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“C’è un’aria, un’aria, che manca l’aria”, cantava Giorgio Gaber. Paiono scritte per i giorni nostri quelle parole. “Bisogna bruciarli tutti gli extracomunitari insieme a chi li accoglie e si fa le budella d’oro”, è la frase che si è sentito dire don Domenico Bedin in piazza Duomo.
È solo uno dei tanti esempi, ormai a due alla volta finché non sono dispari si dice dalle nostre parti, per raccontare un tempo che pare deciso di passare alla storia sotto l’insegna del degrado e della mancanza della minima dose di buon senso. Quello stesso equilibrio che ci si aspetterebbe da una persona che al trascorrere delle primavere anziché trovare saggezza apostrofa in quel modo privo di riscontro un prete al quale tutti, credenti o no, dovremmo dire grazie.
E invece.
Maleducazione, politically scorrect, pulsioni senza freni e provocazioni, sono poi cavalcati da tempo a livello politico e persino istituzionale. Tanto che questa appare la normale grammatica sociale, mentre anormale è lo stile poco ciarliero, e men che meno social, di un capo dello Stato, che proprio nei suoi gesti al limite dell’impaccio finisce per sottolineare la natura pro-tempore del proprio mandato e ricordare che egli stesso è innanzitutto a servizio delle istituzioni, non il contrario.
Ma perché si stanno scendendo un po’ ovunque le scale della ragionevolezza e scalando con passo da bersagliere il monte del sen perduto?
Cos’è successo perché qualsiasi provocazione senza fondamento proveniente da una destra estrema trovi davanti a sé una comoda discesa, mentre qualsiasi cosa con un minimo di senso, non importa se da sponda conservatrice o progressista, è destinata a scalare un Mortirolo? Naturalmente moderati e progressisti ci hanno messo nel frattempo molto del loro per mettersi fuori gioco e in questo l’Italia può ben rivendicare il podio di laboratorio politico.
Ma questo non sposta di una virgola il quesito di fondo: perché? Tante sono le risposte possibili, ci mancherebbe, però qualche minuto non è speso male se si ferma l’attenzione su una in particolare. Questo è un tempo che, in generale, non sopporta la diversità. In tutti i campi, se ci pensiamo.
Nel nostro mondo, come l’abbiamo conosciuto finora, non esiste più la famiglia, ma le famiglie. Hanno fatto il giro dei media le immagini piene d’affetto del giovane omosessuale che ha adottato una bambina down. Non c’è più la religione, ma le religioni. Gli esperti dicono, da tempo, che i principi morali da universali sono diventati regionali e in pratica si va verso un futuro in cui ognuno ha i suoi.
Idee, opinioni, culture, modi di vita, fedi, hanno rotto i contenitori novecenteschi di partiti, sindacati, ideologie, associazioni e chiese e hanno intrapreso una rotta (postmoderna) in cui ogni orizzonte è stato cancellato, come scrisse Nietzsche ne La gaia scienza. Sotto la spinta populista la società è preda di una disintermediazione in cui i rapporti si semplificano fra il leader e il popolo, senza più alcunché in mezzo, ma non è ancora chiaro quanto i corpi intermedi stiano contribuendo a disintermediarsi da soli, spesso attardati in logiche e liturgie autoreferenziali.
Il fenomeno migratorio, per il quale nessuno ha ancora trovato una soluzione di governo, è solo la punta dell’iceberg di una diversità che, per il momento, spaventa. Il problema si complica quando la diversità irrompe in un momento in cui si dilatano le differenze. Un conto è affrontare il tema delle diversità a stomaco pieno, un conto è farlo quando redditi e reti di protezione sociale arretrano e il discorso dell’equità, storico terreno della cultura di sinistra come ha scritto Norberto Bobbio, non trova più nemmeno un vocabolario per il presente.
E così prevale la paura e dove si è creduto, ingenuamente, irreversibile l’apertura (la globalizzazione, i commerci, la rete, l’Europa), tornano i confini, i sovranismi, le chiusure, le nostalgie di un ordine perduto, non importa se fuori tempo massimo.
Dal ministro Salvini che, di fronte allo spettro dei genitori “uno e due” (rappresentazione plastica dell’incapacità anche lessicale di abitare il nuovo della diversità), rassicura rieditando nostalgicamente le figure di papà e mamma, allo slogan “Prima i nostri” col quale si vincono le campagne elettorali in mezzo Occidente, agli uomini forti additati come i soli capaci di fare sintesi di una diversità eccedente che frantuma le sicurezze della tradizione e porta le democrazie sull’orlo del caos.
Il presidente ungherese Viktor Orban, parlando quest’anno in un’università romena, si è detto fermo sostenitore di una democrazia cristiana illiberale, contro la democrazia liberale, dove l’aggettivo “cristiana” è usato come simbolo a difesa non di un modello religioso, ma culturale-identitario. Un perimetro, cioè, da difendere, per tenere il modello di famiglia al riparo dalle derive liberali, in senso plurale, e di comunità nazionale preservata dalla contaminazione migratoria.
Sicurezza e identità diventano pertanto i banchi di prova culturali e politici per un tempo che ha smarrito entrambe e che non sa resistere alla tentazione di spostare indietro le lancette della storia, pur di restaurare la quiete di un mondo passato.
Restaurare e ripristinare, perché rifugiarsi nel tepore della tradizione di un mondo perduto – artificialmente mitizzato – appare più rassicurante rispetto a un nuovo per il quale occorre essere attrezzati e che non si sa verso quale meta stia conducendo.

Qualcosa di molto simile sta succedendo dentro la chiesa cattolica e al pontificato di Bergoglio.
Non si è mai visto, almeno nella storia recente, un tale livello di contestazione del papato, tanto che diversi esperti stanno parlando del rischio scisma nella chiesa di Roma. Il motivo va probabilmente cercato nel tentativo di papa Francesco, per quanto prudente, di riformare la chiesa cattolica nel solco delineato dal concilio Vaticano II. I termini collegialità e sinodalità, oltre all’insistenza per una chiesa meno universale e verso il modello sacramentale-patriarcale di chiesa di chiese, è fumo negli occhi per chi vede il rischio di rompere con una tradizione ecclesiale e teologica a forte impronta gerarchica e centralistica in senso romano.
Da qui gli attacchi: dai Dubia dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner (2016), fino alla clamorosa contestazione dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò (2018).
Universalità-centralismo-tradizione, da un lato, e collegialità-sinodalità-comunità, accompagnati dallo stile della povertà e misericordia che pone la priorità dell’incontro con la persona in qualunque situazione rispetto alla rigidità dottrinale, dall’altro, paiono i termini di uno scontro senza precedenti, che avviene, anche in questo caso, sul crinale della diversità.
Occorre avere ben chiari i termini della questione per comprendere lo spessore della sfida. Lo fa molto bene il teologo africano Léonard Santedi Kinkupu, ponendo il quesito se la chiesa sia oggi in grado di mantenere in armonia unità e letture diverse della rivelazione, nella consapevolezza che una cattolicità aperta implica, in prospettiva, una diversità delle formulazioni delle verità di fede nell’ordine etico, religioso, teologico e dottrinale.
O la pluralità-diversità è la nuova frontiera anche per la chiesa di Roma, innescata dal concilio convocato nel 1962 da papa Roncalli, oppure prevale il timore di rompere con un ordine secolare e con una tradizione sostenuta da un corpulento pensiero dogmatico, col rischio di compromettere l’autorità di una struttura ecclesiale che nell’unità si è lungamente autocompresa come soprannaturale e consequenziale veicolo della verità rivelata.
E finché la diversità è motivo di paure, la tentazione di guardare indietro, e non avanti, giocherà fino in fondo la sua partita.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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