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La piccola calla rosa era sbocciata.
A dire il vero, ne erano sbocciate due e altri rigonfiamenti facevano presagire nuove nascite.
Appena sceso in cucina, la moglie lo stava aspettando con il k-way in mano.
— Infìlatelo — gli ordinò.
Lui ancora sbatteva gli occhi, allargando le palpebre assonnate. — Perché?
— Infìlatelo — replicò lei.
Docile, infilò le braccia nell’indumento fresco. La moglie lo precedette e aprì l’anta del portone esterno.
— Cosa c’è?
— Vai avanti — lo sollecitò.
Si guardò circospetto intorno, poi avanzò sul selciato.
— Eh! — esclamò, accostandosi alla fioriera rotonda.
Fece un semicerchio pesticciando gli aghi dei pini marittimi disseminati dal vento notturno, approdati qua e là anche sul grande vaso — un supplizio, doverli raccogliere.
Ammirò quei due fiori che spuntavano turgidi tra le piccole foglie verde scuro e le corolle viola delle campanule portenschlagiana.
Se li guardò come una conquista, inchinandosi a esaminarli meglio.
— Ma sono calle? — si domandò. — Ma sono calle! — si rispose. E le rimirò compiendo l’intero giro intorno alla vasca circolare, sfiorando la spata rosa terminante in una virgola verde con lo spadice giallo eretto, interno. — Finalmente!
— Hai visto? — incalzò la donna — Ci sei riuscito!
Rientrarono — lui sorridente. Si avviarono in cucina. Lei aveva già fatto colazione, lui iniziò. Si servì una fetta di torta fatta in casa dalla moglie — torta Camilla — e bevve il caffè.
— Pensavo di fare il mio solito giretto — abbozzò. — Ma pioviggina. E poi, l’ho fatto ieri. Meglio non esagerare con questo ginocchio — concluse.
Si recò in bagno per radersi, lavarsi, vestirsi e incominciare la giornata.
— Vado in “falegnameria” — annunciò poi alla moglie, intendendo in “magazzino” dove stava restaurando una vecchia scrivania tarlata, squadrata, regalatagli da un amico.
— Va bene — assentì la vecchia che stava appendendo in lavanderia gli stracci bagnati con cui aveva avvolto i vasetti ripieni di confettura, per bollirli nel pentolone e creare il sottovuoto.
Lui uscì, poi subito rientrò. — Allora — iniziò, rivolto alla moglie, esigendone l’attenzione — ti riassumo la storia di quei fiori. La mia ex segretaria, la Silvia, mi diede un giorno un vasino con un ciuffo di foglie. Lo tenni in casa, in camera di Giulio, per tre anni. Non fece mai nulla. Allora lo spostai fuori, sotto la tettoia. Ogni anno, in inverno, la pianta moriva, in primavera nascevano solo foglie. Decisi di disfarmene ma, quando la svasai, mi rimasero in mano tanti piccoli rizomi che interrai in un vaso in giardino, al sole, insieme ai delosperma fucsia, ti ricordi? Anche lì produssero foglie e basta. Lo scorso anno, quando decisi di eliminare il vaso e di recuperare il terriccio, rinvenni cinque bulbi. Mi spiacque buttarli e li interrai in mezzo alle campanule viola, all’ombra. Quest’anno hanno fatto i fiori e sono calle!
La moglie gli sorrise: il marito aveva un cuore gentile. — Si vede che hanno trovato la posizione giusta — dedusse lei.
— Già — rispose il vecchio — insisti e insisti… Qualcosa di me, anche lì.
Lei se lo guardò commossa. Lui uscì e si recò in “falegnameria”.
Era alle prese con quella scrivania da mesi. Alla moglie piaceva, come le piacevano tutte le cose rustiche, artigianali e datate. “Come me”, gongolò lui. Così, dopo aver seguito su internet, in periodo di pandemia, un corso per restauratori — molto interessante — ne aveva iniziato il restauro. Prima l’aveva pulita, poi smontate le parti, quindi sanificata dai tarli pennellandola con l’apposito prodotto e sigillandola nel cellophane per quindici giorni, ripetendo il trattamento per tre volte. Trascorso il tempo, l’aveva sverniciata, portata a legno, messa in asse, steso la gommalacca per otturare i pori e prepararla al mordente, e ricomposta.

Negli ultimi giorni stava sistemando i cassetti profondi e pesanti. Uno, non rientrava più. Era gonfio. Quella mattina lo levigò, lo risistemò con colla e chiodi, sino a quando il cassetto scivolò senza intoppi sulle rozze guide.
A mezzogiorno, terminati i lavori, chiamò la moglie per dettagliarle i ritocchi compiuti. Poi, prima di chiudere il magazzino, ripassò gli occhi sulla scrivania e già se l’immaginò dopo il mordente, la stuccatura per la finitura, le mani di gommalacca, il lavoro con paglietta fine, la cera finale per la lucidatura… Una nuova vita. A casa di sua figlia, cui l’aveva promessa. L’avrebbe usata anche la nipote, e poi chissà…
“Insisti e insisti…” si compiacque, spegnendo la vecchia radio a valvole Phonola, recuperata anche quella, riassestata e funzionante. “Qualcosa di me, anche lì”.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

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Carla Sautto Malfatto

Ha conseguito quasi duecento premi e riconoscimenti per la poesia, la narrativa, la pittura e la grafica in Concorsi Nazionali e Internazionali, tra cui la Targa d’Argento della Presidenza della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, la Medaglia del Pontefice Francesco I, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Premio UNESCO, il Premio Ministero per l’Attuazione del Programma del Governo, il Premio Provincia di Salerno, il Premio Città di Napoli, Premi alla Cultura, della Critica, della Giuria; il Premio Terme di Salsomaggiore 2002 per la pittura. Collabora con varie riviste di cultura; i suoi testi sono pubblicati in numerose antologie di Concorsi Letterari e ha recensito le opere di diversi Autori. È membro di Giuria in vari Concorsi Letterari. In campo artistico è apprezzata per la pittura (tipici i suoi “simbolismo-surrealismo” e “reale personalizzato e comparato”, così definiti dal critico Antonio Caggiano) e per la grafica. È stata membro di Giuria in Concorsi Artistici. Diverse sue opere d’arte fanno parte di collezioni pubbliche e private e sono riprodotte su copertina e all’interno di riviste culturali e libri. Per molti anni ha compiuto volontariato fornendo materiale e insegnamento artistico in scuole materne e primarie pubbliche e private, in pediatria oncologica a Bologna, in corsi per disabili psichici. Ha pubblicato la raccolta di racconti “Farfalle e Scorpioni” (Este Edition, 2015) e la silloge di poesie “Troppe nebbie” (Edizioni Il Saggio, 2019), entrambe pluripremiate. www.carlasautto.it

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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