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Giorno: 24 Marzo 2017

Il Ferrara Film Festival fra docu-denuncia e commedia

Siamo nel pieno del Ferrara Film Festival, le prime giornate sono trascorse tra pellicole, mostre e incontri, e la città sembra accogliere i nuovi ospiti con meno diffidenza e una nuova curiosità.
Durante la serata di inaugurazione, che ha visto il tutto esaurito nella sala 2 dell’Apollo Cinepark, il vicesindaco Massimo Maisto, congratulandosi con il direttore e la vicedirettrice del Festival, Maximilian Lawe Alizè Latini, ha sottolineato che questa è un po’ la natura della città di Ferrara: diffidente in principio, ma che sa diventare accogliente nel tempo. Le prime proiezioni hanno evidenziato un aspetto importante del cinema: quello della denuncia, che spinge alla sensibilizzazione e alla conoscenza delle crudeltà umane.

Ad aprire la serata, infatti, il cortometraggio “Invisibili”, prodotto dall’Unicef e realizzato da Floriana Buffon e Cristina Mastrandrea, che racconta attraverso un viaggio dal sud Italia ai suoi confini europei la storia di alcuni minori, bambini e adolescenti, che hanno abbandonato le loro case per affrontare la traversata sul gommone, in cerca di un futuro diverso. Bambine e bambini di solo 12 anni che, accolti nei centri di prima accoglienza, raccontano di essersi dovuti prostituire, costretti dalle madame, per ripagare il loro debito. Ma anche ragazzi che vivono per le strade della Capitale, affamati e soli. E questi sono da considerare fortunati, perché rintracciabili. Di moltissimi minori, infatti, si perdono le tracce dopo lo sbarco.
Non si ha il tempo di riprendersi dal gusto amaro lasciato dalla prima proiezione che le luci in sala si spengono nuovamente e si è trascinati nel mondo ricreato in “Trafficked”, diretto da Will Wallace. Tetro, crudo e claustrofobico, racconta la storia di alcune ragazze che, dopo essere state rapite, vengono vendute e chiuse in uno squallido bordello texano. Le tre protagoniste, un’americana orfana tradita dalla sua assistente sociale, un’indiana ricca aggredita da un criminale della sua città e una nigeriana che ha dovuto abbandonare il suo paese per salvare la sua famiglia, si ritrovano a tentare di sopravvivere in un luogo fatto di violenza e morte. La cosa peggiore? La realtà. La trama non è frutto della fantasia di un regista, ma una storia vera.

La seconda serata, invece, si alleggerisce con una commedia italiana, nelle sale dal 6 aprile. “Ovunque tu sarai” di Roberto Cappucci è una pellicola leggera, un road movie che racconta la storia di quattro amici che, per seguire la partita Roma – Real Madrid del 2008, decidono di trascorrere qualche giorno in viaggio verso la Spagna. Si ritrovano così a visitare luoghi non previsti, a fare conoscenze che travolgeranno la loro vita e ad affrontare loro stessi, tra cose non dette e segreti da affrontare.
A interpretare Pilar, la ragazza che metterà in dubbio le certezze di uno dei protagonisti, è Ariadna Romero, attrice di origine cubana che ammette tra le risate di aver lottato per avere quel ruolo.
“Appena ho letto il copione – ci racconta – mi sono innamorata di Pilar. È una ragazza libera e coraggiosa, viaggia zaino in spalla e crede nei suoi sogni. Mi ha ricordato un periodo della mia vita, quando ho scelto di lasciare il mio Paese per inseguire e realizzare i miei desideri. Mi sono impegnata molto per ottenere la parte, Roberto non era convinto”.

In attesa dei prossimi incontri, è possibile trovare il programma completo sul sito del Ferrara Film Festival.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Riempire il niente o svuotare il troppo?

Le nostre lettrici raccontano come nella vita si giri attorno al vuoto per non sentirlo e, per questo, il troppo non basti mai.

Il piacere di arrangiarsi per riempire i propri vuoti

Ciao Riccarda,
che belle parole quelle del Cavalier Niente e quanta verità dietro a quelle semplici frasi.
Ma è possibile arrivare a tale equilibrio e lucidità da saper distinguere quando abbiamo bisogno di qualcosa da quando ne abbiamo voglia?
Io ho sempre avuto bisogno di tante attenzioni per sentirmi felice e realizzata, credendo che fosse quello il segreto per stare bene. Non mi accorgevo che quel bisogno invece creava dipendenza e insoddisfazione. Passare del tempo da sola mi ha sempre dato una sensazione di disagio e insofferenza.
Questa solitudine si è accentuata quando sono andata a convivere: è stato un passo che per me ha significato crescere, maturare, capire cosa sono davvero le responsabilità e tutto ciò ha innescato un insieme di emozioni per cui non ero realmente pronta. La persona con cui ho fatto questo passo inoltre è sempre stata estremamente indipendente e a proprio agio con il suo vuoto e io mi sono trovata smarrita davanti a tutti questi cambiamenti. Inizialmente pensavo fosse colpa sua in quanto egoista e disinteressato e non capivo la grande possibilità che avevo di fronte.
Fortunatamente la difficoltà si è gradualmente trasformata in opportunità perchè dal niente sono davvero nate tante cose: adesso il mio vuoto mi piace ed è quella parte di me che mi fa essere indipendente, mi fa scrivere, leggere, aggiustare il telefono della doccia e soprattutto avere interessi davvero miei.
Certo, ogni tanto c’è qualche ricaduta ma averne la consapevolezza forse è già un passo avanti.
E.

Cara E.,
aggiustare il telefono della doccia è un caso di scuola: chi arriva a farlo è, a mio parere, donna finalmente indipendente. Non è una sciocchezza, anzichè chiamare qualcuno, ci si prova e alla fine ci si riesce. E piano piano impari a non delegare quei piccoli interventi che danno anche soddisfazione. Per anni ho sperato che, quando in casa rimanevo al buio, fosse un black out e non la plafoniera da smontare. Poi mi sono attrezzata.
Un consiglio: un cacciavite come soprammobile ti ricorderà che la perdita del rubinetto non fa più paura.
Riccarda

Aggirare il buco…

Cara Riccarda,
Troppo, niente, troppo, niente, troppo. Direi che dall’adolescenza ad ora, a quasi quarant’anni, posso dire che la mia vita è stata tutto un troppo o tutto un niente!! Ho sempre odiato le vie di mezzo. O è bianco o è nero!
Da adolescente avevo decisamente troppo: una famiglia “imperfetta” ma perfetta, perché nonostante i vari problemi, si è sempre andati nella stessa direzione uniti. Amici, ma che se adesso li rivaluto non con gli occhi di sedicenne, ma con gli occhi di chi ne ha viste tante, in realtà i troppi amici erano un po’ di amici e troppi conoscenti. Speranze, troppe, tante, sogni, un infinità, poi a 19 anni il vuoto, il niente! Non mi piaceva più niente, gli amici…basta, non mi piacevano più, non amavo più quello che si faceva per divertirsi. Scuola: finita, finiti i sogni finite le speranze. Un vuoto, un niente che giorno dopo giorno mi logorava. Poi la luce…dopo qualche mese entra nella mia vita LUI! Il mio tutto di ora! Mi fa riscoprire i troppo e la vita riprende colore. Trovo amore (mai troppo) lavoro (sempre troppo) amici.Poi l’aborto e di nuovo il “niente”. Un niente tremendo infinito. Un vuoto che facevo finta di non avere, ma che mi ha portato a un senso di apatia assoluta. Poi qualcuno che trattandomi con fermezza mi fa capire che quel vuoto quell’apatia trasformata nel tempo in ansia e paura del mondo, la dovevo superare. Ed ecco la corsa, sempre con lui al mio fianco, e in un attimo tutto è tornato troppo. Troppa corsa, troppa dieta, troppi impegni, troppo di tutto!! E ora la mia vita è così! Piena, a volte stancante, ma bella. Perché dopo aver vissuto il niente per due volte non lo voglio più sentire! Preferisco avere mille cose in testa, preferisco sopportare di non aver tempo per me per periodi anche lunghi, piuttosto di risentire quell’apatia, quel senso di vuoto, che per quanto io corra, nel mio cuore quel buco c’è. Lo so non andrà mai via, ma lo lascio lì, per non dimenticarmi mai di apprezzare ogni sfaccettatura della mia vita. Meglio soffrire che rimanere indifferenti al niente.
Fede

Cara Fede,
quel buco, quel niente che un po’ sta zitto e un po’ ti ricorda che c’è, fa quello che deve fare: il buco. Non credo esistano punti di sutura adatti, nessuno mai li inventerà perché il buco è parte di noi e, lo dici tu, ti rammenta anche il bello di te e di ciò che, nonostante lui, hai raggiunto.
Secondo me, le situazioni brutte, il dolore, gli accidenti della vita un favore ce lo fanno sempre. Se non permettiamo che ci inseguano, ma li lasciamo al loro posto, diciamo il posto del buco, si trasformano in un buon esempio di cattivo esempio.
Riccarda

Sfiancarsi a rincorrere il troppo per paura del niente

Cara Riccarda.
Volere fare troppo…la corsa, la palestra, il corso di inglese, la difesa personale, le serate con gli amici. Ho sempre la sensazione di non fare abbastanza, di volere fare sempre di più, di avere tempo e voglia di fare, fare, fare, vorrei avere giornate di 48 ore e so che saprei riempirle, ma poi arrivo al dunque, arriva quel giorno che solo voglia di stare in casa con la mia bimba, un buon libro, il divano e non posso farlo perché ho preso troppi impegni. Troppo di tutto ma in realtà troppo di niente perché il tempo per stare con se stessi non ha eguali. Mi domando perché a 40 anni non ho ancora imparato che troppo di tutto non serve a niente.
Debora

Cara Debora,
se lo scrivi, significa che te ne rendi conto, magari ridimensionare un po’ quel troppo è solo il passo successivo. Le tante o troppe cose da fare, apparentemente, fanno sentire vivi, dinamici e padroni della propria esistenza. Molti si riempiono le giornate, anzi i minuti, per allontanare il vero loro dominatore: l’horror vacui. Lo spettro del vuoto può fare compiere giri immensi, in realtà è un avvitarsi su se stessi sperando di scampare al risucchio del vuoto.
Riccarda

Il presente di un figlio per liberarsi del falso “troppo” passato

Cara Riccarda,
ho scoperto che la troppa fiducia, la troppa sicurezza nell’amicizia che pensavo eterna e sopra ogni cosa, erano tutte emozioni mal riposte, purtroppo per me.
Amicizia con la A maiuscola, forte, leale, fatta di complicità e buoni propositi; troppo bene, credevo.
Amicizia rimasta indelebile con un tratto marcatissimo nei miei piu cari ricordi, ma vanificata dalla nascita di un amore ancora più grande, per cui, complice il destino per chi ci crede, non è stato possibile condividerne la gioia e i momenti più belli.
La nascità di un figlio nella mia vita ha spazzato via quel niente che fino a quel momento credevo fosse il mio fortunatissimo e unico troppo.
Per fortuna è rimasto il vero, anche se quel troppo perso per strada ha lasciato un vuoto che fa male ogni giorno.
Questo è il mio troppo che non c è più.
C.

Cara C.,
l’arrivo di un figlio spazza via, a prescindere, molte cose, direi tutto ciò che eravamo. Parlo di quello che succede a una madre: cambia il tuo corpo, diventa più bello, cambi tu perchè diventi migliore. Anche i parametri dei nostri troppi o dei nostri niente non sono più gli stessi, dopo un figlio. E per fortuna.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

INSOLITE NOTE
Heptachord: una miscelazione di generi nel nuovo progetto musicale di Nicola Mogavero e Alessandro Blanco

Il sottile ma intenso timbro del sax soprano di Nicola Mogavero trova, nel ritmo e negli assoli della chitarra classica di Alessandro Blanco, l’equilibrio per un complicato accostamento musicale. Nello spazio di poche note “Heptachord” passa dalle melodie mediterranee agli accenni di bossa nova, per incontrare nel prog e nei passaggi jazz la sua dimensione. “Heptachord” si sviluppa nel difficile equilibrio dei due strumenti, un’esplorazione che spesso ha scoraggiato i compositori ma allo stesso tempo uno stimolo e un limite da oltrepassare, una sfida.
Il disco di Mogavero e Blanco è l’insieme delle suite di Dimitri Nicolau e Melo Mafali, autori rispettivamente di “Grottapinta, Op. 200 e il “Trittico di Vulcano”.

Nicola Mogavero e Alessandro Blanco “raccontano” Heptacord
Al riguardo Mogavero ha affermato: “Le scelte di repertorio sono legate alla nostra naturale radice mediterranea. Dimitri Nicolau, gigante della musica greca tra XX e XXI secolo, è stato in grado di dipingere atmosfere e affetti talmente connotati, a livello melodico, ritmico, armonico e timbrico, da tirarci dentro ad un vortice di “mediterraneità” nuova e antica, oltre le mode, che il Trittico di Melo Mafali ha quindi potuto rilanciare. La matrice comune è immaginifica e descrittiva, a tratti cinematica, e di certo è quanto di più vicino a due personalità come la mia e quella di Alessandro: due figli di città di mare – Palermo e Messina – che spesso scappano a studiare in posti isolati, tra alberi e montagne”.
A sua volta Blanco ha dichiarato: “Una volta testato il seme di “Heptachord” con le nostre riletture e trascrizioni, ci imbattemmo in un brano originale per chitarra e sax soprano, grazie alla conoscenza diretta degli amici di Almendra. Si trattava di Grottapinta di Dimitri Nicolau, grande compositore greco molto vicino ad uno dei membri della factory palermitana. Fantastico! Il brano era scritto benissimo e gli equilibri funzionavano senza sforzi. Il sapore e gli affetti mediterranei della composizione di Nicolau ci fecero venire in mente che si poteva pensare a un progetto organico con anche musica nuova dalla nostra Sicilia. Fu così che coinvolgemmo Melo Mafali – compositore colto e “musicista totale” vicino anche a esperienze progressive rock – il quale, entusiasta, si mise al lavoro su Trittico di Vulcano, tre quadri sonori dall’arcipelago delle Eolie, che rispondevano agli affetti musicali di Dimitri con visioni e “sapori” mediterranei tanto cari anche a Nicola e me”.

Nicola Mogavero: “Gli equilibri su cui si regge Heptachord, in modo del tutto istintivo, non sono mai stati un problema su cui soffermarci. Ci siamo infatti incontrati e scelti proprio perché c’era un’affinità in tutti gli ambiti, primo tra tutti quello della performance: Alessandro è un chitarrista con una presenza sonora pari a pochi altri, io col sax provo semplicemente a non dargli troppo fastidio. Per il repertorio abbiamo all’inizio scavato ognuno nel proprio pregresso e nel proprio bagaglio, ma le soluzioni cominciarono a venir fuori pian piano, tra ricerche e le tante collaborazioni con altri musicisti, così siamo riusciti a creare un repertorio originale aperto a ogni contributo coerente con le nostre identità e quindi con “Heptachord”, cui affianchiamo, tra sfida e coerenza, una linea di ricreazione di alcune pagine del XX secolo, come ad esempio le “Six Melodies” di John Cage.
Alessandro Blanco ricorda: “Heptachord nasce da un’estrema sintonia umana tra noi due e da un’innata curiosità e ricerca del ‘nuovo’, a maggior ragione per la pressoché totale assenza di musica originale per questo insolito duo. L’oggettiva difficoltà di accostare una chitarra non amplificata al sax soprano, così presente dal punto di vista della pressione sonora, ha scoraggiato i compositori, ma come spesso è accaduto nella storia della musica, l’interprete può essere punto di partenza per nuove strade prima impraticabili. Iniziammo a testare trascrizioni varie, scoprendo che l’equilibrio era in realtà possibile: il chitarrista doveva avere un buon “forte”, il sassofonista un buon “piano”, oltre ai normali parametri utili a qualsiasi insieme da camera. Non ci volle molto per capire che “Heptachord” poteva partire”.

Dimitri e la valle dei mostri
Dimitri Nicolau, scomparso nel 2008, ha iniziato a comporre musica a tredici anni, con “Sonata per mandolino e pianoforte”, tra gli altri suoi componimenti “La melodia ritrovata” e la suggestiva e mediterranea “Grottapinta Op. 200”, ripresa con passione e talento da Mogavero e Blanco.
“La valle dei mostri” chiude il trittico di Carmelo (Mele) Mafali, esasperando la chiave progressive della composizione, che nei due momenti precedenti (Danza delle lucertole sulle pietre di lava e Un deserto stellato) riesce a coinvolgere sonorità differenti tra loro, legate dal sax soprano di Mogavero e dall’atmosfera eoliana. New Age, jazz e prog si fondono e rendono unica la performance. Pregevole l’apporto di Alessandro Blanco, la sua chitarra dona spessore a un sassofono che coglie l’attimo e raggiunge i pensieri di chi l’ascolta.

Fotografie: Francesca Cicala

Ascolto dei brani di Heptachord:
https://heptachord.bandcamp.com/album/heptachord

CINEMA
Symeoni, da ‘La dolce vita’ a ‘Profondo rosso’
Torna a casa l’artista ferrarese che disegnava Cinecittà

Una mostra, anzi due, per raccontare il talento di un artista ferrarese che non c’è più. Il suo nome non dice molto, ma i bozzetti e i disegni realizzati da lui, sì. Sono suoi i manifesti che hanno reso celebri film come ‘La dolce vita’ di Fellini e ‘Un americano a Roma’ con Alberto Sordi, ‘Profondo rosso’ di Dario Argento, lo scandaloso e citatissimo ‘Gola profonda’ e migliaia di altri ancora: tremila circa dall’inizio degli anni ’50 al 1995. Lui si chiama Alessandro Simeoni, in arte Sandro Symeoni, e fino al 31 marzo 2017 molti suoi bozzetti, locandine di film, copertine di dischi e poster sono esposti nel salone d’onore del Municipio di Ferrara. Dall’8 aprile un’altra mostra, con i suoi cartelloni di dimensioni più grandi, verrà allestita a Migliarino, dove rimarrà nel centro polifunzionale di via Matteotti fino al 18 aprile a cura di Luca Siano e Francesca Mariotti per l’associazione Ferrara Film commission.

Il critico Lucio Scardino alla mostra di Sandro Simeoni in Comune a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)

Ma chi è Sandro Symeoni, nato nel 1928 proprio a Migliarino, una trentina di chilometri a est di Ferrara, per andarsene ancora ventenne nella capitale del Paese e del cinema e rimanere lì fino alla sua morte, avvenuta nel 2008? Raccontano che Pier Paolo Pasolini, che viveva in casa tappato al buio, abbia tirato su le tapparelle solo per poter guardare il bozzetto del manifesto che Symeoni era andato a mostrargli, preparato per il suo film ‘I racconti di Canterbury’. E poi di Gassman e Mastroianni che si lasciavano ritrarre volentieri da lui, perché in pochi schizzi tracciava così bene i tratti del loro volto e creava all’istante l’atmosfera, il colore e il senso folgorante di tutta una storia cinematografica.

Copertina del disco con le musiche del film “Permette? Rocco Papaleo” di Sandro Symeoni (collezione Luca Siano)

Non c’è da stupirsi – secondo il collezionista che ha messo a disposizione le opere della mostra – che Simeoni abbia finito per innervosirsi quando a Ferrara decidono di invitarlo in occasione di un evento organizzato dal Comitato per le celebrazioni del centenario del cinema coinvolgendo gli autori che da qui sono partiti. Lui, che è ormai anziano e navigato, ha un nome familiare tra gli addetti ai lavori e questo comunque lo ha abituato a stare in un ambiente dove le star più desiderate e ammirate lo stimano e lo rispettano, con le case produttrici che se lo contendono. “Simeoni – preferisce limitarsi a dire l’esperto di cinema Paolo Micalizzi all’inaugurazione della mostra in piazza Municipio – era stato invitato in quell’occasione insieme ad altre personalità. Era alloggiato all’hotel Astra, ma alla premiazione al Teatro Nuovo non venne a causa di un disguido, e se ne tornò a Roma”. E’ il 1995, Symeoni ha 67 anni e a Ferrara già gli è stata dedicata una mostra. Lo racconta il critico d’arte Lucio Scardino, curatore della rassegna allestita con il Comune di Ferrara attorno al 1993 nell’ex chiesa di San Romano, nella centralissima via San Romano a ridosso del Duomo. In esposizione ci sono i manifesti di grande formato dei film per i quali Simeoni ha ideato la grafica e ridisegnato i protagonisti in un vortice di immagini che sintetizza e lancia le pellicole sul mercato italiano. “Avevo scoperto questo ferrarese che spopolava a Cinecittà – spiega Scardino – in occasione di un’altra mostra sui manifesti e le locandine che avevo organizzato a Treviso. Era un nome affermato nel mondo del cinema, ma sconosciuto fuori da quella cerchia. Avevo avuto il suo contatto attraverso il nostro concittadino Florestano Vancini, lo ho coinvolto e c’è voluta tutta la mia pazienza perché certo non aveva un carattere facile”. Un incontro faticoso, quello tra Ferrara e il suo estroso e talentuoso figlio, che presto se ne ritorna ancora una volta nella città che gli ha dato lavoro e carriera.

Inaugurazione con la sindaca di Fiscaglia, Alberto Squarcia, l’assessore Maisto e il collezionista Luca Siano
Gli organizzatori Mariotti, Micalizzi, Maisto, Siano, Squarcia, Pasetti
Mostra di Sandro Simeoni nel salone d’onore del Comune di Ferrara
Locandine di Sandro Simeoni in mostra
La firma di Sandro Symeoni (collezione Luca Siano)

Dopo dieci anni che non c’è più, i riflettori si accendono su quei lavori che continuano a parlare di lui. Grafiche, collage e bozzetti lanciano messaggi che nel frattempo hanno tenuto incollati occhi e attenzione di un giovane grafico e appassionato d’arte che in quel momento vive a Milano. È Luca Siano, che pian piano cerca tutto ciò che è disegnato da quella mano e mette insieme una collezione considerevole, andando a rintracciare la storia e ogni dettaglio possibile della biografia di un artista di cui riconosce all’inizio solo il ghirigoro della sigla con cui firma le opere, rimanendo ancora praticamente sconosciuto. Il collezionista che accumula opere e informazioni è ora curatore delle due mostre ferraresi insieme con Francesca Mariotti dell’associazione Ferrara Film Commission presieduta da Alberto Squarcia e da Micalizzi in veste di presidente onorario. “Avevo appeso in casa alcune sue locandine – dice Siano – e ogni tanto mi alzavo folgorato per guardarle, stupefatto da tanta originalità e modernità e sempre più incantato da quella sigla misteriosa ‘Sym’ che riuscivo appena a decifrare e che anche quando la cercavo in rete non mi rimandava a niente. Possibile che un artista così dotato non fosse conosciuto?”. A far luce sul mistero ci pensa Siano stesso, mettendo insieme locandine, poster, copertine, tutto quello che trova su bancarelle e online, attratto da quella firma sinuosa ed enigmatica, che alla fine diventa un nome e – da lì – un appiglio a cui si attacca per sapere di più. “Ho preso su il telefono – racconta Siano – per contattare perfetti sconosciuti che potevano sapere qualcosa di lui, vicini di casa, gente che bazzicava nel cinema, la clinica romana dove muore nel 2008″ (e non nel 2007 come è indicato su Wikipedia, ndr). Una matassa da dipanare che alla fine lo porta fino a Ferrara, dove Simeoni è partito.

Locandina di “Profondo Rosso” di Sandro Symeoni (collezione Luca Siano)
Locandina de “I racconti di Canterbury” di Sandro Symeoni (collezione Luca Siano)
Locandina di “Il Grido” di Michelangelo Antonioni di Sandro Symeoni
Locandina di “Fiamme su New York” di Sandro Symeoni (collezione Luca Siano)
Locandina de “La dolce vita” disegnata da Simeoni

Ad aiutare Siano nel percorso è lo stesso Scardino, che ha conosciuto di persona l’artista. E fa notare: “Simeoni è ancora uno studente del Dosso Dossi (l’istituto d’arte di Ferrara), quando comincia a disegnare le tavole dei cartoni animati per gli spot pubblicitari da proiettare al cinema, dei piccoli caroselli che il suo maestro Laerte Milani affida agli allievi più dotati”. A Ferrara il suo talento germoglia, si sviluppa e non passa in realtà inosservato. Disegna caricature che vanno ad illustrare le pagine dei giornali locali. Nel 1947 il ‘Giornale dell’Emilia’ annuncia  la preparazione di una mostra con le sue caricature e il critico d’arte ferrarese ricorda che una raccolta di queste opere venne allestita nel Ridotto del Teatro Comunale. Intanto però la passione e le capacità portano Simeoni lungo altre strade. Si iscrive all’Accademia di belle arti di Bologna e da lì poi va a Roma, dove gli si apre la carriera del cinema, affiancata sempre da quella di pittore. Sia Scardino sia Siano finiscono davanti al manifesto realizzato per il film di Pasolini ‘I racconti di Canterbury’. “Ecco qua – dice Scardino – queste figure compongono un vero e proprio quadro, un’opera d’arte di realismo geometrico, un po’ optical, con colori e freschezza che risentono della pop art e di uno stile neo futurista”. Siano fa notare come “Simeoni disegna tutto senza mai usare la linea curva, solo tratti netti, che rendono i suoi lavori scattanti, veloci, grintosi e inevitabilmente hanno colpito uno come me che viene dalla street art”. E ricordiamoci, sottolinea l’assessore alla Cultura Massimo Maisto, che il cinema per cui Simeoni realizza i manifesti che attraggono il pubblico nelle sale, in quegli anni è il secondo sul mercato mondiale.

Mostra Simeoni: opere in mostra in Municipio a Ferrara
Manifesti di Simeoni in mostra nell’atrio del Municipio
Bozzetto e locandina di Simeoni in mostra nel salone d’onore

La mostra ‘Sandro Simeoni’ è visitabile dal 21 al 31 marzo 2017 nel Salone d’onore del Comune di Ferrara (piazza Municipio 2, Ferrara), dove è in programma per giovedì 30 marzo alle 17 il finissage con aperitivo e intervento musicale della soprano coreana, socia onoraria della Ferrara Film Commission, Benedetta Kim con i suoi giovani allievi Andrea Curti e Rebecca Rizzi, che eseguiranno alcuni brani tratti da colonne sonore famose. Visite con ingresso libero negli orari di apertura di ufficio dal lunedì al venerdì ore 9-18.

L’esposizione proseguirà, dall’8 al 18 aprile 2017, alla Sala del Centro polifunzionale, di viale Matteotti, a Migliarino nel Comune di Fiscaglia.

SOCIETA’
La fine del consumatore perfetto e la nascita dell’uomo del futuro

Dai cambiamenti culturali e sociali scaturiti dall’effervescenza degli anni sessanta e settanta, dalla fine del socialismo reale, dalla struttura egemone dell’impianto economico e finanziario neoliberista, dall’avvento e dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali, non sono scaturiti solo gli sconvolgimenti della globalizzazione, ma è venuto emergendo anche un nuovo modello di uomo radicalmente diverso da quello caro al mondo borghese della società industriale e, lontano da quello tanto quanto quest’ultimo era distante dall’uomo della civiltà contadina rurale. Se in quel passato si parlava di uomo intendendo, di fatto, il maschio occidentale adulto, capofamiglia, oggi, parlando di uomo, s’intende comunemente un astrazione di specie che, nelle sue specifiche connotazioni, sempre più spesso travalica i confini della classica polarizzazione di genere.
L’identità di questo essere umano che oggi popola il mondo digitale e globalizzato, è costruita prioritariamente intorno alla nozione di consumatore; essa non richiede né identità sessuale, né appartenenza religiosa, etnica o razziale, purché appunto, l’essere uomo si traduca in quel consumo che deve crescere, insieme al numero totale di consumatori, per assorbire l’enorme capacità produttiva del sistema industriale globale ed alimentare l’indispensabile aumento del PIL incredibilmente (per chi ha ancora un po’ di senno) assunto come metro e condizione dello sviluppo umano e sociale. Si tratta per certi versi del compimento di un progetto economico ben orchestrato, teso a fare dell’uomo un consumatore perfetto, convinto di poter soddisfare ogni suo bisogno, materiale, sociale, psicologico e spirituale attraverso il consumo di beni e servizi.
All’atto pratico questo modello umano si presenta come individuo perfettamente integrato nel sistema e da questo assolutamente dipendente: non tanto dagli altri consimili, con i quali è in competizione feroce in quanto imprenditore di sé stesso, ma dalle tecnologie, dai servizi, dagli oggetti culturalmente necessari, dalle regole di pensiero dominanti e dalle mode. E’ tipicamente un individuo che esercita la sua libertà e si ritiene libero in quanto può scegliere tra una infinita e crescente varietà di merci e servizi; egli è veloce e volubile per poter soddisfare costantemente i desideri, sempre cangianti, che l’onnipresente industria della persuasione provvede sistematicamente a costruire ed alimentare in forma di bisogni sempre nuovi. Nella versione più audace l’uomo consumatore vuole spingere la sua possibilità di opzione a livelli impensabili per le vecchie generazioni: esattamente come al supermercato egli pretende di poter scegliere, in nome della libertà, il genere, la religione, l’identità sessuale, le modalità di riproduzione, le caratteristiche dei nascituri, le opzioni di fine vita; non si limita però a scegliere privatamente e secondo personale coscienza, ma pretende che tale libertà sia pubblica, legittimata e normata, legale e, non raramente, obbligatoria per tutti. Nella sua versione tecnologica più spinta l’uomo consumatore spinge il suo desiderio fino alla possibilità di poter finalmente scegliere tra le opzioni promesse dalla tecno-scienza futuribile che, attraverso l’integrazione con le macchine e l’intelligenza artificiale, potranno consentire di diventare (cyber-) organismi potenziati, lanciati sulla strada della ricerca dell’immortalità e della fine definitiva della sofferenza.
Egli vive dunque con disagio e con rabbia ogni forma di certezza e di permanenza, ogni tipo di barriera, ogni religione che pretenda di essere vincolante, ogni nazionalismo, ogni regolamento che in qualche modo vincoli il libero mercato e la corsa di quella che ritiene essere la scienza nella quale confida massimamente. Il consumatore perfetto ha le stesse caratteristiche liquide delle merci e del denaro: per non diventare obsoleto deve continuamente cambiare, per cambiare deve continuamente consumare. Privato del consumo, al quale deve ricorrere anche per sanare i propri disagi interiori, privato di quelle occasioni di fruizione a pagamento che associa al godimento e alla “felicità” l’uomo consumatore su rivela per quello che è: un essere spesso spaesato e privo di orientamento, non di rado sofferente ed estremamente egoista.

Il processo di costruzione e diffusione di questo modello umano di consumatore perfetto sembra tuttavia avere sbattuto contro i limiti attuali della storia, complice una crisi economica che non accenna a risolversi e che si mostra sempre più con i tratti della crisi antropologica, sociale, culturale e, per chi ci crede, spirituale. Gli ultimi anni hanno fatto cadere, in Italia e in tutto l’Occidente, molte illusioni, hanno messo molte persone di fronte ai limiti del consumo e all’insostenibilità di stili di vita interamente consumisti, hanno riportato urgentemente in agenda problemi che si ritenevano ormai superati da tempo.
Ma non sono cambiate affatto le pressioni che spingono al consumo, diventate con le tecnologie digitali, ancora più pervasive ed accattivanti; si è ancora di più ampliata la ricerca di nuovi mercati e nuovi consumatori da immettere urgentemente nel circuito, proponendo ed imponendo, anche nelle zone più povere del pianeta, l’immagine del paese di bengodi. Si sono rafforzate enormemente le tecniche di marketing che diventano sempre più invasive, potenti, accattivanti e manipolatorie. Si è ancora più diffusa l’idea di diffondere, in ogni modo e a qualunque prezzo, a tutti gli abitanti del mondo il modello del consumo coatto. Ma si è anche enormemente ampliato il divario tra un numero in diminuzione di ricchi sempre più ricchi e la massa crescente di poveri sempre più poveri. Interi strati di popolazione che si credevano in diritto di godere di un certo agio e una certa sicurezza sono precipitati verso il basso vedendo drasticamente compromesse le proprie aspettative e, soprattutto, le proprie possibilità di consumo.
Di fronte a questo ridimensionamento il modello del consumatore perfetto è andato in crisi su vasta scala; ma gli assunti su cui si regge sopravvivono e si rafforzano, soprattutto in quei gruppi sociali protetti (o fortunati) che possono ancora permettersi di guardare con sufficienza alla paura degli impoveriti, che tranquillamente associano all’ondata montante del populismo, del razzismo e della xenofobia, del luddismo, dell’integralismo e del passatismo più volgare. L’uomo consumatore perfetto infatti, nella sua lotta costante per la libertà di scelta e nella sua caccia sistematica all’argomentazione politicamente scorretta, sa essere estremamente intollerante e violento (verbalmente) contro quanti osano mettere in discussione il suo stile di vita.
Intanto, tra le macerie della crisi, molte persone un po’ per scelta un po’ per necessità si organizzano, cercano soluzioni, recuperano vecchi approcci, inventano possibilità mettendo in discussione il paradigma dominante. Queste piccole strategie che assumono a volte la forma di vere innovazioni sociali rappresentano una cifra originale, forse l’avanguardia di un cambio di paradigma, al fondo del quale si intuisce in potenza la presenza di un altro modello possibile di uomo, più adatto a vivere in un futuro sostenibile, meno dissipativo e più collaborativo, Egli sa fare tesoro delle conquiste della tecno-scienza ma guarda la realtà con occhi diversi, libero, per quanto ora possibile, dall’ideologia materialista del consumo, dal dogma della competizione e dell’efficienza, più attento alla semplicità e agli aspetti spirituali. Uscito dai vincoli del pensiero industriale tanto quanto dall’insana passione dell’iper-consumo, egli si muove nella complessità con la leggerezza che deriva dal sentirsi parte responsabile di una realtà universalmente interconnessa, complessa e, per certi versa, sacra.
E’ un uomo più autonomo e libero più forte perché ha meno bisogni, più indipendente poiché fonda la sua vita sulla libertà e la creatività, sull’utilizzo di beni anziché sul loro possesso; più resiliente poiché ha riconosciuto il valore dell’essenzialità e sa affrancarsi dal ciclo di costante produzione e riproduzione del bisogno che caratterizza le attuali società. Forse più saggio, poiché sa riconoscersi come soggetto dotato di valore in sé e coltiva la propria unicità anziché auto-definirsi secondo standard esterni basati sul confronto e la classificazione. Egli ha ripreso a guardare con interesse al mondo delle virtù e dei valori che vanno oltre l’utile, è capace di riconoscere la ricchezza delle diversità culturali, è capace di guardare con consapevolezza ai rischi enormi e alle opportunità straordinarie che si profilano nell’immediato futuro. Quest’uomo più empatico e meno calcolatore, meno dipendente dal sistema e meno eterodiretto poiché sa trovare dentro di se le risorse indispensabili per governare la propria vita, sta costruendo un nuovo linguaggio e nuovi codici di significato straordinariamente lontani dalla neolingua imperante.
L’uomo del futuro intravede tra le nebbie del presente una società emergente, ricca di beni comuni, abitata da nuove persone e nuove istituzioni: per questa si impegna personalmente, positivamente e senza false illusioni.
La via è oscura e imprevedibile ma, ora più che mai, per avere un futuro bisogna dare nuova speranza al presente.

Un giorno in Giappone…dove il Governo investe sui giovani

Tipo particolare Stefano, conosciuto ai tempi dell’Università. Passava le ore di lezione ad esercitarsi sui ‘kangi‘, la sera partiva a piedi, facendosi anche svariati chilometri, per andare a lezione di Aikido. Non un ragazzo occidentale, no. Lo è solo nella fisionomia. Ma i modi erano e sono quelli di un’altra cultura, lontana dalla nostra. Il fisico di un italiano che intrappola la mente di un orientale, o meglio, di un giapponese, ma di quelli vecchio stampo, del tipo ‘Bushidō-kimono-katana‘. In ogni suo gesto cercava la perfezione: dal lavare i piatti a quei strani movimenti fatti a lezione di arti marziali. Ragazzo particolare appunto, con il quale ho avuto il piacere di passare due anni di convivenza, e che oggi racconterà un piccolo squarcio della sua nuova vita in Giappone, non un’intervista su castelli, monumenti o particolari riti, semplicemente una squarcio sulla vita quotidiana a più di 9 mila chilometri da noi, in una realtà che ogni anno raccoglie tanti giovani in cerca di un futuro migliore.

Ciao Stefano, come prima domanda direi perchè il Giappone?
Quando ero bambino, lessi l’autobiografia di un pilota di aerei giapponese della Seconda guerra mondiale. Quel libro è stato il mio primo contatto con la cultura giapponese. Per la prima volta ho letto dei samurai e del loro codice d’onore, ma anche di uno stile di vita profondamente diverso dal nostro. Il rispetto per le regole, la sobrietà nei rapporti tra le persone, la cortesia pressoché obbligatoria in qualsiasi attività. Con il tempo, mi sono incuriosito sempre di più, finendo con il convincermi di essere più affine a questa cultura che a quella di origine.

Com’è iniziata quest’avventura?
Sono stato molto fortunato ad essere stato selezionato da una grande azienda di risorse umane, dopo aver pubblicato il mio profilo su diversi portali di annunci di lavoro. L’azienda riceve incentivi dal governo per assumere e preparare un ‘esercito’ di ingegneri informatici o esperti di tecnologia, poiché si prevede che tra qualche anno la nazione si troverà in grave carenza di lavoratori specializzati. Il Giappone sta invecchiando ancora più rapidamente degli Stati europei, e si cerca di prepararsi per tempo. I requisiti, oltre a esperienza e titoli di studio, prevedono anche la conoscenza della lingua giapponese e, ovviamente, la propensione ad integrarsi nella loro società. Personalmente non conosco il giapponese abbastanza bene da esprimermi in un contesto lavorativo. Ho una conoscenza elementare acquisita nei ritagli di tempo durante gli studi universitari. Di base conoscevo già la geografia e i principali aspetti culturali del Paese. Inoltre, ho diversi amici principalmente a Tokyo e prima di venire qui a lavorare ho trascorso una vacanza di 20 giorni tra Tokyo, Kyoto, Hiroshima e altri posti, non sapendo però che dopo qualche mese sarei tornato per trasferirmici. Questo ha reso l’avventura molto meno…avventurosa!

Com’è la tua vita lì?
Attualmente vivo a Tokyo, fuori dal centro ai limiti della periferia, nei pressi di un famoso parco. La vita qui è semplicissima, nonostante i giapponesi ritengono sia stressante. L’automobile è completamente superflua e comunque più lenta dei famigerati mezzi pubblici di Tokyo. Il numero di linee e fermate della metropolitana è impressionante, con 3-4 aziende diverse che si dividono il traffico. La frequenza dei treni fa sì che non si passi molto tempo ad aspettare sui binari. La densità abitativa e commerciale è tale che cercando bene si può trovare di tutto, come supermercati economici, ottimi ristoranti per qualsiasi gusto, o anche servizi aperti 24h.C’è tutto ed è sempre raggiungibile. È molto difficile che succeda di rinunciare a qualcosa di pianificato.

Descrivici una tua giornata tipo.
Sveglia alle 7:30, doccia e colazione con relativa calma, preparazione e alle 8:10 sono fuori. Poco più di 20 minuti a piedi per la stazione più vicina. Ci sarebbe l’autobus, ma risparmio e mi faccio una passeggiata. Arrivato ai binari, mi metto in fila. Di solito, il mio treno non è affollato, ma può capitare delle volte. Venti minuti e arrivo alla mia fermata. Qualche altro passo e arrivo nel mio ufficio, qualche minuto prima dell’inizio della giornata di lavoro: questa è una consuetudine importante in Giappone. Alle 12, esco per la pausa pranzo. Di solito mangio poco per non addormentarmi in ufficio, e cerco di camminare e svagarmi il più possibile. Alle 12:50 torno in ufficio.
Se sono fortunato, dopo le classiche 8 ore lavorative sono fuori e parto di passo svelto per la lezione di Aikido, 20 minuti a piedi dal mio ufficio. Esco dal Dojo alle 20:30, e dopo un’ora tra camminate e treni sono a casa. Ultimamente sono impegnato con parecchio lavoro da fare, e in media lavoro fino alle 20-21 per poi andare direttamente a casa. Per ora vivo in un ostello condiviso con altre 60-70 persone. Ho la mia stanza con letto e scrivania, ma condivido bagni e cucina.

Che rapporto hanno giapponesi e gli italiani?
Sono da tre mesi in Giappone, e non ho fatto alcuna nuova amicizia a parte con un paio di colleghi non giapponesi. In Italia, mi è capitato di restare in contatto con persone conosciute sul treno o in altre circostanze simili. In Giappone è pressoché impossibile rompere il muro di cortesia con uno sconosciuto, o parlare di faccende personali con i colleghi, come succede spesso da noi in Italia. Qui tutti rispettano la riservatezza altrui, e allo stesso modo non si aspettano di dover rinunciare alla propria. Spesso ho l’impressione che alcuni vivano in completa solitudine, specialmente a Tokyo.
Generalmente, i giapponesi sono molto rispettosi per le regole e poco propensi a fare uno ‘strappo alla regola’. Altra differenza con noi italiani: accettano il sacrificio, anche nelle piccole cose. Se riconoscono un errore, si scusano immediatamente, se perdono il treno non si scompongono, se viene loro assegnato un incarico, fanno di tutto per portarlo a termine ma senza cercare scorciatoie o accelerare il processo. Tutti fanno il proprio lavoro con abnegazione, indifferentemente da quanto sia qualificato. Questo fa in modo che tutto proceda come previsto e in ordine. Penso che questo sia indispensabile affinché una metropoli densa come Tokyo eviti di finire nel caos più totale.

Quali sono i problemi di tutti i giorni?
Se potessi scegliere di liberarmi di un problema, molto probabilmente chiederei di poter indossare abiti comodi per andare a lavoro. Negli uffici la formalità è d’obbligo, quindi giacca, camicia, cravatta e scarpe di cuoio. Oltre alla limitata comodità, la rottura di scatole è fare continuamente attenzione per evitare di fare frequenti visite alla lavanderia più vicina, ed anche fare attenzione agli abbinamenti. Un paio di volte mi è capitato di essere stato richiamato per via di tonalità troppo scure , associate a funerali o malavita organizzata. Altro problema è la comunicazione: a differenza di quanto si pensi, in Giappone l’inglese è estremamente poco diffuso, nonostante sia insegnato a scuola e ci siano migliaia di istituti privati che fanno buoni affari. Aprire un conto in banca ed evitare di fare casini con i documenti da compilare è stata un’impresa, sembra strano ma adorano le scartoffie. La tecnologia è scarsamente applicata ai servizi amministrativi.

Conosci altri italiani?
Conosco solo un altro italiano, mio collega. Come me è stato assunto mentre era in Italia, con un procedimento simile. Abbiamo trascorso le prime settimane nello stesso ufficio, per poi essere assegnati a due destinazioni diverse. Non penso di incontrarlo di nuovo a breve, poiché ora viviamo agli estremi della città.

Il lavoro: quali sono le differenze con l’Italia?
Nella mia esperienza, seppur limitata, non ci sono differenze con l’Italia per ritmi e orari di lavoro. A volte si leggono notizie di giapponesi che si suicidano per il troppo lavoro, ma sono casi isolati, che vengono attentamente analizzati e finiscono con l’individuazione delle responsabilità. Al momento il governo sta attuando misure per risolvere il problema.
Il mio lavoro è molto simile a quello che svolgevo in Italia, e ultimamente capita spesso di lavorare oltre le classiche 8 ore. La differenza però è che qui si mette tutto nero su bianco e vengo pagato al minuto in maniera molto precisa.
In Italia, ho iniziato lavorando in nero con una retribuzione minima, pur essendo qualificato. Lasciai quella posizione dopo l’ennesima promessa di assunzione mai avvenuta. Non penso ci sia necessità di commenti sulla condizione del lavoro in Italia. In Giappone una cosa del genere credo sia estremamente rara, ma è anche vero che l’economia è di gran lunga più solida, la pressione fiscale molto minore, e il mercato del lavoro pieno di opportunità. Attualmente la mia retribuzione mi permette di essere completamente autonomo, seppure sia quasi al minimo stabilito per legge. Se le mie capacità linguistiche fossero più solide, la mia situazione economica ne gioverebbe parecchio.
Molti poi in ufficio si appisolano durante l’ora per il pranzo, e se capita che non si alzino per tempo, vengono svegliati dai colleghi. Ho visto molte persone dormire sui treni della metro anche quando è affollata ma sempre silenziosa. In Giappone nessuno parla al cellulare sul treno, e degli annunci all’altoparlante consigliano di impostare la modalità silenziosa della suoneria.

E’ difficile vivere in Giappone?
In Giappone è semplicissimo organizzarsi. Gli orari sono sempre rispettati, e la qualità dei servizi, di ogni genere, è elevata. La qualità dei prodotti è alta, anche per merci considerate economiche. Il traffico praticamente non esiste, e mai visto rotonde. Vivere a Tokyo per me è più facile che vivere nella città dove vivevo in Italia.
A volte però questa qualità si paga, soprattutto per i mezzi pubblici e alcune categorie di prodotti di uso quotidiano come frutta o cosmetici tipo shampoo e deodoranti. Per altri servizi invece il costo è proporzionato alla qualità, tipo internet e telefonia, mentre i servizi postali sono come costo paragonabili all’Italia ma non per efficienza.

Si dice spesso che i giapponesi pecchino di razzismo, è vero?
È vero che i giapponesi non impazziscono per gli stranieri, ma non ho l’impressione di non essere accettato. È difficile integrarsi per via delle loro consuetudini sociali complesse e difficili da comprendere, e per la loro riservatezza. Posso garantire però che non farebbero nessuna discriminazione in base alla nazionalità, e si asterrebbero da qualsiasi commento a riguardo. Le regole sono tali per tutti, e su questo non si transige. Se ho un diritto, questo mi verrà garantito senza sorprese. Più che di razzismo, direi che sono molto selettivi sui requisiti per l’ingresso nel Paese, ma di recente il governo sta facilitando le procedure. Nel 2016 si è avuto il record di residenti stranieri:per la maggior parte cinesi, vietnamiti e filippini.

Quali sono le opportunità in Giappone e il futuro che ti aspetti?
Si dice che qua ci siano più posti di lavoro che candidati. Il mio obiettivo è di vivere regolarmente, di fare un lavoro che mi piaccia senza necessariamente dovermi arricchire. La stabilità politica ed economica, seppur non eccezionale, e la qualità della vita consentono di vivere dignitosamente e indisturbati. La criminalità è ai minimi mondiali, il patrimonio artistico e culturale cospicuo e variegato, anche se non paragonabile a quello italiano, ci sono tanti luoghi da visitare, tra natura e tradizioni locali. A differenza dei giapponesi, non ambisco a una carriera lavorativa o a contribuire alla crescita del Paese, ma a crearmi il mio spazio e la mia serenità, possibilmente fuori da Tokyo, magari più a nord, tra le montagne, dove la gente è più semplice e le tradizioni più autentiche.

Dopo averlo salutato e ringraziato, ripenso a quante avventure abbiamo passato insieme, e questo mio breve scritto vorrebbe solo essere un esempio, in quel panorama di emigrazione che ci sta tormentando, di giovani che trovano lontano da casa uno Stato che investe sul futuro, consapevole che la miglior risorsa sia quella della cultura e incentiva addirittura le aziende a ‘ringiovanire’ il proprio organico, approfittando anche dell’immigrazione di tanti ‘cervelli in fuga’. Ma Stefano è un ragazzo particolare come dicevo all’inizio, lui non è un ‘cervello in fuga’, nonostante la sua notevole bravura nel campo informatico.

Stefano, semplicemente, è tornato a casa.

Il treno affollato, ma non troppo
Un scorcio di Tokyo con un ristorante
Si aspetta ordinatamente di entrare nel vagone
…anche in Giappone
Nessuno sfugge alle multe
Anche aspettando il treno non si parla
Stazione di Okubo
La stazione di Shinjuku

Intervista al professor Cesaratto: “La disoccupazione si combatte meglio con una moneta e uno stato sovrano”

Di seguito l’intervista al prof. Sergio Cesaratto dell’Università degli Studi di Siena e autore del libro “Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi (e come uscirne)”, Imprimatur, 2016.
L’austerità è causata dal debito pubblico o dai deficit esteri? E questi interagiscono con l’occupazione? Le politiche monetarie e la moneta, le politiche keynesiane e il neoliberismo, il capitalismo, il socialismo e i politici che leggono poco, il ruolo della Germania nel mondo oltre che in Europa e gli Stati Uniti, il professor Cesaratto ha accettato una lunga chiacchierata su questi temi.
In fondo all’articolo l’intervista è scaricabile in pdf.

Professore, a chi si rivolge il suo libro?
A tutti. Naturalmente a chi voglia fare un minimo di fatica. Non solo agli economisti di professione ma anche ai cittadini che in questi anni si sono resi conto che bisognava capire meglio quello che stava accadendo. Il libro si rivolge naturalmente anche agli studenti che scoprono un mondo nuovo, si rendono conto che esiste anche una analisi economica alternativa, poi ci sono i giornalisti, quindi un po’ a tutti direi. Chi si riesce a penetrare di meno sono i politici, un po’ forse perché non leggono, anche se debbo dire che D’Attorre, Fassina, Ferrero o altri magari lo fanno ma lì, nel mondo della politica, è più difficile, non sono abituati a leggere probabilmente.

Lei mi ha nominato tutti politici dell’area di sinistra.
Guardi io non ho tanta fiducia nei politici della sinistra ma ancor meno nei politici della destra per tantissimi motivi, insomma. Non ho fiducia nella maggior parte della sinistra. Totalmente disastrosa, insegue dei principi astratti, si sta allontanando sempre di più dalla gente normale. È elitaria, cosmopolita, fondamentalmente neoliberista.
In Italia non abbiamo nemmeno però la Le Pen che viene da una tradizione francese che vede al centro lo stato, l’intervento pubblico. In Italia abbiamo Salvini che insieme ai suoi economisti di riferimento sono molto liberisti e penso che lui, come anche la Meloni, sia interessato a rimettersi con Berlusconi e ritornare al Governo. Non ho nessuna fiducia politica né nelle loro idee ne in quello che presumibilmente farebbero se fossero eletti al Governo.
Ho pochissima fiducia anche nella cosiddetta sinistra però, come dire, quello è il mio mondo. In ogni caso sono disposto a parlare con tutti.

Torniamo al libro per parlare del sovrappiù, quella parte di produzione che eccede il consumo o i bisogni immediati. Ricardo lo enuncia come contrasto tra capitalisti terrieri e industriali, poi viene ripreso da Marx per diventare motivo del contendere tra lavoratori e capitalisti, perché secondo Marx questi ultimi se ne appropriano togliendolo ai lavoratori che lo hanno creato. Si arriva a Keynes dopo la crisi del ’29 e si passa alla domanda aggregata come concetto macroeconomico di termometro del benessere collettivo, della distribuzione del reddito. Perché se c’è una buona domanda aggregata, cioè se la gente spende, acquista, vuol dire che ne ha la possibilità, che il sovrappiù è stato distribuito a tutti e viene utilizzato spendendo, comprando più beni. Se la spesa si contrae e con essa la domanda aggregata, allora è un sintomo che qualcosa non va nell’economia e nella distribuzione del reddito.
Assolutamente sì.

Monti però in un’intervista alla CNN dichiarò che il suo governo stava distruggendo la domanda aggregata, quindi di fatto cosa voleva fare, aumentare le disuguaglianze?
Beh sicuramente è strutturale all’economia di mercato che, da un lato, chi ha il controllo dell’economia, semplificando i capitalisti, è interessato a che il sistema sia diseguale, quindi salari bassi e profitti alti. Naturalmente, non è che siano sciocchi e in certe fasi sono anche disponibili a ricorrere a Keynes e anche Monti conosce Keynes, ovviamente, e sa anche come stanno le cose.
Sono ricorsi a Keynes per due o tre decenni dopo la 2^ Guerra Mondiale. In quel periodo c’era la sfida sovietica e quindi il capitalismo doveva funzionare, ed essere anche eticamente presentabile, si estese la giustizia sociale, si stimolò la domanda. Quando la sfida sovietica è venuta meno il capitalismo è tornato alla faccia cattiva.
Gli Stati Uniti, ma anche la Cina, hanno adottato politiche Keynesiane per uscire dalla crisi, certo non dal punto di vista della distribuzione del reddito ma comunque hanno fatto spesa pubblica, infrastrutture e quant’altro.
Purtroppo in Europa abbiamo la Germania che è legata tenacemente ad un modello che non sostiene la propria domanda interna ma si basa sull’espansione della domanda negli altri paesi, a maggior ragione se questi sostenendo la propria la domanda interna creano lavoro e occupazione lasciando crescere i salari. In tal modo la Germania guadagna competitività. La Germania è il vero scandalo europeo, il vero impedimento ad una vera unificazione. Senza, forse, l’Europa si sarebbe unificata magari a guida Francese. I francesi certo non sono dei santi, e lo testimonia il loro operato in Libia, però forse con francesi e inglesi ci si ragiona un po’ di più mentre con i tedeschi ragionare è impossibile.

Un’Europa a guida tedesca non sembra un buon affare. Nel capitolo IV del suo libro Lei dice che Mitterand dovette abbandonare l’idea di fare una politica estera accomodante e cooperativa perché i tedeschi non rinunciavano a un mercantilismo spinto. Come ci si difende dagli esportatori di professione, e senza unione monetaria pensa sarebbe più facile?
Certo. La flessibilità del cambio è una forma di difesa. Mettersi con i tedeschi è pericoloso, Federico Caffè (un grande abruzzese!) diceva “mai con i tedeschi”. Anche la Banca d’Italia prima del disastro della guida Ciampi, e con Visco ancora peggio, era contro l’euro. La Germania era un problema anche prima dell’euro, negli anni ’50 perseguiva lo stesso modello appoggiandosi ai cambi fissi concordati nel 1944 a Bretton Woods. Lasciava fare il keynesismo agli altri e lei si lasciava guidare dalle esportazioni.
Subito dopo la guerra di Corea si creò un boom di domanda. Sfruttando le sue capacità tecnologiche, perché anche se l’industria all’epoca era distrutta aveva i suoi ingegneri, il surplus commerciale tedesco raggiunse subito un volume che negli anni ’50 un autore definì grottesco. Quindi la storia è vecchia, la Germania è il problema dell’economia mondiale e non è un paese cooperativo. E non è nemmeno un paese imperiale nel senso buono, quelle di cui ha bisogno il mondo, come gli Stati uniti nel secondo dopoguerra e come lo era l’Impero Romano. Un impero deve dare garanzia di pace e sicurezza e fare da “demand of last resort”, avere quindi un mercato interno che sostenga l’economia mondiale.
Gli Stati Uniti lo hanno fatto e lo fanno, hanno la moneta di riserva per eccellenza e quindi tutti accettano di essere pagati in dollari. Tutti acquisiscono dollari ma vendono nel mercato americano, l’impero deve fare così, la Germania è una pessima potenza imperiale. E’ un impero nel senso più deteriore, non dà una leadership ma opprime.

Quindi il problema della Germania è che vuole solo vendere e non comprare. Lascia fare il keynesismo agli altri perché non è interessato alla propria domanda interna, vuole vendere i suoi prodotti all’estero e se gli altri paesi si sviluppano possono comprargliene di più e questo gli sta bene, ma non si preoccupa nemmeno di deprimerli come fa nel mercato dell’eurozona. Quindi approfitta del presente ma non crea le condizioni per il futuro dimostrando oltretutto di non avere visione e un Paese senza visione non può esercitare una leadership credibile.
Gli Stati uniti possono comprare i prodotti esteri potendo pagare con i dollari, e questo va benissimo. Certo bisogna dire che il capitalismo è una forma economica del tutto irrazionale. La forma economica razionale sarebbe il socialismo che a sua volta ha dimostrato una serie di problemi, è fallito per altre ragioni. È vero che il capitalismo, nella sua irrazionalità, qualcosa ti dà in cambio, è basato sull’egoismo e l’egoismo qualcosa ti porta, fa leva su una parte dell’indole umana non particolarmente encomiabile, cioè l’egoismo individuale. Il socialismo paradossalmente fallisce perché l’egoismo purtroppo viene fuori anche lì, magari c’è la piena occupazione, ma la gente, sicura del “posto”, non vuole lavorare. Un grande problema il socialismo, se dovessi scrivere un altro libro, un altro capitolo lo dedicherei ai problemi del socialismo.
Il problema è che oggi non c’è un’alternativa al capitalismo di conseguenza capire le difficoltà del socialismo è molto importante. Non si capisce perché le vicende umane, il nostro stesso benessere, devono essere guidate da un meccanismo esterno alla nostra volontà e alla nostra ragione, che fanno leva sull’egoismo. Qualcosa di meglio, in fondo, si potrebbe trovare.

Euro sì euro no, mi sembra ci sia indecisione nello stesso mondo accademico. Anche chi come lei non è un fautore della moneta unica non mi sembra proponga una risposta chiara.
Ammetto di sfuggire un po’ a questo problema. L’euro potrebbe cadere se Draghi interrompesse il sostegno ai titoli pubblici attraverso il Quantitative Easing, gli interessi sui titoli italiano risalirebbero a livelli insostenibili e allora dovremmo decidere se uscire o accettare la troika, una deriva Greca quindi, se non peggio. Li sarà la gente a decidere se accettare la troika e finire in una maniera terribile o a quel punto l’alternativa sarebbe affrontare le difficoltà di una rottura con l’euro.
Non lo so se l’euro è destinato a rompersi o meno, comunque vedevo stamattina un articolo su un giornale importante (17 febbraio n.d.r.) che raccontava che le famiglie greche sono oramai al collasso, affidano i figli a istituti di carità.

Qualche economista pensa che una svalutazione dovuta ad un’uscita dalla moneta unica e conseguente ritorno ad una moneta nazionale potrebbe far crollare i salari. Lei cosa ne pensa?
Direi che questi stanno crollando anche adesso e crollano fondamentalmente per due ragioni: la prima è che i salari reali sono diminuiti e in secondo luogo perché c’è disoccupazione. Io non guardo al salario ma guardo al reddito complessivo di una famiglia, se prima lavoravano padre, madre e il figlio maggiorenne, adesso lavora solo la madre (magari ad orario ridotto), quindi il reddito delle famiglie nel suo insieme è crollato. Allora come diceva giustamente Bagnai sul Financial Times, e credo che riprenda il mio pensiero, può darsi pure che la svalutazione, almeno all’inizio, incida negativamente sui salari reali, però se favorisce l’occupazione i redditi delle famiglie aumentano, cioè aumenta il complesso dei salari reali delle famiglie (cioè la capacità di acquisto n.d.r.). Quando riprende l’occupazione, l’ammontare dei redditi che va alle famiglie aumenta.
Se l’economia riprende ad espandersi finalmente riprende, la produttività che adesso langue per mancanza di domanda che a sua volta fa marciare le imprese a ritmi ridotti. Riprende la produttività e poi riprenderanno anche i salari reali.

Quindi non è una svalutazione che provoca una diminuzione dei salari ma la volontà (o la necessità) di volersi sviluppare attraverso le esportazioni, cioè compressione salariale per essere competitivi.
Se vuoi acquistare competitività verso l’esterno devi contemplare anche una diminuzione salariale, può darsi, almeno nel breve periodo, però se riprende l’occupazione riprendono i redditi delle famiglie. Magari il padre lavora, la madre guadagna un po’ di meno di prima, ma lavora a tempo pieno e il figlio magari part time ma lavora, insomma riprende tutto. E non è che questo è un modello “export led”, vuol dire solo che riprendere la competitività esterna ti consente di espandere poi la domanda interna utilizzando la politica fiscale senza incorrere appunto nel vincolo estero. Stai esportando di più quindi puoi anche permetterti di importare di più e abbassare le tasse.

Volendo sintetizzare il suo ragionamento direi così: all’inizio comprimo i salari per essere più competitivo e poter esportare di più. Accumulo soldi per poter spendere e comprare all’estero e quando la bilancia dei pagamenti sarà in equilibrio potrò utilizzare la leva fiscale, cioè potrò abbassare le tasse, per lasciare più soldi ai cittadini da spendere e aumentare così la domanda interna.
No, più che alla diminuzione dell’imposizione fiscale penso a una espansione della spesa pubblica (che ha anche la forma di salario indiretto ovvero di servizi sociali). Circa i salari reali, questi devono assolutamente crescere nel lungo periodo per sostenere la domanda.

Lei parla anche del Quantitative Easing, operazione della BCE attraverso la quale vengono comprati i titoli di stato dei paesi dell’eurozona e quindi anche i BTP italiani. Questa operazione dovrebbe servire a diminuire i debiti degli stati attraverso quello che in contabilità si chiama consolidamento. A marzo sono stati acquistati un totale ormai di 233 miliardi di titoli, verranno quindi consolidati e cioè stracciati e scalati dai 2.228 miliardi di debito pubblico contabilizzato?
Sì, in via di principio è così. Anche se non venissero comprati più titoli di debito pubblico non è che la Banca d’Italia si mette a rivendere quelli comprati. E questo è un consolidamento. C’è anche da dire poi che è vero che si pagano degli interessi su questi titoli ma una parte ritornano indietro al Tesoro.

Sì ma il debito pubblico reale dovrebbe essere più basso di quello indicato, al di là degli interessi pagati o incassati per opera del cosiddetto signoraggio. Una volta ricomprato il debito, i titoli che lo attestavano dovrebbero essere eliminati.
Certo, se la banca centrale appartiene allo Stato, emette liquidità, si ricompra i titoli e quindi li può stracciare. Se ha ricomprato 233 miliardi di titoli questi non fanno più parte del debito pubblico. In realtà la BCE potrebbe ricomprarsi tutto il debito, certo è chiaro che si crea liquidità e non è che questo è senza problemi.

Come dire, si può fare ma va fatto con criterio. Altrimenti la liquidità creata creerebbe inflazione?
Chi possedeva i titoli non è che spenderebbe la liquidità ricevuta, perché chi aveva i titoli li acquistati per investire dei risparmi, impiegando dunque dei quattrini che non aveva intenzione di spendere. Nel momento che li riavesse indietro, evidentemente continuerà a non volerli spendere. Quindi l’idea che si inonda il mercato di liquidità, che la gente spende e si crea inflazione non è fondata. Le persone che non avevano intenzione di spendere dei fondi prima, non li spenderanno dopo.
Certo questo potrebbe portare squilibri a vario titolo. Ci sono rischi sia con il QE americano che con quello europeo perché questa liquidità spesso finisce nei mercati dei paesi emergenti, fondi pensione, fondi comuni, mercati in cui i rendimenti sono più alti. Questo potrebbe portare ad una svalutazione di dollaro ed euro e ad una rivalutazione delle valute di quei paesi che si ritroverebbero monete forti che danneggiano la loro competitività. In più questa abbondanza di liquidità in questi mercati può creare bolle speculative, un esempio classico sono le bolle edilizie. Quindi paradossalmente il nostro Q.E. può essere un problema per i paesi emergenti mentre per noi rappresenta parte della soluzione.

Funzionerebbe meglio per il sistema e a livello macroeconomico se la liquidità immessa col QE fosse utilizzata per acquistare titoli deteriorati o di aziende a rischio fallimento?
Di quali aziende, con quali criteri selettivi… in effetti il QE è stato esteso alle grandi corporation, però qui entriamo un po’ nel libero arbitrio. Di fatto è già stato esteso. Comunque la Banca Centrale potrebbe benissimo intervenire per sistemare le banche a rischio fallimento, comprare i titoli tossici insomma.

Direi che non mi sembra poco. Adottare una soluzione del genere, che quindi mi sembra di capire sia possibile, risolverebbe i problemi di tanti risparmiatori e darebbe più fiducia al sistema bancario. Il QE dimostra, comunque, che è possibile stampare moneta senza necessariamente creare inflazione e rispettando determinati criteri. Che è possibile monetizzare il debito degli stati e che quindi in questo modo il debito pubblico potrebbe essere sotto controllo.
Da un punto di vista keynesiano lo Stato prima spende e poi raccoglie le tasse o i risparmi dei cittadini (se le imposte fossero sufficienti). Però prima lo Stato spende, crea moneta, e da un punto di vista keynesiano deve essere così. Poi quando riscuote le imposte, ritira questa moneta, quindi non è che questa moneta aumenta ogni anno di più proprio perché con l’imposizione fiscale la ritira. Questo è assolutamente vero in generale però qual è il punto, e questo anche per rispondere alle idee della MMT, qual è il limite della spesa pubblica finanziata dalla Banca Centrale attraverso la stampa della moneta? Il vincolo estero!
Vale a dire che, a meno di essere gli Stati Uniti, va benissimo spendere anche facendosi finanziare dalla banca centrale per sostenere la domanda e l’occupazione, ma se cresce troppo la domanda interna questo conduce ad importazioni troppo forti dall’estero e questo comporta indebitamento. La MMT ritiene che si possano pagare le importazioni in lire e questa è un’assoluta falsità, che illude qualche migliaio di persone che seguono la MMT.
Certo possiamo fatturare in lire ma dobbiamo garantire che la lira sia convertibile in moneta di riserva, dollari o monete forti, quindi questo è il limite a cui bisogna stare molto attenti, che non vuol dire che per crescere non ci si possa indebitare con l’estero, però deve farlo entro limiti molto forti.
Quindi è vera una parte dell’affermazione, lo Stato può benissimo spendere finanziandosi presso la banca centrale ma attenzione, un limite c’è insomma.

Si però immagino che questo limite sia più forte nel momento in cui si parli di uno stato debole, con poca capacità produttiva.
Beh storicamente l’Italia, ma anche la Francia hanno incontrato dei limiti.

Non mi sembra che abbiamo avuto storicamente grandi problemi con la bilancia dei pagamenti, direi che siamo sempre stati in grado di affrontare anche le situazioni più drammatiche come le due crisi petrolifere degli anni ‘70.
Possono permettersi di finanziarsi in questo modo Stati Uniti, i paesi di origine anglosassone, forse meno la Gran Bretagna, più il Canada, la Nuova Zelanda, l’Australia perché sono paesi affidabili, hanno un sacco di risorse naturali. La loro moneta è abbastanza accettata anche se sono in disavanzo estero e questo non è sostenibile per tutto il resto dei paesi del mondo. Punto. La MMT può raccontare quello che gli pare e piace, io ho messo sul blog una sorta di settima lezione del libro su questo argomento perché Wray, Mosler e altri scrivono spesso tutto e il contrario di tutto, e con chi usa questo metodo poi è difficile anche discutere.
Io mi sento a disagio con alcuni degli “economisti” che impazzano sul web, spesso improvvisatori e autodidatti. Ci vogliono studi solidi e maestri.

Lascio aperto il discorso esportazioni e capacità dell’Italia di tenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti, magari merita un approfondimento. Chi è il più improvvisatore?
Non facciamo nomi

Va bene. Mi chiedo e le chiedo: se è possibile monetizzare il debito, se una banca centrale può comprare titoli degli stati e quindi il suo debito, allora perché non lo fa? Immagino perché tenendo alta la paura del debito pubblico nelle persone, si rendono lecite tutte le politiche di austerity, alta tassazione, calo dei servizi e via dicendo.
L’austerità ha come strumento l’abbattimento del debito pubblico, ma il vero obiettivo dell’austerità è il debito estero. In questo modo i paesi riducono le loro importazioni, quindi una parte del loro disavanzo commerciale, e segnatamente le partite correnti, e cominciano a restituire o comunque non aumentano ulteriormente il loro debito estero. È questo che si vuole tenere sotto controllo.
In un certo senso è anche ragionevole, ma dipende dal contesto. È da ricordare che il debito italiano è piccolo, il debito estero della spagna è molto più grande. Il nostro debito netto è il 25% del PIL, la Spagna il 90%. La Spagna ha un debito privato elevato e un debito estero elevato. In linea di principio è messa peggio dell’Italia. Però siccome la Spagna ha fatto riforme del lavoro più feroci di quelle italiane la Commissione Europea è più accomodante. E questo le permette di fare politiche in disavanzo senza incorrere in procedure per levato deficit, come invece succede a noi.

Professore, ha senso la frase “non ci sono soldi”?
Come dicevamo sopra, se avessimo una banca centrale i soldi ci sarebbero per definizione, con i limiti del vincolo dell’indebitamento estero. Non possiamo pensare di espandere la domanda interna e cominciare a importare dall’estero e indebitarci. I soldi li creiamo noi ma se cominciamo ad importare troppo poi non possiamo pagare utilizzando questi stessi soldi, abbiamo bisogno che ci prestino altre valute, che ci prestino dollari, valute di riserva. Possiamo anche fatturare in lire, certo, ma la gente si confonde, il seguace della MMT dice: noi possiamo fatturare in lire. Certo! Basta però che assicuri la convertibilità della lira. Che chi è pagato in lire possa rivolgersi a quello che una volta si chiamava ufficio italiano dei cambi, una branca della banca d’Italia, che possa cambiare i tuoi soldi in dollari. Ci può essere un po’ di flessibilità ma un po’ di dollari li devi avere.

La MMT considera troppo poco l’importanza delle banche commerciali nella creazione del denaro/credito?
Questo non saprei, ma protendo più per il no. Anzi siamo d’accordo con il fatto che la creazione di credito da parte delle banche vada tenuta sotto controllo se no si creano queste bolle che descrive Minsky che è il loro economista di riferimento e spiega le bolle edilizie o finanziarie che poi si trasformano in crisi conseguenti. Siamo d’accordo che queste attività, la creazione della moneta bancaria, il credito, vadano tenute sotto controllo.

La disoccupazione si combatte meglio con una moneta e uno stato sovrano?
Naturalmente.

Pdf dell’intervista:
intervista-cesaratto

POLITICA
Gli Stati nazionali sono in agonia.
Multinazionali e tecnocrati pronti a staccare la spina

di Vincenzo Masini

La critica all’establishment e al suo stile politically correct deve oggi incentrarsi su un’analisi della crisi della democrazia come frutto della sottovalutazione del cambiamento epocale prodotto dalla globalizzazione e dall’ingresso imprevisto sulla scena politica di 75.000 multinazionali (di cui circa 400 con un orizzonte di interessi mondiale), che sono il vero luogo delle decisioni politico-economiche che orientano il mondo.

Non è un caso che le consultazioni democratiche si orientino verso i populismi per cercare di fermare o rallentare il processo di dominio sul mondo di questi potentissimi gruppi di interessi (a cui le diverse fazioni micropolitiche dei partiti tradizionali fanno riferimento pensando in questo modo di poter ricavare qualche fetta di potere come servi sciocchi). Non è nemmeno un caso che i più fini politologi pensino che, fino a quando gli Stati hanno ancora un potere giuridico-legislativo, sia il caso di rendere democraticamente elettive le cariche dei consigli di amministrazione di queste multinazionali che, tendenzialmente, rappresentano la nuova forma di governo mondiale nella web society. E propongono questa operazione di democratizzazione prima della tendenziale estinzione degli stati postmoderni. Dopo, sarebbe ovviamente troppo tardi.

A ben vedere gli unici Paesi che hanno ancora dignità di Stato moderno sono solo quattro – gli Usa, la Russia, la Cina e l’India – che, per la loro estensione la loro organizzazione statuale possono ancora confrontarsi con le superpotenze dell’economia transnazionale. Gli altri Stati hanno in gran parte perso la loro identità per permeabilità dei confini, per fragilità degli ordinamenti, per impossibilità di intervento sui processi macroeconomici, per dipendenza dai processi finanziari internazionali e per incapacità di gestione amministrativa delle loro risorse. Queste ultime gestite con margini di manovra insignificanti rispetto alla necessità di ripensare, riprogettare e ricostruire l’idea stessa di stato sociale.
La consunzione degli Stati moderni appare evidente, sotto i nostri occhi, nel concreto fallimento dell’idea di welfare state (egualitario, erogatore di servizi, amministratore della fiscalità, equanime, onesto e improntato alla giustizia sociale) di cui non solo non vi è più traccia, ma nemmeno più idea. La progressiva disintegrazione degli Stati moderni avviene sotto la spinta di molteplici fattori. Da un lato l’irrimediabile crisi fiscale, con la conseguente impossibilità di pareggio di bilancio. Tale crisi fiscale è strettamente connessa alla globalizzazione, che consente alle multinazionali di localizzare le unità produttive e le unità amministrative a seconda delle loro convenienze. Le unità produttive dove il costo del lavoro è più basso, magari godendo contemporaneamente dei contributi e degli incentivi statali nei paesi dove hanno la sede amministrativa. Nel 2016 sono state più di 20 le multinazionali (Bialetti, Omsa, Rossignol, Ducati Energia, Benetton, Calzedonia, Stefanel, Telecom, Wind, Vodafone, Sky Italia, Almaviva, Magneti Marelli, Bianchi, Vesuvius, per citarne alcune) che, dopo aver ricevuto incentivi da parte dello Stato, hanno delocalizzato la produzione in altri paesi licenziando i loro dipendenti in Italia.
Le unità amministrative, invece, nei paesi dove la tassazione dei loro utili è più bassa giocando sulla mancanza di regolamentazione fiscale internazionale. Basti pensare alla sede fantasma della Apple in Irlanda, da dove convoglia con facilità gli utili nei paradisi fiscali, o alla sede di Amazon in Lussemburgo dove paga solo l’1% di tassazione. Un calcolo di massima su tali forme di evasione, perfettamente legale poiché gioca sui vantaggi offerti dalle arretratezza degli Stati rispetto alla velocità operativa delle multinazionali, vede nella somma di mille miliardi il mancato introito fiscale degli stati europei evaso dalle multinazionali.

Dal lato dei bisogni, la segmentazione burocratica delle forme assistenziali di welfare manca di una idea guida in grado di orientare il futuro assetto complessivo della società e non risolve i conflitti sociali determinati dalla mancanza di strategia e di obiettivi: come risolvere, per esempio, il conflitto tra i fondi erogati per l’accoglienza di migranti e le condizioni di povertà in cui versano migliaia di cittadini italiani? E da cosa dipendono questo e altri conflitti che hanno eroso la possibilità di far esistere il welfare? E qual è la principale causa della progressiva estinzione degli Stati e la vincente organizzazione mondiale delle multinazionali, che sanno fare meglio degli Stati e soprattutto sanno fare a meno degli Stati?

L’idea ottocentesca di Stato la cui Costituzione è centrata sull’homo faber (la repubblica fondata sul lavoro) richiede o una ridefinizione del concetto stesso di lavoro o la ridefinizione del fondamento costituzionale incentrando, per esempio, il significato dello Stato sul principio guida della solidarietà.
I principali valori di riferimento della modernità sono stati la libertà, l’uguaglianza e la fraternità e le diverse forme di democrazia hanno rivestito il ruolo di metodo per realizzarli e ampliarli anche a valori di accettazione, tolleranza (figlie della libertà), giustizia e progresso sociale (figli dell’uguaglianza), accoglienza e responsabilità (figlie della fraternità).
Se nella attuale contingenza della globalizzazione si può osservare il ruolo delle multinazionali come destrutturatore dei criteri valoriali del welfare, si deve però notare anche che, nel corso dei decenni più recenti, ciò che ha sistematicamente impedito agli Stati postmoderni la realizzazione di un sistema di funzionante di welfare è stata la burocrazia.

L’idea weberiana di burocrate a cui ci siamo assuefatti era incentrata su:
– la fidelizzazione del burocrate al sistema gerarchico che è andata in crisi da quando il lavoro burocratico non è più consacrazione e appartenenza a una casta venerabile e prestigiosa, ma diventa una professione con una carriera simile alle altre, sindacalmente tutelata con forme di contratto collettivo stipulate con “se stessa”.
– l’impersonalità nelle relazioni esterne e interne sistematicamente influenzate da mediazioni di “convenienza politica e sociale”, che utilizzano diverse velocità nell’espletamento delle pratiche demandate al potere della burocrazia.

Il fondamento del potere della burocratico è infatti l’inerzia, ovvero il deliberato rallentamento (coperto da motivi sempre misteriosi) delle trafile a meno che una potenza esterna non faccia pressioni per velocizzarle.
La presenza di un sistema formale di regolamenti non è più la ragione della struttura piramidale gerarchica nell’organizzazione burocratica giacché il burocrate conosce bene i sistemi per aggirare quella complessità crescente del sistema che la burocrazia stessa produce, governa e regola rendendo inossidabile il suo potere.

Solo sostituendo la sbagliata concezione weberiana di burocrazia con quella dimentica (o rimossa?) del potere delle élites del nostro Vilfredo Pareto si riesce a comprendere l’evoluzione della burocrazia in tecnocrazia con due principali conseguenze.
Per i burocrati di basso rango non prescelti per l’ingresso nelle élites è iniziata una fase di profonda alienazione che li ha condotti all’inefficienza selettiva e a vere e proprie sindromi passivo-aggressive versi cittadini, alla finzione della neutralità, alla disuguaglianza selettiva, alla incapacità addestrata teorizzata da Veblen, alla deformazione professionale di Warnotte, al ritualismo operativo fino all’assenteismo organizzato.
I burocrati di alto rango, prescelti attraverso i canali privilegiati della conoscenza burocratica del funzionamento dei concorsi pubblici, della selezione per titoli, dell’incarico ad personam – ovviamente motivato in modo burocraticamente perfetto e blindato – sono stati selettivamente cooptati all’interno della casta dei tecnocrati al servizio e compartecipi della superclass delle multinazionali e delle sue diramazioni di potere vigenti nei diversi paesi proprio attraverso le diverse tipologie di tecnocrati attive nei settori chiave degli stati. Tecnocrati e Superclass e le loro organizzazioni internazionali hanno infatti in comune l’odio per le democrazie politiche degli Stati sovrani e con molta lucidità ne vedono la progressiva dissoluzione.

Gli Stati possono però evolvere verso forme più mature, anche tendenzialmente più democratiche e solidaristiche, attraverso la nascente web society, e vogliono incidere sull’ordine mondiale per non perdere il privilegio di auto confermarsi per cooptazione. Vilfredo Pareto descriveva molto bene questi processi di cambiamento quando affernava che “la storia è un cimitero di élite”. Se infatti l’élite non è più in grado di agire con una buona cooptazione di membri e, soprattutto, con idee razionali di organizzazione per l’intera società ma solo attraverso azioni non logiche guidate da residui primitivi di ricerca di potere personale, decade o produce effetti invalidanti e distruttivi per l’intera società (crisi economiche, sociali, conflitti, guerre, ecc..).Per evitare il baratro verso cui ci stanno facendo avvicinare è necessario scegliere semplicità in luogo di complessità crescente (specie sul web), trasparenza in luogo di opacità e popolarità in luogo di tecnocrazia.
Vota per chi vuoi ma, se ami la democrazia, scegli con cura candidati non burocrati o tecnocrati o candidati imparentati con loro.

PROSPETTIVE
Europa al bivio: un cambiamento è possibile

di Grazia Baroni

La storia dell’umanità, consapevolmente o no, procede evolvendosi nel desiderio degli uomini di costruire una civiltà sempre più aperta e condivisa nei suoi valori più profondi di libertà, fraternità e parità, condizioni necessarie per una vita di pace e prosperità.
Per questo dopo gli orrori e le distruzioni dovute alla due guerre mondiali era necessario inventare nuovi modi per procedere nell’emancipazione dei popoli in nuove forme di civiltà.
Così è nato il progetto di costruzione dell’Europa unita attraverso le comunicazioni e le relazioni economiche, pensando che tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza ma trascurando il fatto che ormai tutto era cambiato a partire dalla coscienza del valore della vita umana, dopo i milioni di morti e della necessità di poter esercitare la libertà personale, dopo fascismo e nazismo, perchè la vita abbia un senso. Questo è possibile solo in uno spazio libero e comune che tenga conto dei processi storici delle singole nazioni.
Per fare questo c’era bisogno di un nuovo progetto che rappresentasse, nella sua novità, il salto storico, necessario a comprendere la nuova coscienza civile che nella seconda guerra mondiale si era maturata: in sintesi il vino nuovo non può farsi in otri vecchi ma ha bisogno di otri nuovi, altrimenti questi scoppiano.
La trasformazione della sovranità nazionale di dimensioni circoscritte in una sovranità nazionale più ampia non poteva più avvenire con la conquista di un popolo più forte a scapito degli altri più deboli, ma sarebbe dovuta avvenire con lo scambio e il reciproco riconoscimento dei valori che ciascuna nazione portava a eredità comune. Occorreva un progetto nuovo, ad hoc. Per questo c’è bisogno dello Stato democratico d’Europa tutto da definire e realizzare.
Gli stati uniti d’Europa dovrebbero dotarsi di una Costituzione scritta da un Parlamento costituente, eletto con questo preciso compito, e tale Costituzione dovrebbe rappresentare il progetto per il quale gli stati europei si costituiscono Unione.
Perché questo progetto si possa realizzare, secondo me, è necessario definire i nuovi contorni del progetto Unione Europea in modo da comprendere la società attuale che è molto diversa da quella appena uscita dalla seconda guerra mondiale, sia nei suoi valori che nelle sue paure e limiti culturali.
Quindi come fare perchè questa utopia sia veramente lo sprone nel prossimo futuro a trasformare le singole realtà statuali in esperienze consolidate? Come fanno gli stati a definire il progetto Europa in modo che ciascun popolo sia in grado di discernere gli elementi politici, storici e culturali che sono ancora utili e necessari da quelli che invece bisogna abbandonare?
Abbiamo sufficiente esperienza per poter definire, o almeno indicare, alcune qualità su cui dovrebbe poggiare uno stato moderno a livello di una società globalizzata, cioè di una società in cui ogni cittadino, che ne sia consapevole o no, è direttamente connesso a tutti gli altri ed in cui ogni sua scelta o azione produce trasformazioni in tempo reale in tutto il sistema.
Nonostante il nostro sviluppo e l’esperienza accumulata, non abbiamo ancora un’adeguata consapevolezza né delle nostre possibilità né dei nostri limiti, perché abbiamo appena incominciato a fare i primi passi nello sperimentare i concetti di democrazia, cittadinanza e autonomia; non abbiamo ancora raggiunto neppure l’adolescenza nello sviluppo di questi concetti.
Oggi, per esempio, il riferimento ai diritti umani nella carta dell’ONU è molto presente, nonostante questo non tutti i cittadini sono ancora disposti a tenerne conto in ogni situazione e per tutte le persone.
Oggi è possibile sperimentare un grado di libertà ineguagliabile rispetto ad altri momenti storici, anche se non tutti la sanno veramente esercitare nella sua qualità. Comunque, se dovessimo perdere tale dimensione di libertà ne soffriremmo indicibilmente. Oggi ciascun cittadino può fare esperienza della propria capacità di vivere autonomamente, di sapersi organizzare e di potersi informare, anche se non ha ancora del tutto la capacità di riconoscere la qualità delle informazioni e quindi la sua capacità di scelta è ancora troppo dipendente dal pensiero dominante.
Credo quindi che una delle prime cose da fare sia riformulare il concetto di democrazia perchè ormai abbiamo sperimentato che non coincide soltanto con la volontà della maggioranza così come viene definita oggi. La democrazia non può essere solo maggioranza ma deve essere capace di rispondere anche ad altre qualità: uno stato democratico deve costruire una società che permetta a tutti di esprimere il proprio pensiero e di riconoscersi, almeno in parte, nella civiltà che contribuiscono a costruire. Questo nuovo concetto di democrazia non solo contiene, ma supera, il concetto di uguaglianza tra tutti i cittadini e lo sviluppa nel concetto di parità; si passa perciò da un valore quantitativo ad un valore di qualità complessiva che, oltre a rispettare il singolo, ne valorizza la diversità; in poche parole si vuole affermare l’unicità come caratteristica imprescindibile di ogni persona, di ogni cittadino.
La seconda cosa da fare è ridefinire il concetto di Stato e quindi la sua Costituzione. Secondo me, lo Stato dovrebbe riconoscere che non si fonda su una Nazione ma che, come dimostra la storia, nasce da diverse Nazioni che si riconoscono in valori accettati come tali. Parlo di quei valori che nel tempo hanno permesso lo sviluppo della qualità della convivenza sociale e che hanno migliorato anche la sopravvivenza. La Carta Costituzionale dovrebbe, perciò, fare esplicito riferimento al concetto di democrazia nella quale si riconosce e si fonda, per poi puntualizzare gli elementi sostanziali entro i quali si definisce il progetto di Stato che si intende costruire. Essendo la Costituzione un progetto, va reso esplicito che dovrà essere verificata, se non corretta, in itinere e che perciò la sua struttura dovrà essere ferma ma non rigida, presente in ogni parte ma non invadente, completa ma non definitiva.
Gli elementi strutturali sufficienti e necessari a costruire uno Stato democratico, per me, sono: la scuola, la salute, l’informazione, l’approvvigionamento energetico e le telecomunicazioni, i trasporti e i servizi di pubblica utilità come il servizio civile, la protezione civile e i servizi di sicurezza delle persone e del patrimonio.

Note sull’autrice
Grazia Baroni, nata a Torino il 25 febbraio del 1951. Ha ottenuto il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento. Laureata in architettura, ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore di secondo grado. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio(CELIT). Socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana.

LETTERATURA
L’ombra grigia del burocrate dai romanzi alla vita:
identikit dei ‘mezzemaniche’

Chino fino a toccare con la fronte il cumulo di carte da timbrare e protocollare, con quelle mezzemaniche scure e gli occhiali che scivolano sulla punta del naso, mani secche e nervose che impugnano saldamente la penna e piedi ordinatamente congiunti sotto la scrivania di legno scheggiato: ecco la figura del burocrate che troviamo rannicchiata nei racconti e nei romanzi di qualche tempo fa, il cui eco rimane anche nella letteratura più recente, seppure con i dovuti distinguo. Una figura grigia, raccolta nella sua totale introversione che la isola dal resto del mondo, dipinta con tratti di fastidio per quella sua diligenza maniacale e servile che la rende ancora meno popolare.

Un piccolo anonimo eroe che non sempre però è disposto ad assoggettarsi alla tetra omologazione imposta dalla società e improvvisamente tenta forme di ribellione e rivolta che inceppino l’ingranaggio della macchina sociale, quasi fossero piccoli sabotaggi che disturbano fino a rischiare di diventare una minaccia. Ed allora tutto cambia: l’eroe cade in disgrazia, viene isolato, per lui non rimane che il suicidio o l’internamento in manicomio, additato, disprezzato, odiato. La reclusione assume i connotati della punizione che gli spetta per aver osato rompere gli schemi, per aver alzato quella fronte china. Ne è un esempio Bartleby, il copista, una “figura pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida”, protagonista del racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street (1853). L’impiegato, assunto in uno studio legale, lavora all’inizio con scrupolo e affidabilità. Dopo poco, messo di fronte ad altri compiti e mansioni, rifiuta con un “I would prefer not to” – Preferisco di no. Il gran rifiuto sarà l’avvio alla sua lenta discesa che lo porterà a smettere del tutto di lavorare, di nutrirsi, di vivere, motivando le sue scelte con la stessa immutabile frase “ I would..”. Sotto gli occhi del lettore, Bartleby si trasforma in una larva umana che lascia lentamente un lavoro alienante, quattro mura soffocanti, dei colleghi estranei e un’organizzazione che succhia energia vitale. Quando l’uomo muore d’inedia, la sua scomparsa viene attribuita disinvoltamente al suo lavoro precedente presso l’Ufficio Lettere Smarrite di Washington dove maneggiare lettere morte lo aveva condotto alla depressione e alla follia.

Diverso risulta l’universo impiegatizio descritto da Honoré de Balzac nel racconto Gli impiegati (1844) e l’ufficio diventa l’habitat di servilismi, arrivismo, rapporti umani malati, scontri, alleanze, astuzie e viltà. L’impiegato, per Balzac, è “un prodotto che nasce, si ottiene, si scopre, si sviluppa soltanto nelle calde serre di un governo rappresentativo” che gli impedisce un ruolo onorevole e ne fa un suddito. Nel racconto, l’impiegato parigino Rabourdin, sposato a una donna di ceto sociale superiore, rincorre la promozione che gli permetterà la scalata sociale e si aggrappa alle conoscenze, le raccomandazioni, la benevolenza dell’uno o dell’altro per arrivare allo scopo. E’ solo uno dei 30.000 impiegati dell’epoca, un uomo senza una caratterizzazione precisa, che non merita descrizione approfondita ma diventa l’emblema di uno spicchio di società in cui ciò che conta è farsi strada a cinici spintoni, tra ansie e speranze di avanzamento. Con Napoleone che nel 1800 istituì i prefetti, dando l’avvio alla macchina statale con il suo esercito di funzionari, burocrati, amministrativi e prima ancora Maria Teresa d’Austria (1717-1780) che attuò importanti riforme in campo amministrativo e giuridico, la burocrazia diventa l’ossatura del sistema, un formidabile veicolo di carriere e promozione sociale, uno dei perni dello Stato insieme all’esercito. “Novelle per un anno” (1922) di Luigi Pirandello, è una raccolta di 255 novelle in cui i protagonisti sono esponenti delle borghesia impiegatizia. Tra essi c’è l’impiegato Belluca, animatore di una memorabile storia dal titolo “Il treno ha fischiato”. E’ un computista modello, puntuale, irreprensibile, preciso, sottomesso che improvvisamente si ribella al suo capoufficio assumendo comportamenti del tutto estranei alla sua vita scandita dal lavoro in ufficio e l’assistenza a tre donne vecchie e cieche, nonchè due sorelle vedove con sette figli. Questa rivolta d’impeto gli costerà cara e sarà internato in un ‘ospizio dei matti’. L’uomo continuerà a parlare con veemenza del fischio di un treno a chi gli fa visita. Un fischio che aveva squarciato qualcosa nella sua routine alienante e gli aveva permesso di intravvedere la libertà, una dimensione diversa dalla trappola che lo aveva fagocitato.

Ed arriviamo all’Italia dei giorni nostri, dove in ‘Cordiali saluti’ (2005) di Andrea Bajani, lo scenario dei burocrati diventa una jungla. Carlo Simoni, dipendente di una grossa azienda viene licenziato. Il suo compito era scrivere lettere di licenziamento da inoltrare ai colleghi da congedare: lettere accurate, piccole opere d’arte. Il suo posto viene occupato da un giovane e quando Simoni muore in seguito a grave malattia epatica, viene affidata al nuovo entrato l’incombenza di scrivere il discorso per la commemorazione. Il giovanotto lo farà, ma non parteciperà alla cerimonia funebre perché in quel frangente si sarà già accomodato su un aereo per destinazione ignota. Anche Georges Courteline, in ‘I mezzemaniche’ (2008), muove i suoi personaggi in una scena da teatro dell’assurdo. I burocrati si muovono nei corridoi e spazi comuni dei ministeri come non appartenessero a quel luogo e a quel preciso istante. Il piccolo funzionario ministeriale è una figura perfettamente globalizzata ancora prima che esistesse la globalizzazione come fenomeno esteso; una maschera universale che sarebbe piaciuta anche a Pirandello. Esseri descritti con un sorriso ironico e una risata finale, tante piccole parodie moderne.

La sociologia ha raccontato più volte i ‘colletti bianchi’ ma è la letteratura a sondarne gli aspetti più profondi. D’altronde, molti grandi autori come Kafka, Saba, Fenoglio, Montale, Zola, Turgenev svolsero il lavoro d’ufficio per brevi o lunghi periodi, per necessità o per temporanea esperienza di vita. La letteratura, ebbe a dire Oscar Wilde, anticipa sempre la vita. Non la copia ma la foggia per il suo proposito.

MUSICA
La poesia a braccetto con la chitarra
Intervista al cantautore Diego Capece, il ‘terroNista’

Intervista al cantautore Diego Capece, “Il TerroNista”

di Eleonora Rossi

Un appuntamento con ‘il TerroNista’ potrebbe apparire alquanto minaccioso. Ma solo fino a quando Diego Capece, cantautore lucano, non alza gli occhiali scuri per accoglierci con un sorriso e con uno sguardo caldo e profondo, come la sua voce. Per raccontarci il suo attaccamento viscerale alla musica: “Da studente universitario ho fatto la ‘fame’ per comprarmi il cofanetto dei Beatles”, sorride Diego. Una passione che gli appartiene da sempre e con cui è cresciuto; aveva appena sette anni e già si era fatto regalare un karaoke giocattolo: “Ero piccolo e cantare dentro un microfono chissà che cosa mi sembrava! Quasi una magia”. La musica è diventata poi la “migliore amica”, la “compagna anarchica”, “l’amante preferita”, come canta Diego nel brano ‘Nient’altro che la musica’, un inno alle note e alla poesia – le parole che restano: perché, sottolinea l’autore, “la poesia accompagna sempre la nostra esistenza e quando abbracci la chitarra entri nel tuo mondo”.

Dal primo karaoke, con la magia della voce amplificata nel microfono, puoi raccontarci il tuo incontro con la musica?
Quando ero bambino internet non era una moda e trovare la musica non era facile, io ebbi la fortuna di conoscere Antonio Grasso, un signore di Castelluccio Inferiore, il mio paese; ricordo, avevo 12 anni, mi regalò una cassetta dei Pink Floyd, The Wall: “Fra qualche anno li capirai”, mi disse. Dopo le scuole superiori io e Antonio ascoltavamo continuamente musica ci scambiavamo cd e dvd. De Andrè era uno dei suoi cantanti preferiti. Poi ho scoperto il rock ed è stata… la fine! Ascoltavo di tutto, dai Led Zeppelin ai Doors: a 16 anni mi vestivo come Jim Morrison e ho iniziato a suonare dal vivo con una cover band del mio paese. Il mio amico Antonio, con cui ho condiviso giornate e musica, purtroppo è morto giovane: gli ho dedicato una canzone, “È inutile scappare al proprio destino”. È cominciata così: poi sono cresciuto musicalmente ed è iniziata l’avventura da cantautore.

Come nasce il ‘TerroNista’?
‘Il TerroNista’ nasce dalle ceneri di Jake Moody, cantautore e chitarrista lucano che nel 2012 ha intrapreso questo progetto. È un progetto che mescola diversi elementi che creano una sintesi familiare e originale al tempo stesso; una musica folk-rock combinata a ritmi mediterranei, popolari, fanno da cornice ai miei testi, spesso semplici, ma che esprimono quello che hanno da dire in modo diretto e coinvolgente.

Come sei arrivato a questo progetto?
Ad inizio 2013 ho presentato un album dal titolo ‘Libertà di espressione’ al teatro Stabile di Potenza. Ho partecipato poi al Dedalo Festival, aggiudicandomi la III edizione del Woody Groove Sound Festival; in occasione del festival ‘Inzanstock’ ho aperto il concerto de ‘I Soci’ – con Cosimo Zannelli, Federico Sagona e Pino Fidanza che hanno collaborato con Piero Pelù e i Litfiba – e sono stato finalista del concorso ‘Targhe d’autore controcorrente’. Nel gennaio 2014 grazie all’album ‘Libertà di espressione’ ho firmato un contratto con la Hydra Music, di Eboli, che collabora con artisti del calibro di Tullio De Piscopo, Enzo Gragnianiello, Alessandro Haber. Io e il mio quintetto abbiamo vinto poi il contest ‘Facimm Juorn’ organizzato dalla Pro Loco di Sasso di Castalda (Potenza) con l’opportunità di registrare un EP, con la collaborazione dell’artista siciliana Valeria Cimò.

Chi suona insieme a te?
Per il momento, nel tour invernale, sto suonando con un trio folk acustico, con Marco Ielpo alla chitarra e Fausto Picciani al cajon. Ma per la formazione che mi accompagnerà per il prossimo tour estivo, la speranza è quella di recuperare alcuni musicisti che hanno fatto parte della formazione precedente, oltre ai ragazzi che già suonano attualmente con me, per completare la band. Le ‘ballate del terronista’ invece è stato registrato insieme a Domenico Carabotti (tastiera, fisarmonica e synth), Massimo Catalano (ukulele e mandolino), Giovanni Catenacci (sax e clarinetto), Rocco Sinisgalli (basso), Ivan Leone (batteria e percussioni).

Che cosa racconti nelle ‘Ballate del terroNista’?
‘Le ballate del terroNista’ è il mio esordio discografico, il mio progetto in uscita a marzo. Nei brani che ho scritto, la tradizione musicale lucana e del Meridione diventano il veicolo di una sorta di inno per il riscatto di un’intera generazione di miei conterranei. Sono appassionato alla storia della mia terra, alla storia del brigantaggio. ‘Le ballate del TerroNista’ è un EP di quattro brani con influenze folk che rievocano la Basilicata. I ritmi mediterranei sono la cornice di testi ispirati dai racconti e dalle esperienze della gente comune. Quando scrivo, io mi immedesimo nelle persone e nelle storie. Dalla traccia di apertura che delinea la figura del TerroNista, personaggio figlio della sua terra e delle sue tradizioni, fino ad arrivare alle ballate che completano il disco, tra cui ‘La ballata di Franco’, con special guest Valeria Cimò alla voce e alle percussioni: testi espressivi sposano una musica che deve tanto alla tradizione popolare, ma che non è mai mera imitazione.

Scrivi: “Il terroNista che tutto il mondo conquista”, “è simpatico e ospitale, non dovete volergli male”. Mi colpisce, nei tuoi testi, l’autoironia e la capacità di far riflettere e di provocare. In alcuni brani si avverte però anche una certa rabbia.
Ho scritto canzoni sincere. “In libertà di espressione” c’è la voglia di far sentire la propria voce: è un testo a tratti riflessivo, a tratti arrabbiato. Vorrebbe essere la denuncia di un uomo colpevole di andare verso l’autodistruzione. La mia canzone ‘Una sera qualunque’ è uno sfogo amaro. Altri brani – come ‘Monte-Citorio’ e ‘La fine del mondo’ – sono brani di protesta. ‘Il musicista Jake’ racconta il mio esordio nel mondo della musica e l’etichetta che mi è stata assegnata dalla gente del paese, di una piccola realtà, destinata a rimanere la stessa nel corso del tempo, ma per fortuna ho avuto modo di smentirla. Nell’ultimo disco ‘Il TerroNista’ descrive in modo autoironico un ‘terrone medio’, penso che l’autoironia sia una delle armi più forti per far colpo sulla gente.

È stato scritto di Diego Capece: “Il suo legame con Bennato è chiaro, per le sfumature musicali e il tono della voce, rievoca invece Fabrizio De Andrè nella sua predisposizione a raccontare l’elemento popolare, infine Giorgio Gaber quando denuncia realtà politiche e lo fa con ironia”. Ma al di là degli autori che può evocare – aggiungo io che scrivo – i testi e la musica del ‘TerroNista’ hanno uno stile unico. “Gli arrangiamenti, che vedono partecipi strumenti immancabili nel folk come chitarra, ukulele, fisarmonica, sax e percussioni, riescono a trasmettere a chi ascolta il calore tipico mediterraneo – ha osservato Alice Sbroggiò -. Come se si venisse in un attimo trasportati in Basilicata, luogo di provenienza di Capece e culla del suo progetto. Il TerroNista ha racchiuso all’interno del suo disco, l’anima della sua terra”. Le canzoni sono da ascoltare e riascoltare. Da meditare e da cantare. Da bere come un vino buono. Alla ‘leggerezza’, al colore e all’incanto del folk “con piacevoli contaminazioni etniche” , il TerroNista unisce testi profondi, riflessioni sull’esistenza e sulla vocazione alla musica, che chiama ad essere se stessi, fino in fondo. Delusioni e ideali, da seguire instancabilmente. Poesia cucita sulla pelle. E una strada da cantautore, come scrive Diego Capece: “Non sono io che ho scelto di fare il cantautore, è il cantautore che ha scelto di entrare dentro me (e tutti i giorni mi chiedo perché!)”. Un ‘destino’ che gli detta parole come queste: “In silenzio possiamo sfondare le fredde barriere del cielo. La poesia scalderà la musica dopo il disgelo”. E ancora: “Mostriamoci per quello che siamo”, “vogliamo vivere, non solo esistere, facciamolo adesso, senza esitare. La musica ci farà continuare ad amare”.

ARTE
In mostra le luci e le ombre di Artemisia Gentileschi, eroina protofemminista dell’Italia barocca – seconda parte

[segue dal settimanale precedente]
Il successo fiorentino della “pitturessa” è quindi legato alle sue invenzioni teatrali, vicine alle rievocazioni storiche e mitologiche del coevo teatro musicale, come nella grande tela con ‘Ester e Assuero’ (1626- 29), New York, The Metropolitan Museun of Art. Nella scena in cui Ester compare dinnanzi al trono del marito, si svolge una complicata storia d’amore, di morte, di virtù e di potere. Il tema dell’incontro tra Ester, eroina ebraica e Assuero, potente re di Persia, è narrato dall’artista con la solita ricchezza di particolari: abiti sfarzosi ed enfasi melodrammatica che sottolinea lo svenimento della giovane donna indebolita dal digiuno, il pallore del suo volto, l’immediata reazione delle due ancelle che prontamente la sorreggono, mentre il giovane Assuero si alza preoccupato dal trono per andare in suo soccorso. Prova di bravura tra le più riuscite, questa versione dell’episodio biblico non ha riscontri in nessun altra rappresentazione analoga dell’epoca per originalità e spirito barocco, evidenti nel contesto spaziale e nel movimento dei due protagonisti che, mimando un andamento di danza, rivelano la relazione complessa che li lega e l’enfasi dell’artista spinta con empatia a sedurre lo spettatore.

Autoritratto come allegoria della pittura

Nel 1622, Artemisia fa ritorno a Roma, dove intreccia un intenso rapporto di committenza con Cassiano Dal Pozzo, colto nobiluomo toscano, studioso e collezionista che intrattiene una fitta corrispondenza con molti artisti del suo tempo, inclusa la Gentileschi, di cui sarà il principale sostenitore e alla quale commissionerà il celebre ‘Autoritratto come allegoria della pittura’ (1630, Londra, Windsor Castle Royal Collection). Dal Pozzo stava raccogliendo una collezione di ritratti curiosi di persone singolari per stravaganza o rara intelligenza ed aveva già commissionato alla pittrice Giovanna Garzoni, un ritratto di Anna Colonna e nella sua raccolta vi era pure un ritratto di Cristina di Svezia. L’autoritratto di Artemisia non si inquadra in nessuna tipologia consolidata per gli autoritratti. Il soggetto non guarda direttamente l’osservatore, ma è comunque un’immagine autoreferenziale, un’allegoria appunto nelle sembianze della pittura. Probabilmente l’artista trasse ispirazione dalla descrizione che ne fa Cesare Ripa nella sua Iconologia. Infatti nel dipinto appaiono gli stessi attributi della personificazione della pittura: la catena d’oro, la maschera pendente che rappresenta l’imitazione, i riccioli ribelli della donna che simboleggiano la creatività artistica, l’abito cangiante segno di maestria esecutiva.

Famose artiste rappresentarono se stesse prima di Artemisia: Sofonisba Anguissola (1535-1625) e Lavinia Fontana (1552-1614) ritraendosi spesso o al cavalletto o nello studiolo. Entrambe tuttavia mettevano in risalto oltre alle proprie capacità artistiche anche la propria condizione nobiliare. All’ ‘Allegoria della pittura’, invece, Artemisia offre le proprie sembianze per sottolineare la straordinaria posizione di donna pittrice (nell’atto stesso di dipingere), di cui troppo spesso aveva sperimentato la grande anomalia. Essere donna, nella categoria dei pittori, corrispondeva ad aver raggiunto il prestigio sociale di personaggi famosi come Anton Van Dyck di cui conosceva l’autoritratto. Ad osservare attentamente l’autoritratto della pittrice sembra che dalla sua bocca escano le parole che scriveva al suo corrispondente Don Ruffo in Sicilia: “E farò vedere (…) quello che sa fare una donna”, aggiungendo poi “ritroverà uno animo di Cesare nell’anima duna donna”. Dopo un soggiorno a Roma documentato negli anni 1622, 1625, 1626 e un probabile soggiorno a Venezia si stabilisce a Napoli fino al termine della sua vita (1654 circa), trascorrendo però a Londra un breve periodo (1638-39) per completare gli affreschi con il trionfo della pace e delle arti nel soffitto della Qeen’s House di Inigo Jones a Greenwich, iniziati dal vecchio e ormai ammalato padre, Orazio.

A Napoli arrivò nel 1630, in tempo per vedere l’eruzione del Vesuvio (1631) e vivere avvenimenti drammatici della storia napoletana come la rivolta di Masaniello (1647). Qui si fa largo nel clima artistico postcaravaggesco dello spagnolo Giuseppe Ribera, il cui prestigio è tale da mantenere un primato assoluto sulle commissioni del Vicereame e nella lontana Spagna. Ospite del Ribera a Napoli sarà Velazquez nel 1630, una presenza che avrà un forte impatto sugli umori degli artisti napoletani e fra i primi proprio sul Ribera che virerà verso un neovenetismo squillante e sentimentale e detterà legge fra i vari Domenico Gargiulo, Onofrio Palumbo, Aniello Falcone e Massimo Stanzione. Sarà con quest’ultimo che Artemisia avvertirà maggiori consonanze che porteranno a scambi fruttuosi e alla condivisione di importanti committenze come nella serie delle sei tele con ‘Storie di San Giovanni Battista’ commissionate dal Viceré spagnolo il Condè di Monterrey per il re Filippo IV di Spagna (1633-34). Come a Firenze e a Roma anche a Napoli la pittrice si era assicurata solide protezioni: a Napoli fu Cassiano Dal Pozzo a garantirle un canale di accesso privilegiato alla corte spagnola e a procurarle la prestigiosa commessa. Delle sei tele della serie delle Storie del Battista, le viene assegnata la ‘Nascita di San Giovanni’ (Madrid, Prado), che Roberto Longhi nel suo fondamentale articolo del 1916 lodò per il realismo dell’ambiente domestico, per la precisione lenticolare degli arredi e per la gestualità dei personaggi.

L’intenso caravaggismo, unito ad un’illuminazione quasi teatrale e allo stile classico delle figure influenzate dai modelli di Simon Vouet rafforzano il bilanciamento della composizione articolata in due gruppi in cui emergono figure femminili tra le più belle della sua produzione, come la fanciulla inginocchiata a terra alla destra del neonato. Tanto che lo storico De Dominici ne ‘La vita del cavalier Massimo Stanzione’ (1742-1744) raccontava che il pittore andava tutti i giorni a guardare Artemisia mentre dipingeva e tentava di imitare la freschezza del suo colore meraviglioso. A Napoli l’artista fu ammirata e imitata dai maggiori pittori per il virtuosismo luministico, la raffinata sericità della sua tavolozza, tanto che non le mancò il successo nella città che era diventata la nuova capitale dell’arte, meta di mercanti d’arte e di pittori in cerca di nuove committenze. Anche i pittori della corrente bolognese del classicismo furono attratti dalle possibilità che offriva la città partenopea, ma, al contrario di Artemisia, il loro soggiorno venne ostacolato dagli artisti locali. Guido Reni approderà a Napoli nel 1622 con “sospettoso perbenismo bolognese, verrà coinvolto nelle beghe camorristiche dei clan locali, e al cadere della terza settimana se la batterà all’inglese.

Forte e nevrotico nel purpureo orgoglio pontificio, Domenichino, il fragile Domenichino erede di Apelle, nel 1634 lascerà Roma, scettica e ingrata, per rifarsi una vita sotto il Vesuvio (…) e verdà sparire le ultime energie, fino ad una agonia esangue, memore (…) della lontanissima soffice patria emiliana” (Flavio Caroli). Artemisia invece ottenne a Napoli importanti commissioni per quadri devozionali, pale d’altare, quadri da stanza e prestigiose opere pubbliche, collaborando anche tra il 1635 e il 1637 con Giovanni Lanfranco, Paolo Fenoglio e Massimo Stanzione al vasto cantiere della cattedrale di Pozzuoli. Camaleontica per la capacità di assorbire le novità pittoriche di ogni città visitata e di conformarsi al gusto dei committenti, Artemisia rappresenta la più geniale antesignana della moderna donna artista.

*Il presente articolo non intende essere una recensione all’ennesima mostra di Artemisia, ma un contributo per comprendere la modernità della sua grande personalità.

PITTURA SURREALISTA
L’alfabeto personale di Mirò in mostra a Bologna

Joan Mirò, massimo esponente del surrealismo e tra i più affascinanti della storia dell’arte moderna, già ospitato a Ferrara a Palazzo Diamanti nel 2008, sarà a Bologna dal prossimo 11 aprile a Palazzo Albergati.

Il “catalano” Mirò non è un artista facile, però piace a tutti.
Non bisognerebbe mai dimenticare che il patrimonio artistico è la testimonianza della genialità di chi ci ha preceduti, e così con una decisione a sorpresa, la Casa d’Aste Christie’s, alcuni anni fa, ha cancellato la vendita di circa 85 opere di Mirò, stimate 36 milioni di euro, che il governo portoghese intendeva mettere all’asta per rattoppare i conti.

Mirò nasce a Barcellona nel 1893 e non ha mai nascosto il profondo attaccamento alla sua terra, alle sue origini, alla sua gente, dando così molta importanza all’arte popolare. “Più una cosa è locale, più è universale”, dichiarava.
Carattere incredibilmente caparbio, esigente, insoddisfatto; un provinciale taciturno, che ogni sera, dopo il lavoro, riordina sempre il suo studio con una meticolosità da artigiano e che si ravvia e veste con cura, come è solito fare in campagna la domenica.

La pittura di Mirò è un intreccio di linee, una superficie a profili incisi con un’impostazione grafica; è chiaramente ludica poiché per il maestro creare è gioco.
Egli conferisce alla realtà una dimensione fantastica e fiabesca calibrando segni grafici, colori e figure elementari; difatti, egli possiede un suo alfabeto personale che consiste in una particolare chiazza rossa, una linea nera, un punto bianco. Benché il punto di partenza della sua pittura rimanga “la scrittura automatica” dei surrealisti, il risultato è un’estrema eleganza decorativa tanto nell’accostamento dei colori quanto nel ritmo delle linee.

Mirò amerà per tutta la vita la musica, soprattutto Bach e Mozart, che gli darà un grande senso del ritmo trasmettendo un’intensa musicalità ai segni e alle linee “che si muovono sinuosi come una danza” in moltissime sue opere.
Era solito affermare che “un quadro deve essere fecondo, deve far nascere il mondo“.
Come tanti altri grandi artisti, anche Mirò attraverserà situazioni di estrema povertà, e poiché la fame può portare alle allucinazioni, a tal proposito raccontava: “Mi è difficile parlare della mia pittura, quando all’epoca (si riferiva agli anni 1925/26 a Parigi) vivevo di un paio di fichi secchi al giorno, ormai ero giunto a disegnare esclusivamente sotto l’influsso di allucinazioni”.

Nella fase finale della sua vita, ha saputo mantenere costante, se non intatta, la forza, l’operosità e la qualità del suo lavoro artistico. Morirà a Palma Di Maiorca nel 1983.
“La semplicità può essere profondità, perché è sintesi di tante esperienze precedenti, fusione di pensiero e di storia e perché nasce dall’eliminazione del superfluo, dalla ricerca essenziale: una lezione, forse ancor più importante, su cui la cultura di oggi farebbe bene a riflettere.”

FOTOGRAFIA
In mostra Vivian Maier, l’artista bambinaia del Bronx
Gli scatti di ieri per ritrovare noi stessi, oggi

New York Public Library, New York, 1952 ca ©Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

L’avevamo incontrata a Mosca, esattamente due anni fa, Vivian Dorothea Maier, e ne avevamo scritto estasiati, ammirando le 50 fotografie in mostra nella capitale russa (leggi qui l’articolo). Oggi Vivian arriva a Roma, dove il Museo di Roma in Trastevere espone 120 bellissimi scatti. Alcuni li ho riconosciuti, sia dall’esperienza e dai ricordi moscoviti sia dai numerosi volumi acquistati, altri sono del tutto inediti, ma sempre sorprendenti.

Nel quartiere romano, culla di movida e artisti, la mostra che ci attende, dal 17 marzo al 18 giugno, ripercorre momenti di questa fotografa bambinaia, avvolta da molto mistero, nata il primo febbraio 1926 a New York, nel Bronx, figlia di Maria Jaussaud, nata in Francia, e di Charles Maier, di origine austriaca. Di lei si sa che alla separazione dei genitori, viene affidata alla madre, che si trasferisce presso un’amica francese, Jeanne Bertrand, fotografa professionista. Negli anni Trenta, le due donne e la piccola si recano in Francia, dove Vivian vive fino a 12 anni. Nel 1938, l’artista sconosciuta torna a New York, città in cui inizierà la sua vita di governante e bambinaia. Nel 1956, si trasferisce a Chicago. E gli scatti con la sua fedele Rolleiflex hanno inizio. “Tata di mestiere, fotografa per vocazione”, viene definita. In un crescendo che solo oggi si scopre e vede la luce piano piano. Verso la fine della sua vita si ritrova in gravi ristrettezze economiche e, ricoverata per un banale incidente, muore il 21 aprile 2009. Nel corso della sua vita discreta e silenziosa realizza, tra il 1950 e il 1990, oltre centomila fotografie ma il suo lavoro rimane sconosciuto fino a quando John Maloof lo scopre per caso, nel 2007, acquistando a un’asta parte dell’archivio della Maier confiscato per un mancato pagamento dei canoni di locazione. Mentre lavorava a un libro sulla storia degli abitanti di Portage Park, una comunità nel Nordest di Chicago. E scombussolando la sua vita. John sarebbe diventato custode e testimone di un patrimonio e di un’eredità che tutti dovevano conoscere, dedicando oltre 3 anni all’archiviazione e alla conservazione dell’ampia opera della Maier.

New York, 1953 © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

John dichiara di essere particolarmente affezionato a una citazione estratta da una registrazione audio in cui Vivian esprime la sua filosofia sul senso della vita e della morte: “Dobbiamo lasciare spazio a coloro che verranno dopo di noi. È una ruota – si sale e si arriva fino alla fine, poi qualcuno prende il tuo posto e qualcun altro ancora il posto di chi lo ha preceduto e così via. Non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Incredibilmente profondo e vero.

Nella mostra romana, ci sono 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta e una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta, oltre ad alcuni filmati in super 8 che mostrano come Vivian Maier si avvicinasse ai suoi soggetti. Ci sono immagini delle città in cui aveva vissuto, New York e Chicago, sguardo curioso e piccoli e grandi dettagli. Bambini che piangono, visi intensi di donne, gli anziani, i poveri e la strada. Il tutto magnificando imperfezioni e tristezze, sentimenti, sguardi e abbracci o mani che si intrecciano, in un mondo che si evolve e cambia. La trasformazione sociale e civile è in atto, lo si vede, lo si sente, lo si tocca. E poi ci sono i numerosi autoritratti, tutti scattati attraverso giochi di specchi luminosi, riflessi nelle pozzanghere o la sua ombra dal lungo cappello; immagini mai viste, mostrate o esposte quanto Vivian era in vita. Una scoperta continua e inarrestabile. Come scrive Marvin Heiferman “Seppur scattate decenni or sono, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. E in maniera profonda e inaspettata… Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita conservando però gelosamente le immagini che realizzava senza parlarne, condividerle o utilizzarle per comunicare con il prossimo. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi”.

Accompagna la mostra il bel libro ‘Vivian Maier. Fotografa’ pubblicato da Contrasto.

Chicago, 22 agosto 1956 © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.
© Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

‘Vivian Maier, Una fotografa ritrovata’, è al Museo di Roma in Trastevere, dal 17 marzo al 18 giugno 2017. Apertura: Da martedì a domenica ore 10.00 – 20.00

Promossa da: Roma Capitale-Assessorato alla Crescita culturale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Fondazione Forma per la Fotografia. Organizzata da: Zètema Progetto Cultura. Maggiorni info sul sito web: www.museodiromaintrastevere.it/mostre_ed_eventi/mostre/vivian_maier_una_fotografa_ritrovata

GIORNATA DEL PI GRECO
Il Liceo Ariosto festeggia Einstein e la matematica tra arte, memoria e gusto

di Francesca Bondi, Beatrice Felisati, Michele Corio*

Il numero 3,14, più noto come ‘pi greco’, è una costante matematica utilizzata per la prima volta nel 434 a.C. da Anassagora per tentare la quadratura del cerchio.
Per celebrare la nascita del grande fisico Albert Einstein, avvenuta il 14 marzo 1879, il 3/14/1879 scrivendo la data secondo l’uso statunitense, in tutto il mondo il 14 marzo si organizza la ‘Festa del pi greco’. Anche se importato in Italia solo dal 2005, il Pi-day ha origini ben più lontane: è nato, infatti, nel 1988 all’Università di san Francisco.

Al Liceo Ariosto di Ferrara la manifestazione si è svolta anche quest’anno, come ormai è consuetudine dal 2010. Gli studenti partecipanti, provenienti dal liceo stesso, ma anche da tante scuole medie della provincia (Bonati, Dante, Portomaggiore e Mesola), si sono cimentati in una serie di giochi di argomento matematico .
Nella sfida della Pi-art sono stati esposti manufatti, disegni e fotografie interpretanti lo spirito del Pi greco. La gara di Pi-memoria consisteva, invece, nel recitare il maggior numero di cifre decimali di questa costante numerica (sono infinite) e il record è stato raggiunto da una minuta ed emozionatissima ragazza di terza media che ne ha ricordate ben 350, a fronte di due agguerrite sfidanti, sempre delle medie, che ne hanno recitato solo, si fa per dire, 277 e 75.
Ma il momento più atteso, dopo una caccia al tesoro nella quale le squadre si sono cimentate in quesiti algebrici e geometrici, è stato il Pi-chef: una gara di torte che è terminata con la premiazione di tre dolci in base ai criteri di bellezza, bontà e ‘matematicità’.

I ragazzi hanno affrontato le sfide con molto entusiasmo e competitività, immergendosi totalmente e, quel che è più strano, volontariamente, nel mondo della matematica, unendo impegno e tifo da stadio.

Le torte partecipanti a Pi-Chef
Le opere partecipanti a Pi-Art

*studenti iscritti al liceo L. Ariosto di Ferrara