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Giorno: 25 Gennaio 2015

LA RICORRENZA
La riscoperta di Vladimir Visotsky, poeta e cantore del dissenso

Oggi sarebbe stato il compleanno di Vladimir Semënovič Vysockij (Visotsky nella traslitterazione italiana), ufficialmente un grande attore, in verità uno straordinario poeta, ma i cui versi non furono inizialmente stampati perché sempre censurati dalle autorità sovietiche. E quindi Vysockij, boicottato e oscurato, aveva preso la chitarra e cantato per far passare le sue parole per tutta l’Urss. Oggi lo riscopriamo, grazie al nostro Finardi, in ‘Sentieri Selvaggi’. In Russia, oggi, ha finalmente il giusto tributo, tanto più che a Mosca vi è un museo in suo onore.

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Vladimir Vysotsky di fronte al poster del Teatro Taganka (RIA Novosti / Plotnikov)

Attraverso cassette registrate fortunosamente, la voce profonda, infiammata e dolente di ‘Volodja’, Vysockij era diventato la voce di coloro che si opponevano e dissentivano dal conformismo di regime. Inizialmente, lo abbiamo notato in una scena potentissima del ballo al teatro Mariinskij di San Pietroburgo, di un magistrale Baryšnikov-Nicolai ‘Kolya’ Rodchenko, che esplode sulle note di ‘Fastidious Horses’ del cantatutore russo. Poi lo abbiamo cercato e studiato un po’. Quelle note e parole ispiravano tanto.
Vysockij era nato il 25 gennaio 1938, a Mosca, da un sottotenente di carriera e un’interprete di tedesco. Era il periodo delle grandi e terribili ‘purghe’ staliniane. Nel 1961, aveva scritto la sua prima canzone, ‘Il Tatuaggio’. Già in queste prime fasi, quasi per gioco, un amico aveva iniziato a registrare le sue canzoni e a organizzare una sorta di distribuzione ‘porta a porta’ che avrebbe contraddistinto tutta la sua vita. Le sue canzoni cominciavano a circolare, anche se il suo nome era ancora sconosciuto. Nel 1964, effettuava un provino per Ljubimov, direttore del prestigioso teatro Taganka. Curiosamente, Ljubimov non era convinto delle sue doti di attore, ma lo prese con sé perché affascinato dalle sue canzoni che cominciavano a essere diffuse e note. Ma, già nel 1965, Vysockij, diventava uno degli attori principali del Taganka, dove avrebbe ricoperto ruoli importanti, quali quelli di ‘Galileo’ di Bertold Brecht.

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Vladimir Vysotsky (RIA Novosti / Kmit)

Ecco allora arrivare il suo primo disco, colonna sonora del film ‘Verticale’ e, nel 1967, il ruolo di Majakovskij in ‘Ascoltate Majakovskij’. Diventa un idolo, un attore leggendario.
L’anno seguente, l’incontro con Marina Vlady si trasformerà in grande e travolgente amore che durerà fino alla sua morte, nel 1980. Per Vysockij è un periodo di instancabile frenesia. Recita, scrive, compone, giorno e notte, ma in Russia si vuole dare una stretta contro gli intellettuali indisciplinati, e, pertanto, viene regolarmente boicottato, gli è negato ogni riconoscimento, diviene una specie di ‘uomo invisibile’. Solo nel 1987, con la Perestrojka gorbacioviana, sono arrivati i primi riconoscimenti ufficiali e le sue canzoni sono state pubblicate su disco. Fino ad oggi.
Questo incredibile poeta cantò i perdenti che non si arrendono, gli sconfitti, gli idealisti disillusi, coloro che si sono persi nella vita, coloro che sono stati abbandonati da essa.

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Francobollo russo del 1999 dedicato a Vladimir Vysockij

Una vita disperata, la sua: pur ignorato e boicottato era diventato il poeta più popolare del suo paese, senza che di lui fosse stato mai stampato un singolo verso. L’Italia lo avrebbe capito e presentato al grande pubblico un po’ dopo, ma lo avrebbe compreso. Nel 1993, gli era stato assegnato, infatti, il premio Luigi Tenco e, per l’occasione, era stato registrato un album (‘Il Volo di Volodia’), ad opera di vari cantautori fra i quali anche Roberto Vecchioni ed Eugenio Finardi. Nell’album di Paolo Rossi (In Italia Si Sta Male Si Sta bene Anziché No e Altre Storie) del 2007, vi era una versione italiana della canzone ‘utrennjaja gimnastika’.

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Monumento a Vladimir Vysockij (Mosca) e la copertina della raccolta ‘Sentieri selvaggi’ interpretata da Eugenio Finardi

E poi è arrivato Finardi. ‘Sentieri selvaggi’, uno dei più importanti ensemble italiani di musica classica contemporanea diretto da Carlo Boccadoro, ha invitato Finardi a unirsi a loro per un progetto sull’opera del cantautore russo, le cui canzoni sono state ripensate e trascritte da Filippo Del Corno, compositore tra i più affermati delle ultime generazioni. Nasce così il progetto ‘Il cantante al microfono’, un cd che getta un ponte tra la canzone d’autore e la musica classica contemporanea partendo dal grande attore, poeta e cantautore russo. Dal corpus delle sue oltre 500 canzoni, Eugenio Finardi e Filippo Del Corno hanno scelto una decina di titoli fortemente rappresentativi della tensione etica, spirituale, politica e dell’ironia corrosiva che anima il lavoro di Vysockij. Le canzoni, già tradotte in italiano da Sergio Secondiano Sacchi, sono state orchestrate dallo stesso Del Corno, in una versione che mette in luce la qualità poetica e musicale dei versi di Vysockij e permette il pieno dispiegamento della straordinaria potenza interpretativa di Eugenio Finardi, che, da tempo, affianca alla sua attività di protagonista del rock d’autore italiano un approfondito e rigoroso lavoro di ricerca vocale. Le canzoni vanno ascoltate con calma e concentrazione, una per una. Sono immense.

Ascolta le canzoni di Vladimir Visotsky [clicca qua]

Eugenio Finardi canta Visotsky [ascolta qua]

Il tributo di Ferarraitalia a Vladimir Visotsky negli ‘Accordi’ del 1 gennaio 2014 [leggi qua]

CANZONE DELLA TERRA (1969)
Chi ha detto: “Tutto è completamente secco,
Non tornerà più il tempo della semina?”
Chi ha detto che la Terra è morta?
No, s’è nascosta per un po’…

Non possiamo impadronirci della fertilità,
Non possiamo, come non si può svuotare il mare.
Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è annerita dal dolore…

Come crepe giacevano le trincee
E le buche s’aprivano come ferite.
I nervi della Terra messi a nudo
Conoscono la pena più profonda.

Sopporterà tutto, attenderà.
Tra gli sciancati non mettere la Terra!
Chi ha detto che la Terra non canta?
Che ha perduto per sempre la parola?

No! Echeggia di gemiti soffocati,
Da tutte le sue ferite, da ogni fessura,
La Terra è dunque l’anima?
Non calpestarla con gli stivali!

Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è nascosta per un po’….

Olga Desiderio parla delle traduzioni italiane dei romanzi di Virginia Woolf

da: organizzatori


Martedì 27 gennaio, dalle ore 17 nella Biblioteca del Centro Documentazione Donna in via Terranuova 12/B.

L’incontro, che fa parte del ciclo Qualche stanza tutta per noi. Omaggio a Virginia Woolf, si occuperà in particolare delle traduzioni di La signora Dalloway, uno dei capolavori narrativi di Virginia Woolf, che ha visto numerose versioni in italiano a partire dalla prima del 1945 – vent’anni dopo la pubblicazione del romanzo in inglese – di Alessandra Scalero per la Mondadori che continuerà a usarla per anni, includendola anche nel Meridiano dedicato a Virginia Woolf. Seguiranno nel 1992 la traduzione di Pier Francesco Paolini per la Newton Compton e quella di Laura Ricci Doni per SE e, nel 1993, quella di Anna Luisa Zazo per l’edizione con testo a fronte negli Oscar. La famosa versione di Anna Fusini pubblicata nel 1996 da Feltrinelli era già stata edita negli Oscar da Mondadori nel 1989. Le ultime due traduzioni di rilievo di questi ultimi anni sono del 2012: di Anna Nadotti per Einaudi e di Marisa Sestito per l’edizione con testo a fronte di Marsilio.

Olga Desiderio è laureata in Lingue e Letterature Straniere, con successivo dottorato di ricerca in Letteratura inglese. Ha conseguito un Master in Traduzione Letteraria e Editing dei Testi presso l’Università di Siena, nell’ambito del quale ha cominciato a interessarsi alle traduzioni italiane delle opere di Virginia Woolf, presentando una relazione al convegno organizzato dalla Société des Études Woolfiennes presso l’Institut Catholique di Parigi nel 2013. È autrice di pubblicazioni scientifiche in inglese e in italiano. È docente di inglese nelle scuole superiori e collabora con il periodico Leggere Donna.

L’OPINIONE
Contro ogni forma di discriminazione. Pensieri in libertà sulla giornata della memoria

di Michael Sfaradi

Sono passate decine di anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla scoperta dell’enorme tragedia umana dell’Olocausto ma ancora ci è difficile capire come degli uomini in preda a deliri di onnipotenza siano riusciti da una parte a auto-convincersi di essere razza superiore e dall’altra, proprio in nome di questa superiorità, a programmare a tavolino l’annientamento totale di popolazioni intere. Grazie a Dio non ho conosciuto direttamente gli orrori delle leggi razziali e delle persecuzioni, ma come tutti i figli e i nipoti della Shoah ho preso coscienza del dramma vissuto dal mio popolo solo attraverso i racconti delle persone che sono riuscite a salvarsi dalla deportazione o che sono tornate dai campi di sterminio. I loro racconti, la loro memoria storica è un bene che la mia generazione e le generazioni a seguire hanno il dovere di conservare e mantenere vivo per far sì che ci sia sempre un campanello di allarme, una spia che si accenda ogni volta che ci si avvicina, pericolosamente, a situazioni che possono permettere il ripetersi di fatti storici come questo o simili a questo. Ogni volta che mi sono trovato davanti a discussioni dove c’erano delle persone che facevano parte di gruppi etnici o religiosi diversi da quelli che allora furono colpiti, ho notato che ognuno di loro cercava di dare a se stesso una risposta per rendere accettabile l’inaccettabile… tutto andava bene, anche, per assurdo, accusare le vittime. Questo perché nelle menti degli esseri veramente umani non è accettabile l’idea che sia stata creata una macchina distruttrice, una fabbrica di morte nei confronti di qualcuno e che questo qualcuno sia totalmente innocente.

Se a distanza di tanto tempo ancora ci si chiede attoniti perché e come può essere accaduto, e si rimane increduli e senza risposte soddisfacenti davanti alle prove inconfutabili che l’essere umano può arrivare a livelli di malvagità senza limiti nei confronti dei suoi simili, l’unica cosa veramente chiara, per chi la vuole vedere, è che quello che accadde nel buio di quegli anni degradò l’umanità al di sotto di ogni livello accettabile. Quando poi se ne prende coscienza quello che rimane è solo un senso di impotenza profonda davanti alla storia e alla follia. È impossibile per noi capire cosa abbia abitato in quegli anni nella mente e nel cuore della maggioranza delle persone, e questo non solo in Germania, ma in tutta Europa. Quello che accadde non fu un caso isolato, non fu un’eccezione, non fu un cortocircuito, quello che accadde fu la conseguenza di un’azione studiata a tavolino, finanziata e programmata fin nei più piccoli particolari. Un’azione che prese il via in Germania ma che trovò adepti in ogni angolo d’Europa, un’azione che riuscì a portare allo scoperto l’odio profondo e radicato nei confronti di una minoranza, un odio che per secoli era stato, a più ondate, alimentato da chi nell’ebraismo e nella sua cultura, che è sempre stata la radice su cui poggiava e poggia il mondo moderno, vedeva un affronto se non un pericolo. In quegli anni si aprirono le dighe e l’odio che da sempre bolliva in larghi strati della popolazione europea straripò in tutta la sua lucida violenza.

In quegli anni lo sterminio era la normalità, perpetrare lo sterminio era la normalità, rimanere silenti davanti allo sterminio era la normalità. Gli ebrei, ad esempio, venivano accusati, come al solito, come oggi, di avere in mano l’economia mondiale, anche se le statistiche sia di allora che di oggi smentiscono questa diceria. Ma non era e non è sufficiente, perché chi vuole odiare ha bisogno di un motivo o una scusa per farlo, e non ha importanza se sia vera o falsa. Serve la fiamma per accendere la miccia, serve la scossa per far detonare la bomba carica di odio e cattiveria. Gli zingari, i rom, accusati di essere ladri, gente marcia, come gente marcia erano gli omosessuali e tutti coloro che non volevano o non potevano allinearsi all’interno di quel trita cervelli che è sempre stata la propaganda delle dittature, di tutte le dittature a prescindere dal colore dietro il quale si nascondono o si sono nascoste. I regimi, come è stato per il nazismo e per il fascismo, e a seguire dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, con una lunga scia di dittatori e sangue, hanno continuato ad arrogarsi il diritto di decidere la vita o la morte di popolazioni intere, che per volere del tiranno di turno diventavano bande composte da esseri subumani, cancro della società.

Ecco allora calare il buio della ragione e le schiere degli sterminatori stringono i ranghi davanti al silenzio dei pavidi che ne diventano complici silenti. Il messaggio viene recepito come vero e con il tempo l’odio diventa normalità e da lì ai campi di prigionia, o di rieducazione il passo è breve, breve come è facile ritrovarsi dietro al filo spinato, con un proiettile in testa o dietro la schiena. Se vogliamo fare un piccolo esempio che possa aiutarci in un cammino di riflessione, in una chiave di lettura diversa che ci possa permettere di capire quali sono stati i meccanismi che hanno portato a una follia collettiva come quella che si è registrata in occasione della Shoah dobbiamo accettare che la “follia collettiva” non era in realtà una follia vera, ma freddo ragionamento di burocrati convinti che i vagoni blindati in viaggio verso i campi di sterminio fossero pieni di animali da eliminare quanto più velocemente possibile, in modo da rendere il mondo più pulito e vivibile. Proprio considerando che la Germania di quegli anni era il centro del sapere europeo, il centro della cultura europea, rimane ancora più difficile credere che tutto ciò sia partito proprio da lì, ma così è stato.

Rievocare in questa giornata 6 milioni di persone uccise con il gas e cremate nei famigerati forni dei campi di sterminio, rievocare le centinaia di migliaia di persone che sono state barbaramente torturate o inumanamente sottoposte ad ogni tipo di esperimento pseudoscientifico e, cosa ancora più dolorosa, rievocare 1 milione e mezzo di bambini ai quali fu tolto ogni diritto e ogni gioia della vita è un compito decisamente arduo che non si esaurisce in cerimonie rievocative una volta all’anno ma che deve essere spiegato nei minimi particolari affinché la memoria non vada persa… affinché il passato non ritorni ad essere un presente. È un compito che ci riguarda tutti da vicino e che abbiamo il dovere di insegnare ogni volta che capita l’occasione. Gli storici hanno provato, con il loro lavoro, a dare un senso alla tragedia, esistono decine di libri e di saggi dove vengono presi in considerazione aspetti del dramma e si prova a darne una spiegazione, ma io credo che a tutt’oggi non esista un’opera che possa racchiudere in sé il “fatto storico” nella sua interezza, che possa far capire la drammaticità di ciò che accadde.

Questo mi ha fatto giungere alla conclusione che uno dei pochi dati di fatto acquisiti è quanto sia stata grande, immensa, la tragedia, tragedia che l’uomo è riuscito a creare in un dramma che esso stesso non riesce a capire e al quale ancora oggi non riesce a dare una spiegazione valida. Gli storici da una parte hanno il compito di raccolta dei documenti, non passa giorno che non si scopra in qualche angolo d’Europa un nuovo archivio o un nuovo carteggio che mette i riflettori su altri massacri, e aggiungono così altri capitoli di questo libro ancora lontano dall’essere definito, ammesso che mai possa essere definito, dall’altra il nostro dovere, soprattutto ora che gli ultimi testimoni viventi ci stanno purtroppo lasciando e i negazionisti si fanno avanti con sempre più forza e tracotanza, è quello di non dimenticare. Lo stesso Yad Vashem il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, è stato di recente profondamente ampliato proprio per far posto a tutte quelle testimonianze che continuano ad arrivare con un flusso continuo.

Giorno dopo giorno, ancora oggi, escono dal buio dell’oblio nomi, cognomi, indirizzi, nazionalità, e si restituisce un minimo di dignità a persone che da innocenti hanno pagato ciò che erano e per quello che erano. Ma tutto questo non basta, il nostro compito non si esaurisce qui, noi che siamo uomini liberi, donne libere, dobbiamo fare in modo che il buio della coscienza non sia appropri più della nostra anima e dell’anima delle popolazioni cui apparteniamo. È troppo facile dire, o peggio ancora credere, che quello che è accaduto non accadrà di nuovo… non fatevi ingannare, succede ancora, ogni giorno, davanti ai nostri occhi troppo occupati per vedere le tristi realtà che si avvicendano in posti lontani che poi lontani non sono. Non avremo mai il numero dei morti, e sto parlando degli anni Settanta, che ci furono nei campi di sterminio cambogiani dove il regime dei Khmer Rossi ha prodotto risultati che variano da un minimo di 800.000 a un massimo di 3.300.000 morti. Questo conteggio riguarda le vittime delle esecuzioni, delle carestie e dei disagi. Il governo vietnamita parlò di 3.300.000 morti mentre Lon Nol si vantò di averne eliminati 2.500.000. L’Università di Yale giudica la cifra intorno al 1.700.000 unità mentre Amnesty International ne da qualcuna in meno 1.400.000, ultimo e non meno importante il dipartimento di Stato degli USA che ne considera solo 1.200.000.

Tutto questo può essere da noi considerato normale? 3 milioni, 2 milioni, 1 milione mezzo, ma qui non stiamo parlando di pecore alla vigilia della Pasqua, questi numeri, nella loro freddezza spersonificata, come i sei milioni di Auschwitz, nascondono volti di uomini, donne, vecchi e bambini. Persone che avevano nome, un cognome, una vita da vivere e tanti sogni irrealizzati. Qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò è lontano, è successo dall’altra parte del mondo, era fuori dal nostro pianeta? Ma le fucilazioni di massa nella ex Jugoslavia sono state perpetrate proprio dietro la porta di casa nostra, nel cuore dell’Europa continentale, e nessuno ha mosso un dito se non quando era già troppo tardi. Anche in quel caso, mi duole dirlo, la comunità internazionale legata da mille laccetti più o meno seri, più o meno politici ha lasciato che città intere, e Sarajevo ne è il simbolo, fossero praticamente rase al suolo.

Sempre alle porte dell’Italia e nel cuore dell’Europa continentale abbiamo assistito a scontri armati che si consumavano all’interno delle stesse famiglie perché essere serbo o essere croato era un motivo sufficiente e necessario per essere eliminato. E ancora più vicino a noi nel tempo siamo testimoni di massacri dimenticati dove uomini uccidono altri uomini, donne vengono stuprate e vendute come schiave e teste vengono staccate dai corpi e rotolano in terra così come venivano staccate e rotolavano nel più terrificante Medio Evo, e tutto ciò in nome di un Dio diverso. Questo è il buio della ragione, questo è quello che noi più che combattere dobbiamo prevenire senza delegare questo lavoro a nessuno, perché nessuno può garantirci nulla. Solo noi stessi possiamo essere garanti, solo noi stessi possiamo insegnare alle future generazioni la luce della vita gettando il seme della convivenza pacifica e civile fra le genti.

Concludendo voglio ribadire il concetto a me caro, che il modo migliore per onorare chi sull’altare dei forni crematori ha sacrificato la vita, è una medaglia con due lati: da una parte il massimo impegno affinché il ricordo rimanga indelebile e, dall’altra, la nostra attenzione su tutte le manifestazioni di antisemitismo, di omofobia e di ogni razzismo possibile, palesi e no, senza sottovalutarle e impedendo che motivazioni politiche di ogni colore strumentalizzino il dolore per farne battaglie ad esso estranee.

SETTIMO GIORNO
La guerra

Ho aperto gli occhi e la mente al mondo che c’era la guerra, ero piccolo, ma la mia memoria non mi abbandona mai, purtroppo, meglio dimenticare a volte, si vive meglio. Ricordo mio padre vestito in grigioverde, presto sarebbe partito per la Russia, ricordo il grande coglione Benito che, tutto felice, informava con voce tonante gli italiani che aveva dichiarato guerra: “Un’era segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria – urlava il “pataca” romagnolo – l’ora delle decisioni irrevocabili”; rimbalzava la parola del duce da altoparlante ad altoparlante, le vie di paesi e città erano invase. “Il destino che batte nel cielo” altro non era che la condanna a morte per migliaia di innocenti, mandati al massacro in gelide terre o in torride plaghe, o, peggio ancora, nelle nostre città bombardate dal nemico. Il nemico? Quale nemico?, chiesi a Joannes Zelemarian, commissario politico della rivoluzione eritrea contro il regime etiopico di Mengistu, per me erano tutti amici, eritrei ed etiopi, ma lì, appiattito nella trincea scavata nella roccia carsica attorno ad Agordat, la città sotto assedio da parte delle truppe eritree, l’amico era Zelemarian con i suoi compatrioti e il nemico era il cecchino che mirava alla mia testa a non più di settanta-ottanta metri di distanza. Giù, mi diceva Joannes, stai giù Gian Pietro, anche se ha il sole negli occhi il cecchino non sbaglia. Era la prima volta che vedevo il “nemico” così da vicino. Non fu piacevole scoprire che c’era un essere umano come me che, senza altra ragione che non fosse il nostro essere nemici, mi voleva uccidere, io lui non lo avrei ammazzato. Ma era la guerra, la peggiore, l’invincibile, l’inesorabile invenzione umana. Speravo di non dover aver mai più a che fare con i conflitti, di non dover più dire questo è mio amico e questo mio nemico. Ma non si può, l’uomo vuole nemici e amici per combattere i nemici e ora i nemici ci sono, sono qui, sono là, sono sotto casa, sono dovunque li portino interessi quasi sempre sconosciuti, immaginati ma non chiari e noi, noi, siamo gli odiati nemici da sconfiggere, da massacrare se possibile, e loro, loro, sono i terribili avversari da annientare: non ci sarà bisogno di dichiarare guerra pomposamente come fece Mussolini, la guerra è già stata dichiarata, guerra globale, all’ultimo sangue, per una volta ancora noi cittadini siamo le vittime destinate a essere usate come carne da macello. Attenti a chi sta dietro l’angolo di casa.

NOTA A MARGINE
La Costituzione: fonte di libertà da alimentare ogni giorno

Il palco trasformato in una cattedra e il teatro in un’aula per la lezione di Costituzione del professor Gherardo Colombo. E’ accaduto venerdì sera al De Micheli di Copparo. E si è capito subito che sarebbe stata una lezione del tutto insolita: per le incursioni musicali del bidello Tommaso Zanella “Piotta”, per le silhouette di don Chisciotte e Sancho Panza che svettavano sullo sfondo, ma soprattutto perché il prof ha esordito affermando di “non volere la cattedra, perché divide chi ha il potere da chi non ce l’ha”.
“Freedom…imparare la libertà” è un’ulteriore prova delle grandi doti di divulgatore dell’ex magistrato che per quasi due ore guida i suoi studenti, alcuni dei quali abbastanza fuori corso, ma per la maggior parte giovani e giovanissimi, alla ricerca del significato pratico e concreto del termine libertà.
“Cos’è la libertà in una parola?”: questa è la domanda che il professor Colombo pone al pubblico scendendo dal palco, perché non è giorno di interrogazione, ma di dialogo e di condivisione. “Scegliere” dicono dalle prime file…i soliti secchioni!
“Giusto, ma scegliere cosa?” Non si può scegliere di volare se non si hanno le ali e non si può scegliere il completo isolamento se si è animali sociali. Ecco dunque le prime due parole d’ordine: la finitezza e il bisogno di socialità di ogni essere umano, questi sono i confini entro cui la nostra libertà può muoversi. Scegliere poi implica prendersi la responsabilità delle proprie scelte e avere il livello di conoscenza e di consapevolezza per poterlo fare. In altre parole è necessario “avere la capacità di esercitare effettivamente la propria libertà”. Infine scegliere presuppone la possibilità di operare una scelta fra diverse opinioni: insomma il pluralismo democratico. Ecco così stabilito il circolo indissolubile fra democrazia, pluralismo, libertà di pensiero.
Ma dove viene sancita questa nostra libertà? Nella nostra Costituzione, dove sono contenuti i nostri diritti e i doveri che rendono effettivi questi diritti perché “il nostro diritto di espressione corrisponde al dovere degli altri di non metterci una mano davanti alla bocca mentre parliamo”. Per farci capire che dentro la Costituzione c’è già scritto tutto, basta volerla attuare, Colombo racconta storie di diritti negati e violati: Piergiorgio Welby e la scuola Diaz del G8 di Genova. Si va dall’articolo 2, nel quale la Repubblica riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo, all’articolo 13 sull’inviolabilità della libertà personale, dall’articolo 32 sulla tutela della salute e sul rispetto della persona come limite del trattamento sanitario, agli articoli 17 e 18 che sanciscono il diritto di riunione e di associazione. Ma soprattutto il vero architrave di questa delicata struttura, l’articolo 3, il più innovativo di tutti: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Nella mente affiora il ricordo di don Gallo: “Le mie bussole sono due: come partigiano e come essere dotato di una coscienza civile, la mia prima bussola è la Costituzione. Poi, come cristiano, la mia bussola è il Vangelo”. Colombo usa invece le parole di qualcuno che la Costutzione l’ha scritta e poi ha passato il resto della sua vita a difenderla e a farla conoscere ai giovani: Piero Calamandrei. “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani”.
Ecco dunque, come in ogni scuola che si rispetti, i compiti per casa: dare un ulteriore significato all’articolo 1, “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. La libertà è una cosa faticosa, impegnativa, “è un percorso che si conquista giorno per giorno”, perciò se non lavoriamo quotidianamente sul nostro stare assieme responsabilmente, “come faremo a crescere e diventare davvero una democrazia?”

Album di storie, le ‘biografie collettive’ di Marco Paolini

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Due spettacoli di Marco Paolini, Teatro Comunale di Ferrara, dal 26 al 29 ottobre 2003

E inizia la stagione di prosa 2003-04 del Teatro Comunale. Una stagione inaugurata anche quest’anno, come per la scorsa edizione, da due spettacoli del seguitissimo Marco Paolini: “Stazioni di transito” e “Aprile ’74 e 5”, che andranno in scena alternandosi l’uno all’altro per cinque sere consecutive. Entrambi gli allestimenti sono tratti dagli “Album di storie” di Paolini: lavori composti fra il 1987 e il 1999 e in merito ai quali lo stesso autore dichiara: «Sono storie brevi per imparare a raccontare storie. Lo stesso gruppo di personaggi passa da un “album” all’altro in una sorta di iniziazione, tuttavia ogni storia (ogni spettacolo) sta per sé e può essere visto separatamente dagli altri. A ciascuno hanno collaborato per la scrittura e per la realizzazione persone diverse con i propri racconti e ricordi, gli “album” non hanno quindi un unico autore e non sono autobiografia, ma biografia collettiva».
Ed è proprio tale struttura di “biografia collettiva” che distingue gli “album”, e dunque i due spettacoli che Paolini porta a Ferrara, dai celebri “Canto per Ustica” e “Storie di plastica”, è tale impostazione storico-esistenziale che li differenzia connotandoli alla stregua di storie di tutti: nel senso di cittadini non solo soggetti pubblici vittime di drammatiche ingiustizie ma anche e soprattutto individui privati sociali.
E infatti “Stazioni di transito” si colloca fra il miglior “teatro” in senso stretto di Paolini, con le sue storie generazionali, con la sua piccola antologia composta da un numero variabile di racconti collegati da frammenti poetici, ambientati da Parigi a Treviso, dalla Jugoslavia agli Stati Uniti. Tanti luoghi dove i personaggi e i fatti della recente storia italiana si intersecano, lasciando memorabili e indelebili tracce. “Aprile ’74 e 5”, a sua volta, è un racconto articolato che condensa varie storie individuali intrecciate fra di loro. Al riguardo, lo stesso Paolini spiega: «Questa storia è inventata, ma dentro ci sono molte “cose vere”, mescolate e combinate. C’è il rugby, che mi è stato insegnato con passione da chi lo gioca, perché io non ho mai giocato. C’è la registrazione di Brescia, dell’attentato. E ci sono tante storie vere di sport, di bar, di piazza, che mi sono state regalate da amici generosi che riescono a tener acceso in testa il circuito della memoria. Io che ho la memoria corta e devo a loro la mia voglia di raccontare ancora».

democrazia

Che problema la democrazia!

Per il loro quarto ciclo di incontri alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea l’Istituto Gramsci e l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara hanno scelto un titolo che potrebbe apparire paradossale o provocatorio a prima vista, ma che a sentire gli organizzatori non lo è affatto: “La democrazia come problema”. E non si può dar loro torto, visto che è dai tempi di Platone che filosofi, politici, artisti e letterati si arrovellano su questo tema.
Forse ha proprio ragione il direttore dell’Istituto Gramsci, Fiorenzo Baratelli, quando nell’incontro introduttivo di venerdì pomeriggio afferma che la democrazia è “il regime politico e sociale più complesso che finora il genere umano ha pensato”, ma proprio per questo “è il sistema più adatto più adatto alla complessità dell’uomo e alla sua convivenza in società”. La figura centrale nella democrazia, infatti, è il cittadino. Se ciò significa da una parte che le istituzioni democratiche, cioè la forma, e lo stato sociale, cioè i contenuti, sono costruiti in funzione dei cittadini, dall’altra implica che fondamentale è l’esercizio democratico, cioè la partecipazione attiva da parte di questi ultimi. Dunque la democrazia non è solo complessa, ma “deve essere costruita, anzi necessita di continua cura”: “è imperfetta, esigente, fragile – continua Baratelli – caratterizzata da un continuo cambiamento”. Chi dunque può negare che sia “un insieme di problemi”? Come se ciò non bastasse oggi viviamo il paradosso della democrazia uscita vincitrice dallo scontro con i totalitarismi del Novecento, ma arrivata al 21° secolo “stremata” e circondata da “un’aura di scetticismo”. I 12 incontri che si svolgeranno fino a novembre serviranno quindi a tentare di “capire le ragioni di questo malessere” e le sfide che il sistema democratico deve affrontare nel tempo presente. Non ci sono soluzioni facili, ma esercitare la propria intelligenza critica per tentare di capire dove stiano i problemi e pur sempre un punto di partenza. Già Tocqueville metteva in guardia rispetto al rischio che la democrazia potesse degenerare in un “dispotismo mite”, che leva ai cittadini “il fastidio e la fatica di pensare.” L’obiettivo allora è andare oltre quella “dittatura del presente” di cui ha parlato il filosofo Salvatore Veca – ospite del primo incontro del 6 febbraio – che “scippa il senso della possibilità e riduce lo spazio dell’immaginazione politica e morale”, mentre avremmo “un disperato bisogno di idee nuove e audaci, che siano frutto dell’immaginazione politica e morale”.

Leggi l’intervista a Fiorenzo Baratelli
Visualizza il programma del ciclo “La democrazia come problema”

L’INTERVISTA
Roberto Guerra: “Il nuovo futurismo ha cuore, cervello e libertà”

Roberto Guerra, poeta futurista, futurologo e blogger, attivo tra Ferrara e l’Italia dagli anni Ottanta, è curatore, assieme a Antonio Saccoccio, di “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista” (Armando, Roma, 2015), un testo che a settant’anni dalla morte di Marinetti, ma a un secolo di distanza dalla nascita del futurismo, ripensa alla figura chiave del movimento attraverso una raccolta di saggi e approfondimenti curati, appunto, da Guerra e Saccoccio.

I futuristi precursori e innovatori, cibernauti ante litteram e promotori di un nuovo gusto estetico, ma anche di un nuovo umanesimo fiducioso della creatività dell’uomo in tutti i suoi campi, dalla macchina alla pubblicità, come sono interpretati oggi nel 2015?
“Marinetti 70″ sintetizza l’attuale livello critico e operativo. Analisi eclettiche tra i bordi della storia dell’arte e del nuovo futurismo operativo: da un lato il paradigma strettamente estetico o estetico sociale, come gli interventi di Di Genova, Duranti, Prampolini, Ceccagnoli, Antonucci, la Barbi Marinetti, oppure Crispolti, Tallarico, Valesio, Conte, Bruni, dall’altro paradigmi dopo la scienza e internet. In ogni caso come fare anima o ‘brain’ nel mondo computer, registro di sistema condiviso, più o meno, da tutti gli autori.

Il futur-ibile di Marinetti potrebbe coincidere con il nostro virtuale? Intendendo virtuale come qualcosa che nasce dalla virtus e che qui ha la forza per diventare qualcosa…
I contributi dei vari Berghaus, Cigliana, Hajek, Carpi, Campa, Saccoccio in particolare per il focus italiano, rispondono verosimilmente. Noi futuristi o futuribili oggi parliamo di immaginario tecnologico, sistema operativo al passo con il divenire della conoscenza, forza di scienza controintuitiva rispetto all’infame buon senso ancora dominante, infatti il mondo è in crisi, per radicali cambiamenti sociali. Oltre lo shock del futuro o il complesso di Frankenstein, per dirla con Toffler e Asimov, se si vuole un umanesimo, anche post, estetico-scientifico del ventunesimo secolo.

Superando i travisamenti che ci sono stati della filosofia futurista che, in maniera riduttiva, hanno spesso equiparato i futuristi alla macchina, come possiamo spiegare la ‘sensibilità’ futurista verso un futuro desiderabile?
La macchina e i computer sono nuovi simboli della rivoluzione scientifica, industriale, informatica. Nell’Ottocento emersero Liberalismo, Socialismo e Positivismo, i primi due, storicamente dominanti, non funzionano più. Noi ripartiamo dal Positivismo ovviamente dopo l’evoluzione umanista della scienza contemporanea, da Einstein e Russell a Popper e Kurzweil. Oltre l’ideologismo storico, sottolinea con volontà di bellezza Giordano Bruno Guerri (altro celebre autore nel volume), con cuore-cervello-libertà… il sottoscritto.

Sappiamo che la pubblicità è legata ai futuristi. Lasciando da parte il marketing, com’è cambiato il messaggio pubblicitario che da espresssione di un movimento culturale, artistico e filosofico si è fatto, in certi casi, più ‘sensoriale’ ed ‘evocativo’? Penso alle pubblicità mute delle auto o dei profumi dove nessuna voce ci sta spiegando il prodotto, ma noi vediamo immagini o sentiamo una musica e immaginiamo.
Nella grande retrospettiva al Guggenheim di New Work del 2014, Vivien Greene ha descritto Marinetti come precursore di Andy Warhol: nel libro con riferimento a McLuhan, Gino Agnese suggerisce certa decifrazione. Il cosiddetto marketing e i file mitici sensuali sono sempre esistiti, dai segnali di fumo e la parola come medium ai satelliti e il wireless. La pubblicità oggi è arte elettronica. Oggi ne siamo vagamente consapevoli. L’uomo è animale economico, meglio tecnoeconomico, ma per fortuna sempre desiderante.

Roberto Guerra ha pubblicato raccolte poetiche, fantascienza e diversi saggi futuribili. Tra essi segnaliamo: Il futuro del villaggio. Ferrara città d’arte del 2000 (Liberty House, Ferrara,1991), Futurismo per la nuova umanità… Armando, Roma, 2012). Collabora con riviste (MeteoWeb.eu) e case editrici (La Carmelina). Cura il Laboratorio Letteratura Futurista per l’AIT (Associszione Italiana Transumanisti, Milano).

IMMAGINARIO
A futura memoria.
La foto di oggi…

“Le radici del futuro: tracce, parole, segni. Custodire la memoria per costruire il futuro”.
E’ il titolo dell’esposizione che, in occasione del giorno della memoria il 27 gennaio, inaugura oggi alle 11 nella sala dell’Imbarcadero del Castello Estense. Il percorso emerge dal progetto didattico sulla memoria curato da docenti e studenti del Liceo Artistico Dosso Dossi, in collaborazione con Fondazione Meis e Istituto di Storia contemporanea.

“La ricerca è stata l’approccio alla storia per non subirla e sviluppare un atteggiamento critico e aperto con la consapevolezza della problematicità dei ricordi che devono diventare sedimento per costruire identità libere”, scrivono gli organizzatori.

La mostra sarà visitabile dal martedì al sabato fino all’8 febbraio, ore 15.00 – 17.00, domenica, ore 09.30 – 17.00, la mattina su appuntamento:
gianna.perinasso@aledossi.istruzioneer.it.

OGGI – IMMAGINARIO ARTE

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

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le lanterne realizzate dagli studenti in memoria dei deportati