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UN PAPA DI NOME FRANCESCO.
Spunti di riflessione a pochi giorni dalla sua scomparsa

UN PAPA DI NOME FRANCESCO. Spunti di riflessione a pochi giorni dalla sua scomparsa

Un vero e proprio bilancio dei 12 anni del pontificato di papa Francesco (2013–2025) sarà compito degli storici. A pochi giorni dalla sua morte, la mattina del 21 aprile (lunedì di Pasqua), e per niente al riparo dall’emozione suscitata dalla sua inaspettata scomparsa, è possibile, almeno per me, solo qualche spunto di riflessione.

Sull’onda partecipativa rispetto a una notizia che ha lasciato un’umanità incredula, sono parse esemplari le parole usate dal card. Matteo Zuppi, presidente della CEI, pronunciate nel duomo di Bologna il pomeriggio dello stesso 21 aprile: “Ha amato fino alla fine. Quel suo giro con la macchina (la domenica di Pasqua in piazza San Pietro), per salutare tutti e farsi salutare da tutti, è il gesto di un Papa che non si è mai risparmiato”.

“Fino alla fine” e “tutti” sono una sintesi, non solo emotiva, dell’impronta data da Jorge Mario Bergoglio a un pontificato che, proprio partendo dagli esclusi, ha incluso tutti.

Non sempre si presta la giusta attenzione su questo punto.

Se agli ultimi si dedica un’attenzione prioritaria (il primo viaggio a Lampedusa appena eletto papa), di conseguenza non ha più senso parlare dei primi perché tutti, appunto, hanno uguale dignità e meritano lo stesso rispetto e diritti, non solo coloro che li possiedono per mezzi, possibilità, disponibilità e potere.

E il fatto che Francesco abbia voluto farlo “fino alla fine”, come la visita ai carcerati di Regina Coeli il giovedì santo, appena dimesso dall’ospedale Gemelli, significa avere preso sul serio quella radicalità evangelica che è l’esatto rovesciamento della logica verticale e che, in quanto tale, da sempre provoca scandalo, suscita incomprensioni, resistenze e perplessità, quando non aperte contestazioni e ostilità.

Una radicalità testimoniata anche all’uscita dal carcere romano quando, a tiro di microfono, con un filo di voce, ha ripetuto quella frase spiazzante: “Ogni volta che vengo mi chiedo: perché loro e non io?”.

Una sintonia evangelica tutta francescana (sine glossa) per un papa gesuita, cui spesso si è cercato di mettere il silenziatore. Bonarietà e semplicità, è stato detto, fanno di Bergoglio un buon parroco del mondo, rispetto allo spessore teologico di un papa Ratzinger.

La mente corre alla definizione di “papa buono”, tuttora usata per Giovanni XXIII, dimenticando la portata di operazioni come l’enciclica Pacem in terris e la convocazione del concilio Vaticano II, aperto con il memorabile discorso Gaudet mater ecclesia.

Se si tenta, per quanto possibile, un minimo di distacco dall’ondata emotiva per la scomparsa di un testimone di speranza e di pace (per quanto inascoltato) che sta lasciando un vuoto (come ha confessato Sergio Mattarella), c’è chi ha visto, invece, in papa Bergoglio l’applicazione di un disegno lucido tutt’altro che banale.

Lo ha scritto e detto, fra gli altri, lo storico Daniele Menozzi (Il papato di Francesco in prospettiva storica, 2023 e nel corso di una due giorni ad Albino, Bergamo, della rivista settimananews.it, nell’ottobre 2024).

Per prima cosa la scelta del nome.

Bergoglio diceva che al momento della sua elezione, un cardinale amico gli disse di ricordarsi dei poveri. Il papa argentino pensò che oltre alla povertà, altri due problemi angustiano il presente: le guerre e la crisi ecologica. Da qui il richiamo spontaneo a Francesco d’Assisi, “per me – disse – l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e rispetta il creato”.

Ma se si vuole andare alla cifra più profonda del pontificato di Francesco, occorre considerare l’importanza dirimente del Vaticano II.

La questione centrale del concilio che si svolse fra il 1962 e il 1965 fu l’aggiornamento ecclesiale, cioè superare le difficoltà di comunicare il messaggio cristiano all’uomo moderno che, con la pretesa di autodeterminazione, si era sottratto alla direzione della Chiesa in ogni direzione: individuale, collettiva, della vita.

Quel programma, l’aggiornamento, a concilio concluso lasciò aperte due strade

Da una parte, la Chiesa riconosceva all’uomo l’autonomia delle realtà temporali (cultura, scienza, politica e persino religione con la dichiarazione Dignitatis humanae). Ma questa autonomia aveva dei limiti che la costituzione Gaudium et spes definì iusta autonomia. Quando cioè si trattava della sfera morale spettava alla Chiesa stabilire le regole perché il comportamento degli uomini fosse eticamente lecito.

La seconda posizione proponeva la Chiesa in dialogo con le persone scrutando i segni dei tempi.

Da un lato occorreva verificare la persistenza nel mondo di valori evangelici e su questo terreno costruire percorsi d’incontro. Per esempio, nella Pacem in terris l’aspirazione alla pace era il terreno comune per la costruzione di una società fraterna, per l’emancipazione delle donne e dei lavoratori.

Dall’altro, aggiornamento significava imparare dalla storia, come più volte ha scritto Giovanni Miccoli.

Si sa che questa seconda interpretazione è andata incontro alle critiche di omologare il cristianesimo al mondo.

Nei primi anni di pontificato di Paolo VI i due orientamenti convivono.

Sulla strada indicata da papa Roncalli, papa Montini disse nel suo discorso di chiusura del concilio (8 dicembre 1965), che la Chiesa non intende condannare la modernità.

Nel 1968 la svolta avviene con l’enciclica Humanae vitae. Alla base della decisione presa in merito alla contraccezione si trova una rivendicazione generale: la Chiesa, custode e interprete ultima della legge naturale posta dal Creatore a reggere l’universo, indica le norme morali valide sempre, ovunque e per tutti.

Sono i limiti oltre i quali non può spingersi l’autonomia dell’uomo.

Da questo momento il magistero papale adotta la linea che Menozzi definisce dell’ammodernamento: i vincoli posti dalla legge naturale all’autonomia dell’uomo.

I successori di Paolo VI ne ampliano la portata.

Se Montini l’aveva riservata all’ambito sessuale, familiare e matrimoniale, i successori ne estendono la ricaduta su tutti gli ambiti di vita.

Fino a Benedetto XVI, al punto di legare l’impegno politico dei cattolici alla traduzione nella legislazione civile dei valori non negoziabili, che riguardano non solo la bioetica, ma educazione, scuola, economia, giustizia …

Un progetto non a caso definito di neo-cristianità.

Le clamorose e coraggiose dimissioni di papa Ratzinger (2013), di fatto ammisero le difficoltà insormontabili di questo disegno, anche nell’ipotesi definita l’opzione Benedetto.

Papa Bergoglio ha impersonato la ripresa della strada dell’aggiornamento: una Chiesa ospedale da campo che si immerge nella storia e che dalla storia impara una migliore intelligenza del Vangelo.

Ecco, dunque, quella che è stata chiamata la sua rivoluzione della tenerezza e della misericordia, altro che semplice bonarietà.

È il percorso che il card. Martini propose già nel conclave del 2005 e che risultò sconfitto con l’elezione di Benedetto XVI.

Il pontificato di Bergoglio è stato, quindi, il tentativo di riprendere la strada conciliare intravista da papa Roncalli, come sfida epocale per una Chiesa, come hanno scritto Paolo Prodi e Fulvio De Giorgi, giunta al capolinea inesorabile delle età costantiniana, tridentina e intransigente.

Per una Chiesa che non si propone più di prescrivere all’uomo i limiti della sua autodeterminazione, ma che si sente intimamente sulla stessa barca di un’umanità tra le tempeste della storia, come ha detto Francesco nel 2022 in una piazza San Pietro deserta durante la pandemia: il coraggio di un leader di parlare a una piazza vuota.

Da qui la sua insistenza ad avviare processi invece di indicare (o dettare) soluzioni: il tempo superiore allo spazio, come scrisse nell’Evangelii gaudium nel 2013.

Naturalmente i suoi 12 anni di pontificato sono stati un tentativo e diversi sono i temi rimasti aperti e lasciati in eredità al suo successore.

A partire dalla postura sinodale voluta da Francesco per la Chiesa. È il messaggio fortissimo, come ha detto Alberto Melloni, di una comunione che diventa decisione, in un tempo in cui le democrazie sono seriamente insidiate da potenti ritorni imperiali, autoritari e autocratici.

Rimangono poi aperte altre questioni, come la declinazione della pedagogia della pace: come può la nonviolenza diventare un atteggiamento in grado di opporsi alla volontà di potenza di imporre la legge delle armi? Oppure il tema della povertà, da conciliare con l’evidente necessità di mezzi materiali per condurre l’azione di apostolato universale.

Sul versante più interno alla Chiesa, rimangono aperti temi cruciali come, per citarne solo alcuni, il ministero ordinato alle donne e agli uomini sposati, le nomine dei vescovi, oltre al diaconato femminile, su cui ormai studi teologici e storici consolidati premono da tempo.

Per non parlare del tema abusi, sempre sul delicato crinale fra peccato e reato, anche se Bergoglio ha pure puntato il dito sul clericalismo, a differenza di Benedetto che vedeva la radice del degrado nella rivoluzione sessuale degli anni ’60.

Per intenderci, si potrà capire di più, per esempio, se al termine del prossimo conclave, ci sarà un Francesco II, oppure un Benedetto XVII e se e come il successore di papa Bergoglio vorrà affrontare i temi aperti lasciati in eredità.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)