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Da quando si era alzata, aveva scostato la tendina almeno venti volte.
Girava intorno al tavolo, ciabattando, facendo colazione in piedi, lo yogurt, tre biscotti, il caffè. Il caffè, poi! Mentre avanzava con la tazzina in mano, quel poco liquido nero fumante sembrava in preda ad un maremoto, onde che schiaffeggiavano i bordi interni della chicchera di porcellana, schizzando. E scostava la tendina.
— Tra un po’ la consumi, quella tendina, — aveva osato proferire il marito.
Lei lo guardò di sguincio e non rispose.
Non sopportava, non sopportava quell’attesa, di cui ormai si era presentata la prima avvisaglia.
Da un momento all’altro, succedeva così. L’euforia dei giorni prima, goduti al sole, al suo caldo sole che adorava, anche quando la faceva sudare, anche quando colava gocce stesa a letto, anche quando passeggiare sotto la canicola era un suicidio… la pienezza e la felicità di tutti quei giorni era finita, terminata, conclusa. Cancellata. Da un giorno all’altro, solo un vago ricordo. Anzi, nemmeno il tempo del ricordo, con quel brivido lungo la schiena e il morso allo stomaco. Come quando tutto cambia, e all’improvviso, e non sei pronto. E non puoi tornare indietro. E hai solo, davanti a te, la certezza della disfatta.
Camminava, da una stanza all’altra, come una belva in gabbia. Poi tornava alla finestra e scostava la tendina. E quello che vedeva, là fuori, direzione nord, le sembrava un sopruso, un furto, un dispetto. Fatto a lei personalmente.
Mai sopportate le situazioni indefinite. Mai sopportati i momenti di transito, ma i peggiori erano quelli connotati da agonia, marciume, lenta decomposizione.
Le piacevano le cose nette, soprattutto luminose, senza anfratti o nebbie in cui celare chissà quale stortura, imprevisto o inganno, chiare, alla luce del sole, dirette, financo sfacciate, ma almeno sincere. Così avrebbe saputo come regolarsi. Ma le snervanti attese, per poi approdare alla consunzione, alla rovina, ad uno stadio di non ritorno, no. Meglio un colpo secco, subito, di punto in bianco, ma quell’altalenare, quell’indecisione, la rendevano nervosa. Di più, furente.
Che poi, ci rimetteva il marito… Anzi, neppure quello. Perché lui soprassedeva. La scorgeva così alterata e allora si dileguava. Anche perché, a lui, quei momenti piacevano. Con tanto che lei li odiava, con tanto che lui li attendeva. E ne godeva. Lei non diceva nulla, anche se le sembrava un atteggiamento perverso, contro natura… Ma ognuno era fatto a modo suo, pensava Elena. Basta che nessuno la rimproverasse per il suo, di atteggiamento, che non venissero fuori i soliti saputelli, i soliti amanti dei colori in marcescenza, che se ne stessero zitti. Lei sopportava loro, che gli altri sopportassero lei. E così, per tutto quel periodo, lei tollerava l’aria serafica e appagata del marito (e magari di altri) che, se possibile, la irritava ancora di più. E le pareva di ascoltare anche i suoi pensieri. Oltre alle parole che, in quei momenti, lui spendeva a manciate, anche per farle dispetto. E così lui si soffermava e magnificava tutti i particolari. E la “snervante attesa” di lei era l’anticamera del diletto di lui; la stizza di lei al primo cielo plumbeo, la goduria di lui. Addirittura lui estasiava dai vetri chiusi della finestra, quando il rombo del temporale in avvicinamento li faceva tremare – e in casa, faceva eco lei, con altri tuoni — e andava in solluchero alla definitiva rottura della calura estiva e non era raro vederlo sostare sotto la pioggia, a braccia allargate, come un forte abete che ne traesse beneficio.
Lei preparò un’altra cuccuma di caffè. Sosteneva che il caffè la rilassasse quindi, quando era nervosa, ne beveva una tazza in più, anzi, una dietro l’altra. Allora, in effetti, un po’ s’acquietava (forse, beneficiando della carica zuccherina o solo per autoconvincimento) e riusciva a scostare la tendina con meno impeto e ad aggrottare meno la fronte — e a tacere un po’.
Certo, il più era far passare quella giornata. La prima era la più traumatica — più volte, il marito la scorgeva piangere. Poi, in un modo o nell’altro, se ne sarebbe fatta una ragione. E il periodo di transizione sarebbe trascorso in un’altalenante malinconia inframmezzata alla rassegnazione del guerriero sconfitto — ma mai domo, solo il tempo di ricaricarsi per la riscossa.
Insomma, il giorno dopo sarebbe andata meglio. Lui l’avrebbe distratta con il suo fare burlesco e lei avrebbe reagito, ecco, sì, reagito, iniziando a far progetti a lungo termine, ad assorbirsi in speranze.
Lei bevve il secondo caffè, sempre in piedi, circumnavigando il tavolo, poi scostò ancora la tendina e guardò fuori, disperata, affranta, al primo giorno d’autunno che, a dispetto del calendario e di qualsiasi previsione meteo, “lei” sapeva quando iniziava. L’aveva avvertito quella notte: le mani le erano diventate improvvisamente fredde. Era il segnale. Inequivocabile. Preludio di improvvise ferite sanguinanti, che avrebbero macchiato le lenzuola, come di quelle piante trapiantate in un clima non adatto, che si tagliano, si spaccano, sbuffano linfa e non si sa come riescano a sopravvivere all’inverno. Mani che lui, impietosito, avrebbe tenuto tra le sue (lui le aveva sempre bollenti), ma che le sarebbero ritornate calde solo il primo giorno di primavera.

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Carla Sautto Malfatto

Ha conseguito quasi duecento premi e riconoscimenti per la poesia, la narrativa, la pittura e la grafica in Concorsi Nazionali e Internazionali, tra cui la Targa d’Argento della Presidenza della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, la Medaglia del Pontefice Francesco I, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Premio UNESCO, il Premio Ministero per l’Attuazione del Programma del Governo, il Premio Provincia di Salerno, il Premio Città di Napoli, Premi alla Cultura, della Critica, della Giuria; il Premio Terme di Salsomaggiore 2002 per la pittura. Collabora con varie riviste di cultura; i suoi testi sono pubblicati in numerose antologie di Concorsi Letterari e ha recensito le opere di diversi Autori. È membro di Giuria in vari Concorsi Letterari. In campo artistico è apprezzata per la pittura (tipici i suoi “simbolismo-surrealismo” e “reale personalizzato e comparato”, così definiti dal critico Antonio Caggiano) e per la grafica. È stata membro di Giuria in Concorsi Artistici. Diverse sue opere d’arte fanno parte di collezioni pubbliche e private e sono riprodotte su copertina e all’interno di riviste culturali e libri. Per molti anni ha compiuto volontariato fornendo materiale e insegnamento artistico in scuole materne e primarie pubbliche e private, in pediatria oncologica a Bologna, in corsi per disabili psichici. Ha pubblicato la raccolta di racconti “Farfalle e Scorpioni” (Este Edition, 2015) e la silloge di poesie “Troppe nebbie” (Edizioni Il Saggio, 2019), entrambe pluripremiate. www.carlasautto.it

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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