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Ci troviamo in uno scenario di dinamicità sociale senza precedenti nella storia, trainato dalla sempre maggiore disponibilità di dispositivi tecnologici a basso costo e ancor più da un nuovo modo di intendere la propria esistenza all’interno di una società fluida, slegata più che mai da vincoli etico-religiosi e patriottici, sempre più generica e solipsista. Non molti anni fa pensare di lavorare all’estero era per molti un’utopia, oggi sembra quasi una conquista riuscire a mantenere il proprio lavoro in Italia (e guai ad ambire a un posto fisso…). Eppure andare lontano ormai non fa così paura: sappiamo tutto di luoghi remoti senza mai averci messo piede, semplicemente informandoci attraverso il web. Pensandoci adesso sembra quasi assurdo che, appena quindici anni fa, internet stesse ancora muovendo i suoi primi, lentissimi passi nelle case di pochi luminari. Non posso che ritenermi fortunato a poter vantare di aver visto in 23 anni di vita più cambiamenti in termini di tecnologia di quanti non se ne siano visti dai tempi di Cristo fino alla Rivoluzione Industriale. Quando ero piccolo, se non si aveva a disposizione un telefono fisso, si doveva aspettare giorni, se non settimane, per ricevere risposta a una lettera; oggi il web ha demolito il concetto di distanza, rendendoci onnipresenti in un mondo virtuale sempre più popolato, sempre più integrato con quello reale. Nel terzo millennio probabilmente il dono dell’ubiquità sarà molto meno determinante di una connessione a internet.

Ma come mai tutta questa velocità di cambiamento? La Legge di Moore ci insegna che ogni 18 mesi siamo in grado di raddoppiare la complessità, quindi la potenza, dei nostri dispositivi, ma non ci dice che in un tempo poco più lungo compreremo un nuovo computer, un nuovo smartphone o un nuovo tablet. Nessuna invenzione può trasformarsi in innovazione se non trova un significato economico, e ciò non vuol dire solo raggiungere prezzi appetibili, ma anche avere la capacità di rivolgersi a un pubblico interessato. E oggi più che mai il pubblico è disposto al cambiamento. D’altronde, di innovazioni radicali ce ne sono state diverse nell’ultimo mezzo secolo: dai compact disc ai primi telefoni senza fili, fino a macchine in grado di affrontare un viaggio di andata e ritorno per la luna. Ciò che rappresenta la vera rivoluzione del terzo millennio rispetto al passato forse non è neanche la quantità di innovazioni, già di per sé enorme, quanto l’abitudine a esse, alla semplicità e alla rapidità con cui si affermano e scompaiono in un brevissimo arco di tempo, nel quale hanno comunque avuto modo di entrare nelle nostre case e modificare tanto radicalmente quanto silenziosamente la nostra vita di tutti i giorni. Per questo mi piace parlare di paradigma dinamico, piuttosto che di paradigma tecnologico, per definire la rivoluzione sociale della nostra generazione.
Il cambiamento genera cambiamento, autoalimentandosi nella sua stessa direzione fino a raggiungere una potenza tale da superare il giogo della crisi economica da un lato e divenirne concausa dall’altro: se nonostante oltre dieci anni di non-crescita del prodotto interno lordo italiano abbiamo a disposizione un potenziale tecnologico decisamente maggiore rispetto a un decennio fa, è comunque vero che il software (ancor più che le macchine duramente condannate da Marx in passato) sta divenendo a livello industriale il sostituto ideale dell’uomo, alimentando il fenomeno della disoccupazione tecnologica. Stando così le cose, non è improbabile che quella parte di lavoro manuale che la meccanica non era riuscita a eliminare dal sistema produttivo scompaia del tutto, sotto l’efficienza dell’ingegneria robotica e ‘softwaristica’, mentre gli umani rimarranno sempre più confinati a compiti intellettuali e di progettazione. È paradossale: ci troviamo in un mondo pieno di comodità che rischiamo in futuro di poter essere sfruttate da un numero sempre minore di utenti.
L’Italia, con una politica di investimenti in istruzione e ricerca e sviluppo gravemente al di sotto della media europea e di quella dei paesi industrializzati, ormai poco attraente per il personale specializzato sempre più disposto a cercare fortuna altrove, vede da spettatrice la crescita dell’ingegneria ad alto contenuto tecnologico, ormai settore chiave della crescita economica della nostra epoca, ma quasi interamente in mani straniere. Senza investimenti mirati a offrire occupazione per il capitale umano che si crea in Italia, ma che viene disperso nel mondo, non ci sarà governo tecnico, direttiva europea o sindacato in grado di evitare il collasso di un’economia già indebolita da dieci anni di crisi e che rischia di essere travolta da un’ondata di disoccupazione tecnologica senza precedenti nella storia. Tutto questo mentre molte grandi aziende spostano i pochi reparti che richiedono manodopera in luoghi in cui il suo costo è inferiore. C’è necessità di elasticità e capacità di rinnovamento economicamente sensato per entrare a testa alta negli scenari che ci presenterà il nuovo paradigma. Le istituzioni, termine intrinsecamente statico, vacillano in una fase di rivoluzione così profonda. Il nuovo mondo sarà dei paesi e degli uomini che sapranno adattarsi e rendersi partecipi del cambiamento, non di coloro che per principio lo rifiuteranno.
Fulvio Gandini

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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