, coi tentativi di truffa legalizzata orditi ai danni degli over ottanta da sicarietti delle forniture che fanno semplicemente il loro sporco lavoro) non ha nulla di particolarmente tragico o anomalo, e proprio in questa normalità risiede la sua ordinaria ferocia. Il nostro non è un paese per giovani, e non è un paese per vecchi.

 

 

PRESTO DI MATTINA
Risonanze

Risonanze di vangelo, parole antiche e sempre nuove, sono per me le poesie di Carlo Betocchi. Il suo è un vangelo vissuto a caro prezzo nel quotidiano; una scrittura incisa nel corpo delle cose, ferita per liberare il soffio d’anima prigioniero in esse. Ma al tempo stesso una scrittura seminata nel tempo ‒ «un passo, un altro passo» ‒ per ritrovare «tracce mutili», frammenti di senso dentro al muto silenzio del quotidiano. Eppure «col suo silenzio/ la mia anima benda le sue ferite./ E crede, infinitamente crede/ al mutamento. E vi scivola/ dentro. Tutto è compiuto/ e tutto è da compire./ Nel mio silenzio» (Tutte le poesie, Milano 1996, 578). Un vangelo compiuto e tutto da compiere ‒ dunque ‒ scevro da compromessi, spoglio da sicurezze, senza difese, né privilegi. Un vangelo al vivo, che rincuora la vita.

Quella di Betocchi è una fede che si consegna in abbandono all’altro che gli viene incontro; scaturita da ferita d’io che guarisce facendosi umiltà d’amore. Solo così ci si può convincere che la stoltezza del vangelo è più sapiente degli uomini e la debolezza del vangelo è più forte della forza degli uomini (1 Cor 1,25): «A me la fede/ non consente che un grido ed una voce:/ è quel poco che so, che sento vero/ dentro di me: ed in quel vero accendo/ l’essere a farsi un uomo che cammina/ solo e con tutti, innanzi a sé pregando» (Ivi, 545).

In particolare, una poesia di Carlo Betocchi mi accompagna da tanti anni, invitandomi all’umiltà d’amore. È un testo generativo di uno stile e di una pratica pastorali, che fanno partire alla ricerca del vangelo celato in qualunque frammento del creato, pure nel sasso, nell’albero, nel fuoco, nella sorgente in un fiato d’aria. Un vangelo tra la gente; un vangelo di vangeli, fuori dai recinti di coloro che si ritengono giusti. Presente pure nelle strade dove tendono agguati i briganti, ma percorse anche dal samaritano della parabola evangelica che, a motivo di quella debolezza forte e di quella stoltezza sapiente che promanano dalla compassione, non passa oltre, restando con l’altro, praticando così lo stesso operare di Dio nel rivelarsi a Mosè: “dì loro che io sono [l’altro], colui che sono accanto, che mi faccio prossimo a voi”.

Eccola: «No, non temere mai nulla da Dio…  Non temere il Signore Dio tuo. Ha detto: “Io sono quello che sono”/ e tu non temere mai nulla: poiché,/ se tu credi, non sarà tua l’esistenza,/ ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,/come tu speri e credi: anzi, gettata/ nelle fosse. Chi crede in Dio/ si appresti ad essere l’ultimo/ dei salvati, ma sulla croce, ed a bere/ tutta l’amarezza dell’abbandono./Poiché Dio è quello che è.
Ma si è già nel Vangelo quando/ non se ne può più uscire:/ e vi si è ancora quando,/ stanati dalle mura della sua Chiesa/ per impossibilità di restarvi,/ allora il Vangelo ci insegue/ come il veltro la preda agognata./ Fra te e la salvezza non/ altre vie che quelle segnate/ dal Vangelo; ma in quelle che vedi/ vanno, fra sciami d’innocenti,/ turbe d’ignavi e d’ipocriti./ E dunque fra te e il Vangelo /non c’è che il nasconderti/ dentro e sotto di lui come gramigna/ nel suolo, a far speco terroso/ in cui si realizza, come si può,/ quel che non esiste che nei fatti:/ qui in terra, e nella carità» (Ivi, 459-461).

Mario Luzi, in un’intervista (Biblia Notiziario 1996), ricordava che quel piccolo demiurgo che è un poeta, quando si accosta al vangelo, lo fa non tanto per la potenza e l’autorità di quella Parola, ma semmai, seguendo la singolarità che gli è propria, quella di smascherare le false parole, di scoperchiare quelle che, come sepolcri imbiancati appaiono all’esterno belle all’udirsi, ma dentro sono parole morte. E tuttavia quelle del poeta sono parole vere perché testimoniano non tanto il Creatore e il Padre nostro che è nei cieli, ma la sua creatura. In tutti i casi, in comune tra loro, la parola del vangelo e quella del poeta hanno l’amore per l’uomo. Talché il poeta, udendo la parola di Dio, ne coglie gli echi profondi e le risonanza che essa tesse con i silenzi degli uomini nel loro umano interrogare. «Il Vangelo – scrive Mario Luzi – è poesia esso stesso, nel senso di poiesis che crea l’esigenza di pensieri, crea pensieri nuovi, esalta l’esistente e l’assente nello stesso tempo. Fa sentire così vivo il mondo, così drammatico».

Ne La poetica dello spazio, Gaston Bachelard, per esprimere gli echi profondi generati nel lettore da un testo poetico, usa una parola francese intrigante: retentissement, da rententir, riempire di un suono forte o di un brusio, come refoli di vento a intervalli costanti in uno spazio che si dilata sempre più. Retentissement deriva dal latino tinnere, tintinnare, risuonare di suoni brevi o allungati, fievoli o rimbombanti; a volte è un bisbigliare da un orecchio all’altro, altre come un’ola nello stadio; un farsi intendere ripetutamente come un’eco, nello stesso perdurare di un’azione come l’andirivieni delle onde nel mare, l’espandersi di odori e profumi o il diffondersi di canti gioiosi, o di lamenti; rumori di officina, pesanti grida o il vagito di un neonato.

Retentissement possiede dunque una ricchezza semantica che non si coglie nella sua traduzione italiana con ‘risonanza’. Teniamo quindi a mente nel leggere quanto osservava al riguardo Bachelard: «Le risonanze si disperdono sui differenti piani della nostra vita nel mondo, il retentissement ci invita ad un approfondimento della nostra esistenza. Nella ‘risonanza’ non facciamo che intendere la poesia, nel retentissement la parliamo, è nostra. Il retentissement opera un cambiamento d’essere: l’essere del poeta sembra diventare il nostro… L’esuberanza è la profonda ricchezza di una poesia sono sempre fenomeni del doppione ‘risonanza-retentissement’: la poesia pare ridestare in noi echi profondi in virtù della sua esuberanza». Questo determina come un risveglio nel lettore, un divenire che lo trasforma: «La immagine che la lettura del poema ci offre, eccola diventare veramente nostra: essa si radica in noi stessi, e, sebbene noi non abbiamo fatto che accoglierla, nasciamo all’impressione che avremmo potuto crearla noi, che avremmo dovuto crearla noi. Essa diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o, in altre parole, essa è al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere», (ivi, 12-13). Così il retentissement costituisce quel fenomeno che fa percepire al lettore ciò che il poeta ha scritto come fosse il proprio dire; lo fa cosciente che in lui abita la capacità linguistica ed espressiva dimorante nel poeta.

Nella traduzione francese della Bibbia ho trovato diverse ricorrenze testuali del nostro termine. In particolare, mi sono soffermato sul Salmo 19, che amplifica e diffonde le risonanze e le voci della creazione che narrano l’opera ‒ poetica anch’essa vien da dire ‒ uscita dalle mani di Dio. Il ritmo è incalzante, crescente, uno sparpagliarsi di suoni. Dai cieli si avvia la narrazione e, come una cascata, risuona sulla terra attraverso il distendersi dei giorni e delle notti, che traghettano nel tempo e lungo la storia quanto hanno udito e ricevuto. Le notizie trasmesse non sono discorsi chiaramente udibili e afferrabili, ma nell’intero spazio terrestre è ‘uscito il loro suono, se ne diffonde la voce’, tanto che fin all’estremità della terra ‘risuona la parola: «Leur retentissement parcourt toute la terre. Leurs accents vont aux extrémités du monde».

In questo ‘passa-parola’ di trasmissione e di recezione della vita, la creazione continua a muoversi, a ricrearsi, come quando in uno stagno d’acqua ferma si gettano sassi, che creano risonanze ondose a forma di cerchi, che vieppiù si espandono ingrandendosi. E incrociando il movimento ondoso provocato dagli altri sassi, essi creano trasformazioni e nuove armonie figurative rispetto alla forma iniziale. I cerchi che vengono così attraversati dalle onde degli altri ne sperimentano le risonanze come fossero le proprie, e forse qui, simbolicamente, ci viene rappresentato il fenomeno ricordato da Gaston Bachelard, che porta il lettore a sentirsi come il poeta, a percepire, almeno un poco, il testo come appartenente anche a lui.

La ricezione di un testo «è la capacità di fare azione, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri, come i cerchi nell’acqua, non è ripetizione ma direi intensità nell’azione con cui anche chi riceve prende parte attiva nel far sua la cosa che riceve» (Luigi Sartori).

Padre Marcello dopo ogni colloquio o confessione diceva sempre a chi aveva di fronte: «avanti, avanti». Il mio congedo è simile: «un altro passo». Espressione che rivolgo spesso anche a me stesso la mattina, o quando sto per iniziare qualcosa di impegnativo o faticoso. Non fu allora solo meraviglia quella volta che, saltando qua e là tra le pagine dell’opera poetica di Carlo Betocchi, trovai il titolo di un testo che corrispondeva esattamente al mio quotidiano dire la speranza: Un passo, un altro passo

Un passo, un altro passo,
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampicando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.”
(ivi, 286).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

IL FESTIVAL DEVE FARE ANCORA UN PASSO:
Internazionale diventi un presidio permanente di informazione diffusa

di Michele Ronchi Stefanati

Circa un anno fa, il 10 ottobre del 2019, sulle colonne del quotidiano La Nuova Ferrara, avevo proposto di fare di Internazionale a Ferrara un presidio permanente di informazione diffusa. Chiesi cioè agli organizzatori di pensare a un cambio di format del festival che, dal 2007, porta a Ferrara giornalisti da tutto il mondo.
Il nuovo format consisteva in una sua estensione nel tempo, certo, ma anche e soprattutto nello spazio: un Internazionale a Ferrara della durata di un anno e con incontri non solo nel centro cittadino ma anche in luoghi periferici, marginali, nei paesi della provincia e nei luoghi di lavori, di cura, di istruzione. Nelle fabbriche, nei bar, nelle scuole, nei negozi, nelle aziende. L’idea era quella di diffondere idee internazionali e informazione di qualità su ciò che accade in Italia e nel mondo, favorire lo scambio tra dimensione locale e internazionale, arrivando anche a chi normalmente è escluso, per mille ragioni, volontariamente o suo malgrado, dalla tre giorni del festival.

Nei giorni successivi alla pubblicazione della proposta, sono state numerose le adesioni a quell’idea, provenienti da Ferrara e dal mondo, sia da semplici amanti del festival che dagli addetti ai lavori, giornaliste/i, attiviste/i, intellettuali, come il linguista Federico Falloppa (Università di Reading), il criminologo Federico Varese (Università di Oxford), lo scrittore Diego Marani, la giornalista del Times Federica De Caria [Cfr La Nuova Ferrara 12/102019]. Poco più tardi, sono arrivate le risposte, positive, delle istituzioni co-organizzatrici, nelle persone dell’assessore alla cultura, Marco Gulinelli, della presidente dell’Arci, Alice Bolognesi e dello stesso direttore della rivista Internazionale, Giovanni De Mauro, che esprimeva interesse per la proposta, pur chiedendo, giustamente, di non sobbarcarsi per intero lo sforzo organizzativo [Cfr La Nuova Ferrara 16/102019]

Va dato merito a Internazionale e a tutti gli organizzatori del Festival per essere riusciti, a solo un anno di distanza, oltretutto in piena pandemia, a realizzare una parte consistente di quella proposta, facendo di Internazionale a Ferrara un festival della durata di un anno [Cfr Huffingtonpost.it 30/09/2020]
Mi dispiace, però, che la parte più decisiva della proposta, quella appunto di costruire un presidio permanente di cultura e informazione diffuso su tutto il territorio, capace di raggiungere tanto le periferie, le zone marginali, i piccoli paesi, quanto i luoghi di lavoro, di cura, di istruzione, sia rimasta, almeno per il momento, inascoltata.

Il 3 ottobre 2020 ero all’incontro introduttivo di questa nuova edizione, la prima di “Internazionale tutto l’anno”. L’incontro si chiamava “Vite che contano”, era al Teatro Comunale, e scrittrici e giornaliste afro-discendenti parlavano del movimento Black Lives Matter e della vita dei neri in Italia. In quell’occasione, ho sentito la scrittrice afro-discendente Espérance Hakuzwimana Ripanti dire che a quell’incontro, in quello splendido teatro, con quelle splendide persone a parlare e a ascoltare, c’era un “problema di accesso”, aggiungendo che “il pubblico è al 99% bianco” e chiedendosi “dove siete tutti? Perché so che ci siete”. Intendeva dire che, mentre tra i relatori erano state giustamente chiamate attiviste, giornaliste e scrittrici nere e un giornalista, accademico e scrittore nero, tra il pubblico i neri erano pochissimi. Eppure in Italia, eppure a Ferrara, i neri ci sono, e sono tanti. Perché non erano lì, in quel momento? Ed è esattamente questo il problema che rimane irrisolto: se il festival continua a essere negli stessi luoghi di sempre (il centro città di una città capoluogo), continuerà a intercettare sempre lo stesso pubblico, quello che ne ha meno bisogno.

Internazionale è, involontariamente, un festival elitario. Il pubblico che partecipa è già in possesso di sufficienti strumenti conoscitivi, è già educato alla complessità grazie al proprio percorso personale, e trova nel festival conferma di idee che ha già, e che lì, in quei tre giorni, può sviluppare ulteriormente, aumentando peraltro il divario con chi quegli strumenti (istruzione di qualità, stimoli familiari, viaggi all’estero), per mille motivi, spesso indipendenti dalla sua volontà, non ha avuto la fortuna di averli.
Chi partecipa in quei tre giorni ha poi la fortuna di non lavorare nel week-end o di fare sfiancanti turni di notte, di avere sostegno nella cura dei figli, se ne ha. Chi partecipa ha dunque la possibilità fare code di ore, se necessario, senza che nella sua vita succeda nulla di irreparabile, ha la fortuna di non avere parenti malati a carico (o di avere qualcuno che se ne prende cura mentre si è assenti), ha la fortuna di non essere ricoverato/a per qualche malattia che gli impedisce di andare a un incontro a cui vorrebbe prendere parte. Il pubblico che partecipa ha probabilmente avuto la fortuna di non essere mai stato definito “clandestino, spacciatore, criminale, bivaccatore seriale” perché ha la fortuna di non avere avuto bisogno, nella sua vita, di fare o essere nessuna di queste cose: ha avuto probabilmente la fortuna di nascere in un paese del nord del mondo, di non essere perseguitato, di avere sempre, o quasi sempre, soldi sufficienti a campare, di avere un letto, una casa, degli amici, una famiglia presente. Chi partecipa ha la fortuna di essere, in larga maggioranza, parte di un gruppo sociale privilegiato. Chi partecipa a Internazionale a Ferrara è, insomma, un’élite.

La proposta era ed è, quindi, di estendere il festival nello spazio e nel tempo, facendolo durare tutto un anno, con appuntamenti settimanali o mensili, sparsi (ma coordinati tra loro da un unico programma e un’unica organizzazione), in luoghi marginali (e non concentrati solo nel centro città del comune capoluogo) e andando poi anche nelle fabbriche, nei negozi, nelle scuole, nei bar, nelle cliniche, nelle aziende di Ferrara e della provincia. Lo scopo è proprio quello di rivolgersi ad un pubblico più ampio possibile, a chi normalmente non ha familiarità con certe idee e notizie provenienti da tutto il mondo, a chi non ha avuto e non ha la possibilità di studiare, viaggiare, fare certi incontri con libri, idee e persone, a chi, senza saperlo, si approccia all’informazione senza spirito critico ed è in completa balìa delle cosiddette fake news.
Lo scopo è di rendere accessibile a tutti l’incontro con persone e idee internazionali che da anni circolano durante il week-end di Internazionale a Ferrara e che per loro natura combattono pregiudizi, disinformazione, ingiustizie sociali, economiche, climatiche e sono un antidoto potentissimo a tutto quel pensiero retrogrado, sciovinista e razzista che oggi trova sempre più largo spazio, a Ferrara, come in Italia e oltre.

Ci sono, chiaramente, dei problemi organizzativi da risolvere, acuiti ora dalle regole di prevenzione del contagio (distanziamento, ingressi limitati, spazi ampi, necessità di arieggiare, mascherine, liquidi igienizzanti, prenotazioni, tracciamento, autodichiarazioni ecc.). Oltre a questo, c’è bisogno di sponsor, e qui gli stessi luoghi dove si svolgeranno gli incontri potranno dare una mano, ma servono più fondi per sostenere un progetto che diventi permanente, e non possono essere solo soldi pubblici. Internazionale è catalizzatore di sponsor che altrimenti un progetto come questo non potrebbe avere, se organizzato solo dalle istituzioni locali. Il ruolo della rivista è dunque fondamentale, anche per la capacità di coinvolgimento di tutti quegli ospiti che vanno a Ferrara proprio perché è il festival di una rivista che ha grande credibilità e autorevolezza e con cui la maggior parte degli ospiti spesso collabora.
Tuttavia, Internazionale non può sobbarcarsi tutta l’organizzazione, serve allora un impegno da parte dell’intera comunità: Comune, Provincia, Regione Emilia Romagna, Arci, Università, associazioni, privati.

Per fare questo, dovrà esserci una forte volontà da parte di tutti noi, di chi ama il festival, la rivista e le idee che circolano in quei giorni e da parte di chi è preposto a lavorare per il bene comune, ovvero le istituzioni. Occorre dunque capire l’importanza che un presidio permanente di informazione diffusa come questo potrebbe avere sul tessuto sociale (ed economico, visto il numero di presenze, anche e soprattutto da fuori) della zona. Il nuovo Internazionale a Ferrara potrà poi fungere da modello nazionale e non solo, per chi volesse imitarlo, come esempio di superamento della cultura effimera dei festival, che hanno spesso il difetto di non lasciare niente sul territorio una volta finiti i pochi giorni di eventi. Internazionale a Ferrara come presidio permanente di informazione diffusa avrebbe, insomma, inevitabili ricadute positive da ogni punto di vista e sarebbe di grande giovamento per tutta la comunità.

L’idea è di costruire una città sempre più colta, aperta al mondo, un territorio intero che combatta quotidianamente disinformazione e pregiudizi e che conservi in modo permanente l’atmosfera, l’apertura mentale, la vivacità intellettuale e l’attivismo dei tre giorni di Internazionale a Ferrara. Una città capace di coinvolgere, come accade dal 2007, giovani da tutta Italia e dal mondo e di attrarre le migliori esperienze intellettuali, artistiche, di giornalismo libero e investigativo (pensiamo a Noam Chomsky, Angela Davis, Virginie Despentes, per citare tre nomi tra i tantissimi ospiti di statura mondiale arrivati a Ferrara in questi 13 anni di festival), ma di farlo tutto l’anno e ovunque, non solo tre giorni l’anno nei luoghi nobili del centro cittadino del comune capoluogo.

L’idea di Internazionale a Ferrara come presidio permanente di informazione diffusa è un’idea che viene dal basso, da tante, tantissime cittadine e cittadini che da anni si dicono, sospirando, “ah, se Ferrara fosse sempre così, com’è nei giorni di Internazionale”. È un’idea che ha avuto subito l’appoggio di intellettuali che insegnano nelle più prestigiose università europee e di tanti partecipanti al Festival. Organizziamolo, dunque, insieme: Comune, Provincia, Regione, Arci, Università, associazioni, privati, volontarie e volontari, in collaborazione con la rivista Internazionale. Un presidio permanente di informazione diffusa è infatti perfettamente in linea con le idee alla base della rivista diretta da Giovanni De Mauro e anche con quelle di un altro grande De Mauro, Tullio, che tanto ci ha insegnato sulla necessità di portare a disposizione di tutti, nessuno escluso, lingua, informazione e cultura, come indispensabili strumenti di emancipazione e riscatto sociale.