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di Vincenzo Masini

La critica all’establishment e al suo stile politically correct deve oggi incentrarsi su un’analisi della crisi della democrazia come frutto della sottovalutazione del cambiamento epocale prodotto dalla globalizzazione e dall’ingresso imprevisto sulla scena politica di 75.000 multinazionali (di cui circa 400 con un orizzonte di interessi mondiale), che sono il vero luogo delle decisioni politico-economiche che orientano il mondo.

Non è un caso che le consultazioni democratiche si orientino verso i populismi per cercare di fermare o rallentare il processo di dominio sul mondo di questi potentissimi gruppi di interessi (a cui le diverse fazioni micropolitiche dei partiti tradizionali fanno riferimento pensando in questo modo di poter ricavare qualche fetta di potere come servi sciocchi). Non è nemmeno un caso che i più fini politologi pensino che, fino a quando gli Stati hanno ancora un potere giuridico-legislativo, sia il caso di rendere democraticamente elettive le cariche dei consigli di amministrazione di queste multinazionali che, tendenzialmente, rappresentano la nuova forma di governo mondiale nella web society. E propongono questa operazione di democratizzazione prima della tendenziale estinzione degli stati postmoderni. Dopo, sarebbe ovviamente troppo tardi.

A ben vedere gli unici Paesi che hanno ancora dignità di Stato moderno sono solo quattro – gli Usa, la Russia, la Cina e l’India – che, per la loro estensione la loro organizzazione statuale possono ancora confrontarsi con le superpotenze dell’economia transnazionale. Gli altri Stati hanno in gran parte perso la loro identità per permeabilità dei confini, per fragilità degli ordinamenti, per impossibilità di intervento sui processi macroeconomici, per dipendenza dai processi finanziari internazionali e per incapacità di gestione amministrativa delle loro risorse. Queste ultime gestite con margini di manovra insignificanti rispetto alla necessità di ripensare, riprogettare e ricostruire l’idea stessa di stato sociale.
La consunzione degli Stati moderni appare evidente, sotto i nostri occhi, nel concreto fallimento dell’idea di welfare state (egualitario, erogatore di servizi, amministratore della fiscalità, equanime, onesto e improntato alla giustizia sociale) di cui non solo non vi è più traccia, ma nemmeno più idea. La progressiva disintegrazione degli Stati moderni avviene sotto la spinta di molteplici fattori. Da un lato l’irrimediabile crisi fiscale, con la conseguente impossibilità di pareggio di bilancio. Tale crisi fiscale è strettamente connessa alla globalizzazione, che consente alle multinazionali di localizzare le unità produttive e le unità amministrative a seconda delle loro convenienze. Le unità produttive dove il costo del lavoro è più basso, magari godendo contemporaneamente dei contributi e degli incentivi statali nei paesi dove hanno la sede amministrativa. Nel 2016 sono state più di 20 le multinazionali (Bialetti, Omsa, Rossignol, Ducati Energia, Benetton, Calzedonia, Stefanel, Telecom, Wind, Vodafone, Sky Italia, Almaviva, Magneti Marelli, Bianchi, Vesuvius, per citarne alcune) che, dopo aver ricevuto incentivi da parte dello Stato, hanno delocalizzato la produzione in altri paesi licenziando i loro dipendenti in Italia.
Le unità amministrative, invece, nei paesi dove la tassazione dei loro utili è più bassa giocando sulla mancanza di regolamentazione fiscale internazionale. Basti pensare alla sede fantasma della Apple in Irlanda, da dove convoglia con facilità gli utili nei paradisi fiscali, o alla sede di Amazon in Lussemburgo dove paga solo l’1% di tassazione. Un calcolo di massima su tali forme di evasione, perfettamente legale poiché gioca sui vantaggi offerti dalle arretratezza degli Stati rispetto alla velocità operativa delle multinazionali, vede nella somma di mille miliardi il mancato introito fiscale degli stati europei evaso dalle multinazionali.

Dal lato dei bisogni, la segmentazione burocratica delle forme assistenziali di welfare manca di una idea guida in grado di orientare il futuro assetto complessivo della società e non risolve i conflitti sociali determinati dalla mancanza di strategia e di obiettivi: come risolvere, per esempio, il conflitto tra i fondi erogati per l’accoglienza di migranti e le condizioni di povertà in cui versano migliaia di cittadini italiani? E da cosa dipendono questo e altri conflitti che hanno eroso la possibilità di far esistere il welfare? E qual è la principale causa della progressiva estinzione degli Stati e la vincente organizzazione mondiale delle multinazionali, che sanno fare meglio degli Stati e soprattutto sanno fare a meno degli Stati?

L’idea ottocentesca di Stato la cui Costituzione è centrata sull’homo faber (la repubblica fondata sul lavoro) richiede o una ridefinizione del concetto stesso di lavoro o la ridefinizione del fondamento costituzionale incentrando, per esempio, il significato dello Stato sul principio guida della solidarietà.
I principali valori di riferimento della modernità sono stati la libertà, l’uguaglianza e la fraternità e le diverse forme di democrazia hanno rivestito il ruolo di metodo per realizzarli e ampliarli anche a valori di accettazione, tolleranza (figlie della libertà), giustizia e progresso sociale (figli dell’uguaglianza), accoglienza e responsabilità (figlie della fraternità).
Se nella attuale contingenza della globalizzazione si può osservare il ruolo delle multinazionali come destrutturatore dei criteri valoriali del welfare, si deve però notare anche che, nel corso dei decenni più recenti, ciò che ha sistematicamente impedito agli Stati postmoderni la realizzazione di un sistema di funzionante di welfare è stata la burocrazia.

L’idea weberiana di burocrate a cui ci siamo assuefatti era incentrata su:
– la fidelizzazione del burocrate al sistema gerarchico che è andata in crisi da quando il lavoro burocratico non è più consacrazione e appartenenza a una casta venerabile e prestigiosa, ma diventa una professione con una carriera simile alle altre, sindacalmente tutelata con forme di contratto collettivo stipulate con “se stessa”.
– l’impersonalità nelle relazioni esterne e interne sistematicamente influenzate da mediazioni di “convenienza politica e sociale”, che utilizzano diverse velocità nell’espletamento delle pratiche demandate al potere della burocrazia.

Il fondamento del potere della burocratico è infatti l’inerzia, ovvero il deliberato rallentamento (coperto da motivi sempre misteriosi) delle trafile a meno che una potenza esterna non faccia pressioni per velocizzarle.
La presenza di un sistema formale di regolamenti non è più la ragione della struttura piramidale gerarchica nell’organizzazione burocratica giacché il burocrate conosce bene i sistemi per aggirare quella complessità crescente del sistema che la burocrazia stessa produce, governa e regola rendendo inossidabile il suo potere.

Solo sostituendo la sbagliata concezione weberiana di burocrazia con quella dimentica (o rimossa?) del potere delle élites del nostro Vilfredo Pareto si riesce a comprendere l’evoluzione della burocrazia in tecnocrazia con due principali conseguenze.
Per i burocrati di basso rango non prescelti per l’ingresso nelle élites è iniziata una fase di profonda alienazione che li ha condotti all’inefficienza selettiva e a vere e proprie sindromi passivo-aggressive versi cittadini, alla finzione della neutralità, alla disuguaglianza selettiva, alla incapacità addestrata teorizzata da Veblen, alla deformazione professionale di Warnotte, al ritualismo operativo fino all’assenteismo organizzato.
I burocrati di alto rango, prescelti attraverso i canali privilegiati della conoscenza burocratica del funzionamento dei concorsi pubblici, della selezione per titoli, dell’incarico ad personam – ovviamente motivato in modo burocraticamente perfetto e blindato – sono stati selettivamente cooptati all’interno della casta dei tecnocrati al servizio e compartecipi della superclass delle multinazionali e delle sue diramazioni di potere vigenti nei diversi paesi proprio attraverso le diverse tipologie di tecnocrati attive nei settori chiave degli stati. Tecnocrati e Superclass e le loro organizzazioni internazionali hanno infatti in comune l’odio per le democrazie politiche degli Stati sovrani e con molta lucidità ne vedono la progressiva dissoluzione.

Gli Stati possono però evolvere verso forme più mature, anche tendenzialmente più democratiche e solidaristiche, attraverso la nascente web society, e vogliono incidere sull’ordine mondiale per non perdere il privilegio di auto confermarsi per cooptazione. Vilfredo Pareto descriveva molto bene questi processi di cambiamento quando affernava che “la storia è un cimitero di élite”. Se infatti l’élite non è più in grado di agire con una buona cooptazione di membri e, soprattutto, con idee razionali di organizzazione per l’intera società ma solo attraverso azioni non logiche guidate da residui primitivi di ricerca di potere personale, decade o produce effetti invalidanti e distruttivi per l’intera società (crisi economiche, sociali, conflitti, guerre, ecc..).Per evitare il baratro verso cui ci stanno facendo avvicinare è necessario scegliere semplicità in luogo di complessità crescente (specie sul web), trasparenza in luogo di opacità e popolarità in luogo di tecnocrazia.
Vota per chi vuoi ma, se ami la democrazia, scegli con cura candidati non burocrati o tecnocrati o candidati imparentati con loro.

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Redazione di Periscopio

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