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«In proiezione, il rapporto debito pubblico/Pil non è sostenibile». Questo quanto “stabilisce” lo studio di The European House-Ambrosetti presentato a Cernobbio qualche giorno fa. Il motivo è ovvio: perché il debito sia sostenibile si ha bisogno di un tasso di crescita dell’economia superiore al tasso d’interesse del debito stesso, cosa che le prospettive sul Pil italiano non lasciano sperare. Il 2019 si prevede una crescita dal +0,6% (stime Fondo Monetario) al -0,2% (stime Ocse). Ovvio quindi che il nostro debito pubblico in un orizzonte che va fino al 2023 «non è sostenibile».
Al European House-Ambrosetti fa eco l’Abi che per bocca del suo presidente Patuelli conferma che il debito pubblico è il problema principale e che “quando il debito pubblico era infimo, l’Italia raggiunse il miracolo economico”.
All’assemblea dell’Abi era presente anche il Governatore della Banca d’Italia che ha sottolineato la necessità per l’Italia di dotarsi di “una strategia credibile per la riduzione del peso del debito pubblico”.
Insomma non si scappa dall’assioma: alto debito pubblico = bassa crescita. Cioè che è l’alto debito a creare le condizioni della bassa crescita il che assomiglia molto alla legge di Say. Un assunto ovvio nelle Università e nella vita economica dell’Ottocento per cui l’offerta creava la domanda.
Ci volle Keynes per spostare l’attenzione sulla domanda, per poi arrivare a Roosvelt e al suo New Deal e anche al piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale. Il concetto era, ed è, che se non si crea la possibilità di spendere difficilmente si potranno comprare i beni prodotti e che lo Stato deve intervenire in fase anti ciclica e quindi investire (cioè spendere) oggi per raccogliere domani.
Quindi, se non si aumentano i deficit statali e si continua invece a tagliare gli investimenti al fine di diminuire il debito pubblico, non ci potrà mai essere crescita. Tantomeno crescita strutturale, cioè quella programmata e stabile. A meno che non ci si riferisca alla crescita degli indici di borsa, che ovviamente hanno un loro schema molto diverso da quello delle esigenze degli Stati, oppure ci si riferisca alla crescita finanziaria e speculativa, la quale ha certamente bisogno di stabilità ma intesa come tutela del capitale, quindi bassa inflazione, debiti pubblici controllati dallo spread e non dalle banche centrali e mobilità dei capitali.
L’attenzione perversa sui debiti pubblici sta bloccando non solo la crescita dei pil nazionali, il che potrebbe anche essere sopportabile da molti punti di vista. Sta destabilizzando i diritti sociali dei popoli che devono sopportare in nome degli equilibri di bilancio stagnazione dei salari e alta disoccupazione strutturale.
Dalle crisi del 2008 e del 2011 in nome di questa assurda lotta al debito in Italia siamo passati in Italia da 1.5 milioni di poveri a 5 milioni, abbiamo contratto i prestiti alle aziende causando una micidiale sequenza di fallimenti, abbiamo reso le banche vulnerabili a qualsiasi soffiare di vento e abbiamo reso ancora più indipendenti quegli organi che dovrebbero tutelarci, le banche centrali, e ovviamente ancora più pregnanti sulla nostra quotidianità la volubilità delle borse valori e delle operazioni finanziarie.
La disuguaglianza è esplosa perché si sta pretendendo che tutti i cittadini siano uguali, ugualmente responsabili del debito dello stato e ugualmente chiamati a ripagarlo nonostante questo sia qualcosa mai successo nella storia degli stati. Il debito pubblico non va ripagato ma solo reso sostenibile e per renderlo sostenibile a volte potrebbe essere utile farlo crescere perché è una forma di investimento per il futuro. E lo sanno anche i mercati.
Ma ovviamente la realtà non interessa a chi propaganda questi messaggi perché loro sanno di non essere uguali agli operai dell’Ilva o alla cassiera della Coop e nemmeno al “fortunato” impiegato pubblico. Loro sono altro, e lavorano consapevolmente o inconsapevolmente per le disuguaglianze, per l’accentramento del potere che si rafforza anche attraverso falsi allarmi e l’idea di una uguaglianza che non esiste.
E che il problema non sia il debito ma ben altro ce lo insegna il Giappone. Nonostante questi abbia il 260% di debito pubblico in rapporto al Pil, i mercati hanno mostrato per due decenni un’incrollabile fiducia nella capacità del governo di onorare i propri impegni. Dopo 30 anni di crescita lenta e di contrazione demografica in atto, i mercati globali vedono lo yen giapponese come un porto sicuro e ogni volta che cresce l’avversione al rischio, lo yen tende ad apprezzarsi.
Oggi la crisi non è più economica. L’economia è diventata un catalizzatore di confusione, un modo per evitare di parlare di sociale e di politica. Si tende ad incolpare elementi senz’anima come i mercati e la speculazione se mancano i posti negli ospedali, si arriva al massimo ad incolpare qualche politico per episodi di corruzione ma non si va mai a fondo, non si aggredisce la struttura e le regole che permettono tutto questo perché i guardiani del sistema sono molto più potenti di Salvini o di Renzi o di Di Maio. E depistano.
Di Maio potrà persino arrivare a cambiare la Costituzione ma non riuscirà mai a togliere dalle mani dei grandi interessi le armi del potere e quindi fare le riforme necessarie: nazionalizzazione delle banche centrali e messa in sicurezza dei debiti pubblici, controllo delle banche commerciali e loro separazione dalle banche d’affari e tutela dei risparmi insieme alla gestione del credito, intervento statale in funzione anti ciclica attraverso il controllo degli asset strategici nazionali.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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