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In tempo di Metafisica galoppante Frara ‘città del Worbas’ sembra dare il meglio di sé. Probabilmente Alberto Savinio, autore del titolo citato e fratello geniale del più conosciuto Giorgio de Chirico, mai avrebbe saputo meglio interpretare il simbolo ferrarese del Worbas, che campeggia in tutta la sua potenza – seppure in copia – sulla Torre dei Leoni, una delle quattro del Castello Estense, a sua volta il monumento identificativo della città. Con la sua stralunata identificazione del motto “Wor Bas” incorniciato da due leoni Alberto Savinio, in “Frara città del Worbas”, pubblicato su “La Voce” (Firenze, 31 ottobre 1916) e poi in “Hermaphrodito” (Firenze, 1918), identifica la città col suo motto:
“Verrà un giorno in cui lascerò Frara dalle case rosse; in cui non vedrò più di qua e di là dal Po / tutti i figli di Nicolò;/ in cui non sarò più perseguitato dall’enigmatico Worbas […]. Già, verrà pur un giorno in cui ti lascerò, Ferrara. Povera Ferrara! Quante bocche rosse da baciare! Quante mani calde da stringere! Quanti cuori fiammanti! E anch’essa fu contaminata dall’orrendo pathos. Essa, infra le più pure città italiane; malgrado l’opprimente ritornello di Ugo e Parisina”.
Probabilmente il motto scritto in alto tedesco allude a un andare sempre più avanti e come tale fa parte delle imprese o motti adottati dalla dinastia estense.
Si dovesse ricorrere all’‘orrendo pathos’ che Ferrara provoca oggi occorrerebbe affidarsi a un più complesso motto che potrebbe tracciare le ‘imprese’ che i prodi ferraresi compiono o hanno appena compiute.
Ad andar ‘sempre più avanti’ si perde la banca di riferimento del territorio, quella solenne Carife a cui più e più generazioni avevano affidato risparmi e orgoglio, identificati in quella pericolosa arma così difficile da maneggiare che si chiama ‘ferraresità’, e a cui ci si è rivolti e ancora ci si rivolge come il segno complesso e salvifico della superiorità di questa città. Cosmè Tura o Ariosto, Bastianino o Tasso, de Pisis o Bassani sono sì grandi artisti, ma soprattutto sono ‘feraresi’ secondo la scempiata pronuncia strascicante che rende sicuri della propria identità e della propria superiorità,
Così, a cominciare da chi scrive, non si presta attenzione, né tantomeno se n’è prestata, a come quel “Wor Bas”, quell’andare sempre avanti, possa poi concludersi non con una schiacciante vittoria come quella ottenuta dalle forze ferraresi nella battaglia della Polesella, ma molto più realisticamente con una battaglia vinta che tuttavia diventa una sconfitta come quella di Ravenna al tempo della lega di Cambrai.
È passata l’età d’oro contrassegnata da imprese culturali (e mi limito a questo campo che posso considerare mio) di straordinaria efficacia quali l’acquisizione di opere importanti che vanno ad arricchire le collezioni della Banca e della Fondazione a lei legata: come l’arrivo in città di una Musa dello Studiolo di Leonello, di un (brutto) Tiziano che campeggiava nell’ufficio di presidenza, di splendidi de Pisis e altre opere fondamentali per ricostruire il senso del Rinascimento estense, fino a quella mostra che ne sancì l’impatto europeo a Bruxelles, “Une Renaissance singulière” scelta per caratterizzare il semestre europeo dell’Italia. A pensarci oggi, lo stretto sodalizio che univa le scelte e le intenzioni della banca e poi della Fondazione alle istituzioni politiche rivela già un ipertrofismo che avrebbe dovuto, ma non ha sollevato dubbi o interrogativi. Cominciarono a circolare battute pesanti: la Carife come una mucca alle cui mammelle s’abbeverano tutti.
Nel nome della ‘ferraresità’ tuttavia nessuno si curò di approfondire, almeno di sapere. Entusiasticamente si sottoscrissero le azioni, poi ancora le obbligazioni subalterne, poi l’intervento della Banca d’Italia, poi i due anni di silenzio a cui nessuno osava opporre una decisa richiesta di parole, infine il grido che, come nel film di Michelangelo Antonioni, rompe il silenzio della stupefatta Frara: la banca è fallita. C’è una Nuova Carife ripulita dalle imbarazzanti scorie di una cattiva amministrazione in attesa di essere comprata e di cambiar nome.
La politica, amica fino ad allora, firma la morte di Carife con la penna del presidente del Consiglio e il Capo dello Stato l’approva.
Non voglio né ho gli strumenti adatti a commentare questa soluzione, che vede ora l’un contro l’altro armati il responsabile del salvataggio e i cittadini disperati che rumoreggiano fuori e dentro le filiali e la sede, ma di una cosa sono sicuro: l’attenzione è mancata anche per quel concetto mal inteso di ferraresità che ci induce a guardare sempre dentro le Mura, come avverte il titolo di un’opera bassaniana .
Capisco e immagino che le reazioni a questa corresponsabilità saranno tante e molte, tra queste, giuste, ma non mi so assolvere fino in fondo.
Ora la parola deve necessariamente ripassare alla politica. È lei che deve risolvere una così terribile crisi e a lei, dopo il grido, si deve e si dovrà fare riferimento.
Frattanto il “Wor Bas” produce altri sommovimenti. Le parole captate in treno e probabilmente – ma senza sicurezza oggettiva – pronunciate dall’arcivescovo della città. E per non farci mancare nulla, ecco apparire in piazza Duomo un curioso oggetto di vetro. Lo chiamano albero di Natale, ha la forma di uno scovolino senza la morbidezza rassicurante dell’albero vero. Ma il “Wor Bas”, il sempre più avanti, iscrive anche questo tra le bellezze di quella che de Pisis chiamò “La citta delle 100 meraviglie”, che si concluderanno, ahimè, con il terrifico incendio del Castello.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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