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Scommetto che anche tu – proprio tu che stai leggendo – muori dalla voglia di dire la tua sulle ultime misure del governo. Magari avevi appena aperto un locale, dopo anni di sogni, pensieri, progetti, e adesso non sai come pagare i debiti. Magari fai il cuoco, e se non puoi dare da mangiare alla gente non hai da mangiare tu. Oppure sei uno che ha passato venti giorni in una terapia intensiva con un tubo in gola. Oppure sei un infermiere di un reparto Covid. La mattina ti metti il pannolone per pisciarci dentro, ti bardi con lo scafandro, preghi Dio o lo imprechi e parti per le dodici ore di turno.

Se appartieni ad una delle prime due categorie (che ne esemplificano altre cento: il pizzaiolo, il barista, lo sceneggiatore, l’attore, il tecnico delle luci) sono sicuro che stai maledendo il governo di incapaci che ti è toccato in sorte. Se sei un malato o se curi la gente, sono sicuro che tu al loro posto avresti completamente sprangato le città, così da non rischiare di beccartelo ancora, o così da avere forse, tra un mese, un turno di riposo. Dal virus, dalla gente, dalla paura, da tutto. E poter dormire.

Se non stai morendo di Covid ma rischi di morire di fame, la paura di ammalarti è soppiantata dalla paura di fallire. Di non essere in grado di mantenere la tua famiglia. Se hai un lavoro “sicuro” ma ti sei ammalato seriamente o è successo ad un tuo congiunto, vuoi solamente guarire e raccontare con un post su facebook quanto è brutto quello che hai passato, che c’è gente che sta addirittura peggio di te e che col Covid “non si scherza”.

Adesso, in autunno, con la seconda curva in crescita, per il Governo non è più così semplice. A marzo contava solo la parte sanitaria. Adesso le persone sono più stanche e più povere, e si erano illuse che fosse finita. Molte di loro hanno speso soldi per mettersi in regola e poter lavorare. Se tutti questi sacrifici e tutte queste aspettative vengono deluse, le persone non sono più disposte a sopportare, e il credito concesso si trasforma all’istante in rabbia popolare.

E’ una classica storia italiana. Siamo bravi a non affogare quando abbiamo l’acqua alla gola (non a caso la Protezione Civile è uno dei nostri fiori all’occhiello), ma quando si tratta di pianificare l’uscita dall’alluvione, la nostra atavica incapacità di organizzare il futuro prende il sopravvento. Conte ha un bel dire che ristorerà tutti coloro che hanno subito il blocco delle attività. Purtroppo, la burocrazia nostrana – la vera padrona del vapore – è in grado di sbriciolare la più filantropica delle iniziative legislative. Non sono naturalmente nelle condizioni di affermare che avrei potuto concepire di meglio di questo secondo lockdown. Nessuno dei contestatori è nelle condizioni di farlo: infatti nessuno ha idee migliori, tranne l’ovvia pretesa di chiudere un settore che non sia il proprio (chi la scuola, chi i supermercati).

Un discorso a parte lo meritano le attività culturali. Lo voglio vedere il ristoro riservato a dei teatri di periferia o a circoli ricreativi che non hanno nemmeno un bilancio degno di questo nome. Lo voglio vedere come troveranno il parametro reddituale sulla base del quale indennizzare una compagnia di teatro sperimentale, un archeologo, un tecnico del suono, un editor, uno sceneggiatore, un traduttore, un restauratore. Queste attività si muovono normalmente in una zona grigia, molto tendente al nero, lavoratori e attività “autonome” che sono soggette alla precarietà e all’incertezza in una situazione ordinaria, figuriamoci in mezzo ad una pandemia. Perchè la cultura non è fatta solo di grandi musei, di grandi orchestre, di grandi teatri, di artisti che radunano folle plaudenti e fatturano come un’azienda di dieci persone. Il patrimonio culturale della penisola, enorme e sovente disseminato nelle chiesette più sperdute della provincia italiana, è lasciato nell’ incuria. Basta vedere la teoria di ville storiche diroccate o i siti archeologici abbandonati che chiunque può incontrare in uno qualunque dei propri viaggi alla scoperta delle “meraviglie dell’arte”. E’ come trovarsi in eredità una fortuna in bellezza, potenzialmente più redditizia di tutto il petrolio estraibile dai pozzi arabi, e non prendersi nemmeno il disturbo non dico di manutenerla, ma almeno di darle una spolverata al mese, come si fa coi soprammobili di casa propria.

Cosa volete che freghi alla nostra “classe dirigente” della cultura. “Con la cultura non si mangia”, disse più o meno letteralmente un ministro delle Finanze qualche anno fa. Esagero?

Gli stanziamenti in Legge di Bilancio (LdB) per le missioni “Turismo” e “Tutela dei Beni Culturali” sono aumentati negli ultimi anni dopo un calo dovuto alla crisi del 2008, anche se ammontano a solo lo 0,15 per cento del Pil e lo 0,3 per cento della spesa primaria. Inoltre, l’Italia spende meno nelle “Attività culturali” (0,3 per cento di Pil) rispetto alla media europea (0,4 per cento) e ai paesi più simili al nostro come Francia (0,6 per cento), Spagna o Germania (0,4 per cento entrambi).

Nel bilancio dello stato le spese relative al patrimonio culturale italiano sono in gran parte incluse in due missioni di spesa: “Tutela dei Beni Culturali” e “Turismo”. Nel 2019, la spesa per le due missioni era di appena lo 0,15 per cento del Pil e lo 0,3 per cento della spesa primaria (cioè il totale delle spese della Pubblica Amministrazione al netto degli interessi sul debito pubblico). Gli stanziamenti per le due missioni sono iniziati a decrescere a partire dagli anni della crisi, passando dallo 0,11 per cento del Pil del 2008 allo 0,08 per cento del 2011 (Fig. 1). In seguito, c’è stata una lenta ma costante risalita fino al recupero e sorpasso (nel 2016) del livello del 2008, arrivando al 2019 con un valore uguale allo 0,15 per cento del Pil.

Un altro modo per misurare la spesa pubblica in cultura, adatto soprattutto ai confronti internazionali, è l’utilizzo della contabilità COFOG (classificazione internazionale della spesa pubblica). La spesa pubblica italiana in “Attività culturali” ammontava, nel 2018, a circa 5 miliardi di euro, cifra grossomodo stabile negli ultimi anni. La spesa in “Attività culturali” sul Pil è rimasta invariata negli ultimi anni a circa lo 0,3 per cento. L’Italia (Fig. 2) si colloca al di sotto della media dell’Unione Europea (0,4 per cento del Pil), e comunque al di sotto di altri Paesi come Spagna e Germania (0,4 per cento) e Francia (0,6 per cento). Spendiamo meno persino della Grecia, in proporzione (non un lusinghiero termine di paragone). (fonte: https://osservatoriocpi.unicatt.it/).

 

No, direi che non esagero. Eppure il nuovo corso della cultura a Ferrara è riuscito a trovare il modo di far guadagnare qualcuno. Peccato che sia una famiglia di privati, che prende una lauta percentuale (il 20 per cento) dei soldi incassati dai biglietti d’ingresso al castello Estense (attenzione: di ogni tipologia di biglietti, non solo di quelli per vedere la mostra), e questo perchè dentro il Castello è ospitata la sua collezione privata di opere d’arte. Costi di allestimento e accessori tutti a carico del Comune. Un classico caso di collettivizzazione dei costi e privatizzazione dei ricavi, per non parlare del gigantesco conflitto di interessi (lo Sgarbi maschio è anche stato nominato presidente di Ferrara Arte). Una famiglia il cui più celebre membro bercia in ogni occasione, compreso in Parlamento, senza mascherina, ma si permette il lusso di dare del “fascista” al Presidente della Camera che gli intima di rimettersela sul muso. Il tutto mentre si ingegna per organizzare a Palazzo Koch una mostra agiografica sul più celebre fascista ferrarese, Italo Balbo.

Ne vedremo delle altre, di queste miserie (redditizie, per qualcuno). Ne abbiamo appena vista una, sul web: un video osceno, girato in una sala del Comune, in cui l’assessore ombra dice “e adesso andiamo a prenderlo nel c…o come dice il Papa” e l’ombra di assessore chiosa “sono d’accordo”. Quando una figura così grigia, così impalpabile, si presta a fare da spalla di un così miserabile spettacolo, viene da domandarsi quanto valga per questa gente il decoro di una funzione ricevuta per grazia.

Per leggere i precedenti articoli della rubrica SCHEI di Nicola Cavallini clicca [Qui]

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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