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Questo amore sa d’estate. Di passeggiate su e giù per i sentieri, di polvere  fine che si insinua tra i capelli e la pelle. Un uomo normale che a me sembra bello, una voce calda che scioglie il cuore. L’amore è anche questo, un po’ di poesia che arriva a travolgere la mediocrità della vita quotidiana. Per tanto tempo ho pensato che nulla potesse reggere il peso della mia  malsana abitudinarietà.  Come si può resistere con qualcuno che fa un lavoro faticoso, ha gli occhi gonfi la sera e che continua a scrivere in modo un po’ forsennato e folle, in questo divenire sempre uguale che non finisce mai.

Per molto tempo ho pensato che pulire una casa, cucinare, stirare gli abiti fosse noioso e ripetitivo, malefico nel suo pretendere tempo e risorse. Fonte di annientamento, di routine, di stanchezza, di noia. Come è possibile che un amore possa sopravvivere a tutto questo?. In passato me ne sono andata per non soccombere, per non trovarmi imbrigliata in una quotidianità che mi avrebbe uccisa, che si sarebbe portata via parte di me, di quel che faccio e di quel che sono. Quelli come me sono persone strane, comunicano scrivendo, sembrano abbracciare le parole e piroettare con loro in una specie di valzer che dopo un turbinio di sillabe volteggianti, finisce nell’ordine più assoluto.

Come il posizionamento rigoroso di tutte le rondini sul filo, dalla più grande  alla più piccola, così uno scrittore ordina le parole, le frasi, i paragrafi di un libro. Questo faccio ogni giorno, ordino le parole. In questo rigore c’è una via d’uscita, la luce in fondo al tunnel. Poi arriva la sera e io mi fermo  a guardare un lavoro impegnativo e, a volte, un riuscito posizionamento di un po’ di verità su un  foglio. Come può la creatività convivere con tutto ciò che è quotidiano senza stridere, mandare urla di soffocamento, sembrare un lavandino mezzo intasato che produce gorgogli di malumore e arrendevolezza. Come conciliare il lavoro, la noia  dalla quale provo sempre a fuggire e che mi riacchiappa sempre, l’amore.

Un uomo. Eppure mi piace lui e il giorno sembra più bello, i gerani di Teresa brillano di un rosso strano, le mani sulla tastiera corrono veloci e sistemano sicure le parole. Le posizionano una volta per tutte, senza possibilità di scampo e rivalsa. Le inchiodano dentro questo tempo, dentro questo libro che sa di nuovo.

E’ arrivato lui in un giorno di sole. Gli occhi verdi come le felci e la bocca morbida. (Proprio a me doveva capitare). Pelle liscia e calda, un buffo modo di chinare il capo. Una presenza viva che ha invaso e riempito lo spazio, ha assorbito l’ossigeno fino quasi a farmi soffocare. Lui sulla pelle, lui negli occhi, lui nelle mani. Possibile che questo sentire e vedere possa sopravvivere? Che ci sia ancora una possibilità su un milione che questa magia possa diventare verità, che un’emozione possa diventare dedizione, che le mie lacrime abbeverino le felci dei suoi occhi, che si veda il futuro in quel luccichio. Possibile che questo sentire trovi una via per sopravvivere alla mediocrità delle giornate, alla ripetitività di quella mia estenuante ricerca di senso che si consuma ogni giorno tra la carta e l’inchiostro, tra i panni appesi al filo e il cesto in cui si ammucchiano le calze?.

C’è ancora una possibilità, c’è per me, c’è per tutti, c’è per pochissimi?. Lui è arrivato con quel suo modo gentile e non convenzionale, con curiosità e con un po’ di sorpresa. Ma io l’ho sorpreso? Io che scrivo e che infilo le parole come corallini tenuti insieme da un filo che forse un giorno qualcuno chiamerà collana. Li infilo cercando di combinarne i colori. Prima il blu, poi l’azzurro e il verdino, il verde scuro, il nero, il rosso scuro, il rosso geranio, l’arancione, il giallo sole e il giallo limone. Possibile che gli piaccia io  che sono insofferente, testarda, ribelle, perfezionista. Eppure lui c’è ed io l’ho visto. Un profumo di pelle, un bacio, un sorriso, una corsa nel vento e nel tempo. Lui che si ferma a comprarmi un gelato e poi prendiamo un caffè. “Andiamo là. Là fanno il miglior caffè della città”. E poi i suoi jeans un po’ slavati e stretti, una maglietta bianca, una giacca di lino. Quella voglia di toccargli un orecchio, di accarezzarlo, di morderlo. Orecchie belle, piccole. Sanno un po’ di mare, un po’ di sale e un po’ di pace. Come faccio  adesso a conciliare questo vento con la vita che ho. Se mai la mattina mi vedrà con quella maglietta blu che metto per dormire, con i capelli in aria che sembro un istrice, a piedi nudi mentre mi accovaccio sulla sedia come un gatto e mangio il pane fresco con il burro e lo zucchero.  E poi quando andrò in bagno, mi laverò, vestirò, canterò qualche strofa di canzone con parole sbagliate e poi scenderò di corsa le scale come un fulmine che prima o poi si schianterà al suolo, facendo un frastuono da elicottero, svegliando cani, gatti e vicini di casa. Come potrà sopportare tutto ciò, e come potrò io pensare di costringerlo a questo, dentro questo mondo, dentro questa noia. Vorrà accompagnare questi giorni fatti di poco e di ritmi che si riproducono uguali, sempre quelli? Come potrò essere meno uguale o meno diversa, meno strana, meno prevedibile. Eppure lui c’è ed io l’ho visto. E’ pelle e carne viva, è un corpo esigente e sano, è aria da respirare, una parola per nulla banale. Come sia successo non lo so, non sembra vero, non era previsto, nessuno l’ha chiesto o l’ha cercato. Credevo fosse sposato ma non è così, non è nemmeno questo. Non lo è mai stato. Non ho scuse, devo mettermi di fronte a me, devo capire se posso darmi una possibilità, se posso credere che un futuro ci sarà. Lui dice che non sa cosa succederà, si vedrà. Dice che il presente è qui per noi, che il futuro sarà il bene che resterà. E io ora cosa faccio? devo dare una possibilità a questo accadere che non è come lo volevo, a questo tempo strano e sospeso. Eppure nel cielo una nuvola bianca c’è, la nuvola esiste indipendentemente da me. Una grande agitazione, una vita che si alza da terra, che rischia il volo con tutte le sue criticità. E’ rinato il tempo delle favole, il bisogno di un tocco leggero, di una mano che scaccia i fantasmi come fa con le mosche, con le ragnatele. Mi chiedo se possa bastare questo per ricominciare, per cambiare la mia vita, oppure è lei che ha già cambiato me. E’ arrivato lui, in quella giornata normale in cui mai avrei pensato di inciampare. Si è improvvisamente aperta una porta verso il futuro. Posso concedere a me stessa la speranza che domani sarà come oggi, che la nostra forza distruggerà la normalità, che lui potrà sopportarmi e trovare in ogni giorno una rinnovata energia?. Sono franata in uno strano tormento, in qualcosa che travalica i miei confini.  Sono sommersa da lui, con lui. Continuo a pensarci, continuo ad annegare. Questa storia sta nascendo, è già nata.

Ho scoperto ora che voglio che la vita con la sua forza superi le mie convinzioni, i miei malumori e le mie perplessità e che mi porti leggera sulle ali del vento. Voglio lui che è pelle e sudore, carne e vita, sorriso e pensiero, occhi verdi come le felci,  come il mare. In lui c’è un prato, una terra e una casa. Forse proverò ad entrare in quella casa in punta di piedi, cercando di non disturbare. Devo lasciare a questo tempo una possibilità, devo ridare spazio alla libertà ed al canto, alla vita nella sua novità. A lui che forse potrà lenire la paura, la preoccupazione per ciò che sarà. Forse finirà la mia guerra perenne nei confronti della quotidianità. I suoi occhi hanno il colore delle felci. Non resta che aprire la porta e poi si vedrà.

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Costanza Del Re

E’ una scrittrice lombarda che racconta della vita della sua famiglia e della gente del suo paese, facendo viaggi avanti e indietro nel tempo. Con la Costanza piccola e lei stessa novantenne, si vive la storia di un’epoca con le sue infinite contraddizioni, i suoi drammi ma anche con le sue gioie e straordinarie scoperte.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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